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Come il film su David Foster Wallace mi ha fatto passare la voglia di leggerlo

Per gusti e attitudine personale Wallace è in assoluto lo scrittore che ho apprezzato di più. Oggi il film esce in Italia, ed è il momento di fare un bilancio malinconico sulla piega stilizzata che ha assunto il suo immaginario.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Oggi nelle sale italiane verrà presentato The End of the Tour, il film tratto da Come diventare se stessi di David Lipsky—una lunga intervista-reportage a David Foster Wallace realizzata alla fine del tour di presentazione di Infinite Jest, nel 1996. Il film esce a poco più di sette anni dal suicidio di Wallace, sette anni in cui l'immagine di questo scrittore ha subito uno strano mutamento legato alla propria morte, al legame quasi inscindibile con cui la sua scrittura è stata fusa e identificata con la depressione, e ovviamente all'importanza che questo autore aveva per moltissimi lettori affezionati. Come il sottoscritto.

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Ci tengo a precisare che questo non vuole essere un pezzo di santificazione, o quel genere di commento del tipo "vi spiego quello che non avete capito": perlopiù è una riflessione un po' malinconica sulla piega stilizzata che ha assunto l'immaginario di uno scrittore che per me, e per una marea di altre persone, aveva un certo significato, e sul perché questo film in parte la incarna pienamente, quando in realtà avrebbe potuto essere qualcosa di leggermente diverso e migliore.

Per gusti e attitudine personale—e probabilmente anche a causa del periodo della mia vita in cui ho scoperto i suoi libri—Wallace è stato in assoluto lo scrittore che ho apprezzato di più. Anche se sono sempre stato consapevole dei difetti della sua scrittura e non l'ho mai reputato il "migliore", per un lungo periodo di tempo ho letto e riletto i suoi libri con la minuzia che si dedica solo alle cose che in qualche modo ci ossessionano. Fino alla scorsa estate continuavo a rileggerlo periodicamente.

Quando poi il film è uscito negli Stati Uniti, alla fine dello scorso luglio, mi trovavo a New York e sono andato a vederlo pieno di buone speranze, perché il libro di Lipsky mi era piaciuto abbastanza. Come diventare se stessi, infatti, è un ritratto sotto forma di dialogo pieno di piccoli aneddoti e riflessioni per i lettori appassionati, ma che soprattutto riesce a comunicare in modo abbastanza esplicativo i motivi per i quali un nuovo lettore potrebbe avvicinarsi alla scrittura di Wallace. Mi sembrava interessante capire come questo si potesse tradurre in un film.

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Dopo averlo visto, però, non sono più riuscito a riprendere in mano un libro di Wallace senza pensare a quanto la figura e la natura iconica assunta da questo scrittore sia distopica rispetto ai suoi libri o a quello che, almeno secondo me, voleva comunicare.

L'autore fuori da un cinema americano con un fan di David Foster Wallace vestito da David Foster Wallace.

Credo anzi di non sbagliare nel dire che ogni persona che ha letto e apprezzato Wallace ha vissuto tutto il riconfezionamento stereotipato di questo autore, avvenuto dopo il suo suicidio (ma che in un certo senso era già partito anni prima), come una presa per il culo del destino. È tristemente ironico che uno degli scrittori che aveva saputo comunicare meglio di tanti altri quanto il filtraggio delle immagini e delle impressioni da parte dei media, dell'iperconsapevolezza e della comunicazione contemporanea riesca a destrutturare un essere umano, sia finito per diventare un'icona.

"La voce di un'intera generazione"; "Il genio dolente"; "La mente più brillante e angosciata del nostro tempo": quando vedo le fascette di promozione sopra i suoi libri o leggo gli articoli di approfondimento su di lui nella sezione cultura dei quotidiani non riesco a non ripensare a una frase che Wallace aveva utilizzato in un saggio parlando di Dostoevskij: "Trasformare qualcuno in un'icona equivale a trasformarlo in un'astrazione. E le astrazioni non sono in grado di comunicare con i vivi."

In questi sette anni Wallace è diventato quel tipo di personaggio di cui si conosce perfettamente il profilo e la collocazione cultural-popolare anche non avendo mai letto nemmeno una riga di quello che ha scritto. Un autore citato in un brano de I Cani intitolato "Hipsteria", il cui catalogo dopo il suicidio si è arricchito della trascrizione di un discorso tenuto per il conferimento delle lauree venduta nelle librerie americane come un vero e proprio libretto di haiku motivazionali. Con le singole frasi pubblicate in grassetto a pagina intera.

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E The End of the Tour, pur essendo tratto dal libro di Lipsky, è l'ultimo tassello di tutto quello che, almeno secondo me, c'è di sbagliato nel "culto di Wallace".

Jason Segel è veramente molto bravo nel ricalcare la mimica nevrotica e la voce dolce e strascicata di Wallace, ma per tutto il film l'immagine che crea avvalora qualsiasi deduzione grossolana che in tutti questi anni è stata fatta su questo autore: l'identificazione con la malattia che lo ha portato alla morte e con una sorta di dolore generazionale, l'aura di nevrosi e insicurezza, l'esemplificazione del suo essere "disperatamente affamato" nelle immagini in cui si riempie di caramelle e di Pop-Tart.

Tutte queste sfumature sono presenti, sotto forma di dettagli o riflessioni, anche in Come diventare se stessi. Ma nel libro assumono un'altra forma: da un lato sono semplicemente delle inezie (come quella delle Pop-Tart) che fanno piacere ai lettori accaniti (un po' come scoprire che Hemingway scriveva in piedi e teneva una tabella numerica delle parole che produceva), dall'altro sono riflessioni che riescono a comunicare bene quanto ogni aspetto sia complesso, pieno di rimandi e rifrazioni, ma soprattutto legato a quella che rimane la vita quotidiana di una persona reale. Nel film, invece, servono solo a "creare un personaggio".

Il contrappunto di tutta questa atmosfera è incarnato dal personaggio di Lipsky, interpretato da Jesse Eisenberg, una specie di giornalista-labrador che segue Wallace per più di 100 minuti con una tazzina immaginaria cercando di raccogliere tutte le gocce di saggezza sofferta che gli cadono dalle labbra: una trasposizione talmente superficiale di tutta la parte di invidia-ammirazione che il vero Lipsky comunica nel libro da renderla quasi completamente un'altra cosa.

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Ed è questo il punto: ogni caratterizzazione o vezzo che nel libro aveva una valenza vivida e spingeva ad approfondire lo scrittore Wallace è andata perduta nel film. Una delle cose che mi ha più colpito, ad esempio, è il modo in cui viene liquidata la parte in cui Lipsky si chiede quanto effettivamente Wallace "menta" durante il loro incontro e abbia costruito un personaggio per difendersi dall'esposizione a cui è sottoposto. Una parte argomentata con diverse battute in cui si parla di autenticità, della difficoltà nel provare a frenare il proprio ego e a trovare qualcosa di meritevole per cui vivere, e di come soprattutto questo si leghi alla letteratura e a quello che Wallace voleva scrivere.

Esiste un corrispettivo nel film: durante un battibecco Eisenberg/Lipsky rinfaccia a Wallace di non essere una persona autentica, in modo talmente brusco che non può essere reale. Segel/Wallace con uno sguardo intenso si limita a osservare, con tono accusatorio, "Tu non credi a una sola parola di quello che dico!" Segue un silenzio profondo e significativo. Da quel momento nel film è palese come il personaggio di Wallace si affermi come autentico; dopo quella scena è incontrovertibilmente vero che tutto quello che ha detto, sta dicendo, e dirà è sincero.

Una scena che, secondo me, serve ad ancorare ancora di più l'immagine dell'animo puro della sagoma cartonata che è diventato Wallace, una specie di martire della condizione consumistica/americana/esistenziale che tutti in parte condividiamo. Nella realtà del libro al contrario questo dubbio resta sospeso, ed è giusto che sia così: sono questo genere di questioni involute e con mille rimandi che in parte incarnano i motivi per cui si dovrebbe leggere Wallace.

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Per come la vedo io, è un vero peccato che The End of The Tour sia stato girato così. Ovviamente un film non poteva ricalcare tutte le sfumature del libro, e in qualche modo è anche gradevole da guardare, ma il risultato finale è talmente votato al riassunto di un "personaggio" che si perde totalmente la sua capacità di comunicare quello che a me (che ho regalato i suoi libri a talmente tante persone da venir considerato quasi un rivenditore) sarebbe piaciuto trasparisse da questa storia, e che magari spingesse qualcuno ad approfondirla.

Il risultato è opposto: guardando questo film uno spettatore potrebbe semplicemente veder confermata l'icona che ha assorbito dalle fascette altisonanti e dagli articoli in cui un essere umano e la sua opera vengono ridotti semplicemente a una parte della sua vita, per quanto determinante. Uno stereotipo che ti spinge a riflettere esattamente per il tempo necessario a raggiungere il parcheggio del cinema dove hai lasciato la macchina e stimola soltanto le parti morbose del tuo interesse.

La mattina dopo aver visto il film mi sono infilato in un piccolo alimentari di Brooklyn e ho comprato delle Pop-Tart: la prima cosa che ho scoperto è quanto in realtà facessero schifo. La seconda è la sensazione di leggera vergogna che ho provato pensando al motivo per cui l'avevo fatto.

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