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Anti-Santi

Lana artificiale

"È come se qualcuno avesse trovato un app per iPhone per la personalità, un Instagram per sviluppare perfetti fenotipi indie paraculi." - Bucknasty sul fenomeno Lana Del Rey.

Lana Del Rey è apparsa ad agosto in un video su Youtube sgranato, desaturato e pixellato. Il solito destino di ogni tipo di media di successo al giorno d’oggi, consumato inevitabilmente nella sua qualità peggiore e più degradata. Il suo “Video Games” non sembra neanche un video ufficiale, ma piuttosto uno dei tanti montati amatorialmente da fan grazie a 8000 € all’anno di scuola di cinema, una copia crackata di Final Cut e qualche .avi di Antonioni o della nouvelle vague francese.

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Ed è proprio su questa ambivalenza che sembra basarsi tutto il personaggio Lana Del Rey. Il video è un *non sequitur* fra immagini di World of Warcraft, femme fatale come Paz De La Huerta di Boardwalk Empire che cade ubriaca dopo una premiere, video super8 di vacanze, trick di skateboard completati, paparazzi anni Quaranta a cui esplodono i flash durante ogni scatto, il sole che brucia la California degli hippie, primi piani Skype di Lana che mostra le sue “dick sucking lips” e così via. È come se qualcuno avesse trovato un app per iPhone per la personalità, un Instagram da calibrare a piacimento per sviluppare perfetti fenotipi indie paraculi. Il tutto appare artificioso, un’approssimazione imperfetta, ma passabile, di qualcosa che necessita di anni di esperienza e mestizia prima di essere conquistato con profitto e rispetto.

Il tutto sembra ancora più evidente se si considera che prima di Lana Del Rey esisteva Lizzy Grant: un’anonima cantante senza acconciatura da pinup anni Quaranta, senza labbra a canotto, senza Interscope a scrivere una narrativa vintage da cheerleader persa nella foresta con coltellino nascosto nelle calzette bianche per pompare la sua ascesa.

Questo, alla fine, è tutto quello che è stato eviscerato dal personaggio. Quello che è venuto fuori negli ultimi sei mesi di critica musicale, ossessionata dal dimostrare che la musica pop è—addirittura—non autentica. Paradossalmente tutto questo è partito grazie al fatto che "Video Games" venne premiato come “Best new track” da Pitchfork; che automaticamente scatenò hype e quindi un immediato backlash. Una progressione impossibile da notare a occhio nudo per chi non ha mai fatto un djset senza aver suonato il suo vecchio Game Boy. Il momento in cui Lana Del Rey ha smesso di essere semplicemente considerata una delle tante nuove banali cantanti e si è trasformata in un simbolo per cui vale la pena combattere.

Questo può sembrare strano, o addirittura malato. Del resto Bob Dylan non si chiama Bob Dylan, il papà di Joe Strummer era un ambasciatore importante, i Ramones votavano Reagan, gli Arcade Fire sono sempre stati dei fighetti e sono piuttosto sicuro che anche Drupi non sia un nome vero. Il punto dell’odio livoroso verso Lana Del Rey risiede quindi in un’implicita insicurezza del “giornalista musicale” medio. Terrorizzato dal fatto che le temibili “major” abbiano infine sbloccato il codice per creare in serie musicisti indie perfettamente indistinguibili da quelli veri; anzi ora più belli, con voci migliori, con una presenza scenica che magari supera quella di una vittima di uno stupro di gruppo. Lana Del Rey distrugge l’idea che queste persone siano parte di una “scena”, che loro simili li apprezzino, stimino e riescano a capirli. Vaporizza gli ultimi 15 anni passati ad allineare un’auto-stima a un genere musicale. A un movimento. Come se tutto l’investimento materiale ed emotivo nella musica indie fosse stato solo un videogioco da bar, e ora qualcuno avesse rubato loro tutti i gettoni.

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