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Vice Blog

IL LETTERALMENTE DEL MESE

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Avete presente l'introduzione che avevamo fatto per le recensioni musicali (ovvero che non erano nel nuovo numero perché il nuovo numero è il numero di fotografare, non di recensire)? Vale anche per la nostra rubrica sulla carta stampata, Letteralmente. Anche questo mese a cura di Serena Pezzato, anche questo mese piena di libri belli e non, però a questo giro potreste ritrovarvi a leggerli in spiaggia, o in una città d'arte, o in montagna (se siete anziani lettori di VICE).

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P.S.: Ecco, dopo questa noi ce ne andiamo in vacanza per una settimana. Ci risentiamo il 25.

IL BEL TEMPO
Joe Matt Coconino Press

In questo momento storico è statisticamente probabile che conosciate almeno tre persone in procinto di realizzare un fumetto autobiografico. Le molte librerie che hanno aperto sezioni dedicate ai "graphic novel" (li chiamano in questo modo) ora le vedono intasate di narrativa ombelicale. Ma non è sempre stato così. Anche solo una dozzina di anni fa, l'autobiografia a fumetti era ancora un movimento sano, e poco affollato. C'era il gruppo dei canadesi, soprattutto: Julie Doucet, Seth, Chester Brown. E Joe Matt, che è di Philadelphia, ma in quel periodo viveva a Toronto senza visto. Ha raccontato quei giorni in uno dei miei libri preferiti, Spent (che in italiano non c'è ancora, a differenza de Il bel tempo): come spesso capita con Joe, si tratta di uno dei diari più sinceri, ma davvero, che vi possa capitare di leggere. Racconta com'è passare giornate intere chiuso in una lurida stanza canadese in affitto, a segarsi senza soluzione di continuità guardando personali best-of di porno in VHS (nel senso che Joe produceva quelle cassette da sé, montando insieme le sue scene preferite dei film dell'epoca). Dentro quelle cento pagine c'è tutto il materiale narrativo che serve per un Grande Romanzo Moderno: ossessioni, depressione/euforia, sesso marcio, collezionismo, dialoghi fra giovani artisti. Il bel tempo non è Spent: qui Joe non racconta la sua vita a trent'anni, ma a undici. Il che significa che non c'è sesso, né ci sono dialoghi fra giovani artisti. In compenso anche questo è un gran romanzo, che gira intorno alla pesante bromance fra il piccolo Joe e il suo migliore amico Dave. Il rapporto fra i due è di quel genere cinico-crudele di cui tutti abbiamo avuto esperienza: essere bastardo coi tuoi amici è regola, se sei un pre-adolescente. Quindi, riassumendo: di autobiografia a fumetti in giro ce n'è a carriole. I fumetti costano tanto. Meglio non farsi tirare in mezzo dagli altri libri, che siano firmati David Small, Alison Bechdel o Gipi: Joe Matt è ben più indispensabile, nella vita.

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MICHELE R. SERRA

NUDE SENSITIVITY Sasha Kurmaz Atem Books

Le informazioni che ho riguardo Sasha Kurmaz sono di tre tipi: ci sono quelle oggettive (è un fotografo, si fa chiamare Homer, è nato il 9 settembre 1986 a Kiev, dove vive tuttora, ed è quindi della Vergine); quelle derivate dall'aver guardato a lungo i suoi lavori, che parlano tantissimo del suo temperamento e della sua sensibilità e ironia; e poi c'è quello che ho percepito di lui in maniera diretta, grazie al fatto che qualche mese fa abbiamo lavorato assieme ad un progetto di fanzine e relativa mostra chiamato Germ Free Adolescents, e che oltre a Sasha coinvolgeva altri due suoi conterranei, Dmytrij Wulffius e Igor Okunew. Per me e Serena Pezzato, mia compagna in quell'avventura, avere a che fare con loro e le loro email è stata l'highlight dell'autunno/inverno 2010, sotto forma di ventata di genuinità e talento istintivo. Forse in questa sede dovrei concentrarmi sulle fotografie, anche se penso che parlare di fotografia (un po' come parlare di musica) sia un'operazione infelice per natura-tipo limonare con un istrice, o sciare in salita. Partiamo quindi dalla cover, una cascata di capelli neri che è stata ad un passo da diventare la nostra foto preferita del 2010, perché è quello che si è più elegantemente avvicinato al concetto di "io sono così e per il resto non me ne frega un cazzo". Dentro invece ci troverete una galleria delle cose preferite di Homer, e della versione metaforica delle sue cose preferite: ad Homer piacciono molto i buchi, le armi contundenti (soprattutto la principale, ovvero l'organo sessuale maschile), i capelli rossi, le stratificazioni, le rotondità. Spero di essere riuscita nell'intento di farvi venire voglia di comprarvi sta fanza, così magari arriva qualche spiccio nelle tasche di Homer, lui ci viene a trovare in Italia, e finalmente lo possiamo abbracciare e tirargli i peli delle basette. O la pelle del prepuzio.

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GIORGIA MALATRASI

INVENTIONS I LIKE
Claudio Pogo Pogo Books

Le fanzine sono spesso approssimative e noiose. Questo non lo sapeva Claudio Pogo, italiano all'estero che ha fondato a Berlino la PogoBooks, casa editrice specializzata in libri d'arte e (guarda un po') fanzine che si chiama come chi l'ha creata. Comunque, sorpresa!, il lavoro in questione non è affatto noioso (al contrario, fa ridere molto), e il fatto che sia approssimativo ce lo annuncia già il titolo, che sembra più o meno dire: «Sono invenzioni che mi piacciono, non mi rompete i coglioni.» Molto bene. Ora, le dinamiche sono poco chiare: non si capisce se il signor Pogo si sia infilato in un ufficio brevetti degli Stati Uniti e ne sia uscito giorni dopo stringendo sotto braccio una serie di schede-brevetto delle invenzioni più buffe oppure se queste schede le abbia trovate altrove, fatto sta che Inventions I Like è una serie, ahimè troppo breve, di invenzioni brevettate tra gli anni '70 e oggi. Dotato anche di immagini illustrative, include (le mie preferite): Metodo per nascondere la calvizie (1977), Walkman complicatissimo da allacciarsi addosso con una serie-si direbbe-di cinture di sicurezza (1988), Zainetto porta-macchina fotografica a forma di ippopotamo (2004). Lo sguardo di Pogo è tenero e non sembra mai quello di uno che si vuol fare assumere in SIAE per intitolare la propria fanzine Stronzate che certa gente spaccia per poesie. C'è da dire che alcune invenzioni (aprite tutti alla pagina della Tuta antisqualo con le punte) sono molto meglio delle poesie. Nella vita ho sempre sognato di andare a un concerto di roba dura per poi recensirlo e scrivere "un signor Pogo." Grazie VICE che oggi me ne hai dato l'occasione.

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LAURA SPINI

DREAMWEAPON
Angus MacLise Boo-Hooray

Il "primo batterista" di una band famosa è una specie di figura mitologica caratterizzata dal superpotere della sfiga suprema, e che si affianca ad altre figure tipo "la prima moglie molto meno figa della seconda", "il figlio avuto dalla prima moglie che muore a 32 anni per abuso di cocaina e Fifa '94". Per farla breve: scesazza. Questo è il caso di Pete Best, che si ritrova una pagina di Wikipedia di ben 4.399 caratteri per dire che non era buono a suonare, per nulla simpatico, e che è finito a lavorare in comune mentre gli ex-compagni scalavano le classifiche di tutto il mondo, esploravano milioni di mutandine a fiori e dimensioni parallele abitate dal brucaliffo. Questo però NON è il caso di Angus MacLise, primo batterista dei Velvet Underground, poeta, pioniere del drone, adepto di Aleister Crowley, padre del primo lama reincarnato con gli occhi non a mandorla (suo figlio Ossian), e batterista paragonabile solo a Tony Allen che notoriamente non è un essere umano ma un'entità paranormale. Angus diventa famoso, pre e post Velvet Underground, per la sua curiosità ritmica che lo porta suonare tutto quello che esiste di suonabile, e per la sua peculiare capacità di combinare due tracce di ritmi diversi all'interno della stessa canzone. Angus era pure un poeta, drogato, hippie, alle volte stomachevole, ma un poeta. Nel libro qui recensito si trovano appunti, manifesti, foto, poesie, spartiti e volantini dei suoi concerti, e tra le varie cose è molto divertente notare come tutti i collage à la tumblr con le immagini etnografiche non siano altro che brutte copie di roba fatta negli anni Sessanta proprio da gente come MacLise.

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SERENA PEZZATO

TEENAGE KISSERS
Ed Templeton Seems Books

L'altro giorno sul tram, seduta davanti a me, c'era una coppia di giovani adulti-avranno avuto 27/28 anni-che limonava di fronte a tutti con passione, quasi come non ci fosse un domani. Per quanto fosse solo un bacio, la cosa era totalmente fuori luogo, un misto tra il ridicolo e il volgare-e vi posso assicurare che la mia concezione di "ridicolo" e "volgare" è piuttosto estrema. Per quanto mi riguarda poi, limonare è una delle cose belle della vita, uno di quei pochi gesti che ti permette di entrare in stretto contatto con una persona e allo stesso tempo di mantenere un certo distacco, una certa leggerezza d'animo. Questo per dire che, nonostante in generale sia molto bello, limonare è una cosa che ha i suoi tempi e le sue circostanze. Nello specifico, il tempo dei limoni è l'adolescenza. Così come guardare due quasi-trentenni trescare in pubblico risulta imbarazzante, vedere due teenager che si baciano con la lingua in mezzo alla gente è una cosa quasi rinfrescante (NO PEDO), per quanto goffi quei baci possano in realtà essere. In Teenage Kissers, Ed Templeton riesce a cogliere questa sensazione davvero bene, con una serie di foto scattate molto prima di internet e di quei milioni di autoscatti di coppiette più o meno emo che si baciano (quelle in cui si vede il braccio di chi ha in mano la macchina, per capirci) che imperversano da anni sui vari blog, facebook, tumblr. Delle foto che sono appunto spontanee e fresche, selvagge e tenerone allo stesso tempo, come una slinguazzata adolescenziale. Io tra l'altro non ricordo molto delle mie prime teen-limonate, ma mi piace pensare che siano state come quelle nelle foto di Ed.

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LORENZO MAPELLI

MATTERHORN
Karl Marlantes Rizzoli

Karl Marlantes è un reduce della guerra in Vietnam che è diventato uno scrittore per condividere con tutti noi le cose incredibili—perlopiù orribili—che ha visto o che gli sono capitate. E fin qui niente di strano, ce ne sono stati tanti. La cosa un po' strana è che Marlantes ha debuttato come scrittore l'anno scorso, cioè nel 2010, ovvero trentacinque anni dopo la fine della guerra di cui scrive. Diciamo che Karl si è preso il suo tempo per darci Matterhorn—talmente tanto che a un certo punto il manoscritto aveva raggiunto le 1600 pagine, poi saggiamente ridotte a oltre 600—ma ne è valsa la pena, visto che questo romanzone contro ogni aspettativa è diventato un best seller e soprattutto è forse il libro definitivo sulla guerra del Vietnam. Il che non significa che sia il migliore o il più bello. Non è un pezzo di grande letteratura come Albero di fumo di Denis Johnson e non è nemmeno evocativo quanto The things they carried di Tim O'Brien, eppure come esemplare di romanzo bellico "puro" è senz'altro più completo, realistico e dettagliato di entrambi. È la storia della formazione alla guerra di Mellas, un ufficiale fresco di accademia che non è mai stato in prima linea e quindi è anche una storia sulla difficoltà e la responsabilità di comandare, in cui ci sono tutte quelle cose imponenti entrate nella mitologia del 'Nam: le veglie notturne sotto i monsoni, i Vietcong minacciosi e invisibili come spiriti della giungla, le insidie ambientali di un paese ostile all'occupazione fin dalla sua conformazione naturale, ma ci sono anche un sacco di splendide—almeno per me, magari noiosissime per altri—pagine di descrizione estremamente accurata degli aspetti più pratici e banali dell'esistenza di un soldato coinvolto in quell'umida guerra. Pagine in cui si respira il logorante lavorio della vita da campo, in cui riesci perfettamente a immedesimarti nei pensieri di un ventenne che da un giorno all'altro si ritrova spedito dall'altra parte del mondo su un'altura circondata da una foresta tropicale, brulicante di nemici che lo vogliono morto, di tigri e serpenti, di sanguisughe che gli si attaccano al pisello, di ragni delle dimensioni di un pugno ed è allora che—all'apice dell'immedesimazione, quando praticamente sei lì nella merda anche tu—per un solo istante, prima di sollevare lo sguardo e dirigerlo fuori dalla finestra della tua rassicurante città europea, ti ritrovi a pensare quello che devono aver pensato tutti: "Adesso mi sveglio e torna tutto a posto".

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CESARE ALEMANNI

TOILET PAPER MAGAZINE - SUMMER 2011
Maurizio Cattelan - Pierpaolo Ferrari

Annegare bambini sviluppa i bicipiti. Però, come dicono gli americani, "don't try this at home", perché un corpo nell'acqua della vasca da bagno che si agita in spasmi genera pastrocchi sul pavimento, e li devi pulire tu (IV° legge dell'idrodinamica di Archimede). A meno che tu non sia Maurizio Cattelan e puoi permetterti una donna delle pulizie, una persona che sviluppi i bicipiti al posto tuo e Pierpaolo Ferrari a immortalare la scena-a quel punto, se la foto è uscita bene subito, puoi anche risparmiare la vita a quella povera creatura. Toiletpaper, il progetto editoriale di Cattelan, è composto da una serie di fotografie in cui vengono messe in scena le fantasie e l'immaginario dell'artista. Avevo giurato di non dire mai una frase del genere, ma tant'è. Tutto bello—l'immaginario, non la mia frase. È quello di cui è fatta l'arte, no? Però questa è una pubblicazione con una certa scadenza venduta a 10 € per circa 20 foto, che pescano tutte da un'unica mente e influenzate da un unico gusto visivo: patinato, con colori saturi, tendente alla fotografia anni Settanta, con i feticismi non convenzionali, la provocazione, l'ipertricosi. È un immaginario strutturato e organizzato. Non mi suonava bene, e pensando di essermi persa qualcosa ho chiesto a una persona che conosce l'arte di dirmi quale poteva essere il significato di tutto ciò. La risposta è stata: "Non l'ho capito neanche io. Ma ormai è da tanto che ci ha gabbati tutti." Che è quello di cui è fatta l'arte, no?

CHIARA GALEAZZI

TEMPORARY SPACES
Martin Eberle Gestalten

Quando vado a ballare sono sempre troppo ubriaca per guardare negli occhi le persone con cui parlo, troppo sbranata per rendermi conto di chi o cosa limono e troppo storta per vedere dove metto i piedi. Spesso penso che questo atteggiamento, oltre a portarmi a disagi sociali non indifferenti, mi impedisce anche di cogliere una serie di dettagli deliziosi di ciò che mi circonda, che farei meglio a rimanere un po' più lucida e godermi magari anche il contesto delle mie sbornie. Forse una riflessione di questo genere ha spinto Martin Eberle a documentare l'evoluzione degli spazi in cui negli anni Novanta i berlinesi si distruggevano di alcol eccetera, fotografandoli immobili e vuoti, quando la festa è ormai un ricordo lontano-per chi se ne ricorda qualcosa. Queste fotografie, e gli aneddoti che le accompagnano, mostrano come un paese da poco riunito possa raccogliersi, ricostruirsi ed affermare la propria identità anche attraverso la distruzione, e Berlino ne è sicuramente la prova. E proprio a Berlino in questi giorni è in corso la mostra Rave is Over, che presenta questa raccolta e include anche immagini della precedente serie Aftershow. Per chi si trovasse da quelle parti, vi consiglio di passare alla mostra, poi di guardarvi bene intorno e pensare intensamente al fatto che tutto ciò che ci circonda è precario e transeunte e a come la nostra società sia costruita sulle macerie. Anzi no, andate a fracassarvi di alcol e spaccate tutto.

BRITNEY SPRITZ