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A9N2: Il settimo numero di VICE dedicato alla moda

De Nîmes

Il lungo viaggio dei blue jeans.

Un contadino mostra il suo fidato paio di blue jeans a Pie Town, in New Mexico, nel 1940. Foto per gentile concessione di Russell Lee / Biblioteca del Congresso. Prima di avere i jeans a vita bassa, a gamba dritta, stretti, elasticizzati, cerati, profumati, o ascellari, c’era soltanto il jeans—il tessuto. Il nome deriva da Gênes, in riferimento alla città di Genova, dove i marinai indossavano un twill ottenuto intrecciando cotone, lino e lana trattato con l’indaco, che iniziava ad arrivare dall’Oriente. Oggi i jeans sono di tessuto più pesante, ricavato completamente dal cotone tessendo i fi li tinti di indaco in verticale con il fi lato naturale in orizzontale, così da creare la superficie punteggiata di bianco del tessuto e il rovescio chiaro. E malgrado il termine denim venga da Nîmes, in Francia—de Nîmes—alcuni sostengono che sia originario dell’Inghilterra. Dopo l’emancipazione degli Stati Uniti dalla dominazione britannica, gli ex-coloni smisero di importare il denim e cominciarono a produrlo con cotone americano, raccolto dagli schiavi nel Sud e filato, tinto e tessuto nel Nord. La rivoluzione industriale fu ampiamente alimentata dal commercio dei tessuti, che sosteneva quasi da solo la schiavitù. Quando le macchine per sgranare il cotone permisero la meccanizzazione del processo nel 1793, i prezzi, già bassi grazie al lavoro forzato, calarono ulteriormente. Aumentò la domanda di beni a basso costo, e si instaurò un circolo vizioso. Nel periodo tra l’invenzione della macchina sgranatrice per il cotone e la Guerra Civile, la popolazione degli schiavi passò da 700.000 a 4 milioni. Dopo la Guerra Civile, aziende come Carhartt, Eloesser-Heynemann e OshKosh proponevano tute di cotone per minatori, ferrovieri e operai. Un immigrato bavarese di nome Levi Strauss aprì a San Francisco un negozio in cui vendeva abbigliamento da lavoro. Jacob Davis, un sarto di Reno con una mentalità imprenditoriale, comprò il denim di Strauss per farne pantaloni da lavoro, e applicò dei rivetti metallici per evitare che le cuciture si aprissero. Davis spedì due campioni dei suoi pantaloni a Strauss, e depositarono insieme il brevetto. Poco dopo, Davis raggiunse Strauss a San Francisco per supervisionare la produzione in una nuova fabbrica. Nel 1890, Strauss assegnò alle sue “tute al girovita” il numero di identificazione 501. Era nato il jeans Levi’s 501, che sarebbe diventato il capo più venduto nella storia dell’umanità. Inizialmente i jeans erano indossati dai proletari nel West, ma i benestanti della costa orientale iniziarono ad avventurarsi alla ricerca dell’aspra autenticità da cowboy. Nel 1928, una giornalista di Vogue tornò da un ranch del Wyoming con una fotografia in cui “indossava dei blue jeans…con un sorriso impossibile da trovare in tutta l’isola di Manhattan.” Nel giugno 1935, sul giornale apparve un articolo intitolato “Dude Dressing”, forse uno dei primi pezzi di moda che spiegava ai lettori l’arte di consumare il denim: “Corre al negozio del ranch per chiedere un paio di blue jeans, che lascia segretamente a galleggiare nella vasca da bagno piena d’acqua la notte seguente—più spesso viene lavato un paio di jeans, maggiore è il suo valore, soprattutto se si ritira. Un’altra innovazione—più recente, se posso dare la mia opinione—ha luogo nel cuore della notte, e senza dubbio dietro porte chiuse: uno strappo intenzionale qua e là sul retro dei jeans.” A quell’epoca, i jeans erano nostalgici souvenir di un West sempre più chiuso e piccolo. Negli anni Trenta, i bufali si erano quasi completamente estinti, la maggior parte dei nativi americani era stata messa nelle riserve, e i contadini avevano diviso e recintato quella che una volta era una terra vasta e sconfinata. I Levi’s erano introvabili a est del Mississippi, cosa che li rese la quintessenza del marchio californiano. Al resto del Paese non importava sapere se i veri cowboy indossavano i blue jeans, quando a farlo erano star del cinema come John Wayne, Will Rogers, Gene Autry, e William S. Hart. Braccianti raccolgono il cotone alla piantagione Alexander in Arkansas nel 1935. Foto per gentile concessione di Ben Shahn / Biblioteca del Congresso. A Sud, mentre scomparivano i mezzadri, i jeans avevano tutt’altra connotazione. In un numero della rivista Life del 1941 apparve un servizio di moda intitolato “Doris Lee Offers the Southern Negro”, contenente di una serie di schizzi nello stile di Maira Kalman che rappresentavano donne afroamericane con top corti, turbanti e gonne colorate, affiancate a fotografie di donne bianche vestite in modo simile. Il testo diceva: “[L’artista] sostiene che questi negri degli Stati dei Sud, più primitivi che altrove, hanno una disposizione verso il colore, ‘proporzioni peculiari’, grandi risorse e candore nel reinventare gli abiti smessi.” Un paio di immagini includevano “tute slavate… prontamente trasformate in blue jeans al polpaccio.” Il servizio suggeriva che, come il blues, la moda del blue jeans fosse ispirata, o rubata, agli afroamericani. Non sorprende che i jeans non si siano imposti tra le mode dei neri per decenni, ricordando una brutale storia di violenza, oppressione e sfruttamento. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i soldati americani all’estero indossavano i jeans quando erano fuori servizio. Da lì, il fascino dei blue jeans iniziò a crescere ovunque. Per esempio, le autorità della Germania dell’Est notarono la prevalenza di “pantaloni da cowboy” in una rivolta operaia del 1953. I jeans rappresentavano la ribellione anche nell’America del dopoguerra, ma i marchi non erano pronti ad associare i loro prodotti a delinquenti antiautoritari come il Marlon Brando fasciato nei 501 de Il selvaggio. Anzi, lo spostamento semiotico era considerato come un fastidioso scarto dalle curate locandine dei film di cowboy del passato. Il selvaggio,dopotutto, era basato su una vera rivolta scatenata da un gruppo di motociclisti in California. I giornali si assicuravano di scrivere se i criminali indossavano blue jeans, e i licei li proibirono. I produttori cercarono di edulcorare l’immagine dei jeans con slogan come “Clean Jeans for Teens” e “Jeans: Right for School.” Formarono addirittura un’organizzazione chiamata Denim Council per curare il concorso di bellezza “Reginetta del blue jeans” e vestirono i primi volontari dei Corpi di Pace di JFK. Ma fu tutto inutile. Verso la fine degli anni Sessanta, attori del calibro di Steve McQueen, Paul Newman e Dennis Hopper infiammavano gli schermi con film come Nick Mano Fredda e Easy Rider, mentre la controcultura veniva assimilata dalle masse e gli adolescenti diventavano un mercato che deteneva un serio potere d’acquisto. “Che il consumismo di massa, con tutta la standardizzazione che implicava, potesse in qualche modo
essere riconciliato con l’individualismo rampante fu una delle intuizioni più intelligenti mai fatte dalla civiltà occidentale,” ha scritto lo storico Niall Ferguson nel suo Occidente: Ascesa e crisi di una civiltà del 2011. Il punto fatto da Ferguson era riscontrabile su scala internazionale, ed è un enigma sociologico dell’era della Guerra Fredda: in quanto capi di abbigliamento proletari, economici e diffusi, i jeans erano per l’URSS il principale simbolo della civiltà dei consumi. Lo storico riassume così: “Forse il più grande mistero di tutta la Guerra Fredda è il perché nel Paradiso Operaio non si sia riusciti a produrre un paio di jeans decenti.” Quando motociclisti e beatnik hanno adottato i jeans, le aziende hanno cercato di edulcorarne l’immagine mostrando una gioventù dall’aspetto curato che indossava blue jeans. Foto per gentile concessione di Levi Strauss & Co.  Life ne ha osservato i risultati nel 1972. “Ai russi sensibili alla moda potrebbe venire perdonato l’aver considerato i blue jeans una cospirazione capitalista internazionale.” Un paio di Levi’s di contrabbando poteva valere 90 dollari sul mercato nero russo, e i viaggiatori americani si finanziavano le vacanze in Europa vendendoli. Gli ufficiali sovietici hanno coniato il termine “crimini di jeans” per descrivere “le violazioni della legge dovute al desiderio di ricorrere a qualunque mezzo per ottenere articoli in denim.” Negli anni Settanta, il jeans ha cominciato a entrare nel mondo dell’alta moda. Stilisti americani tra cui Ralph Lauren, Oscar de la Renta, Geoffrey Beene e Calvin Klein hanno trasformato i jeans in un bene di prestigio traendo immediatamente beneficio dalla loro operazione. Klein in particolare ha capito il potenziale erotico di un sedere stretto in un paio di jeans ancora più stretti. Dopo il fallimento commerciale della sua prima incursione nel denim nel 1976, ne ha rivisto il taglio, alzando il cavallo per enfatizzare il pacco e tirando su le cuciture sul retro per accentuare le natiche. Tre anni dopo, Klein aveva conquistato il 20 percento del mercato di marca, passando da 25 milioni di dollari di introiti a 180. Questo accadeva prima che il denim elasticizzato invadesse il mercato, quindi quei jeans non erano soltanto insolitamente aderenti e alti in vita, ma anche pesanti e spietati: così stretti e rigidi da costringere le donne a sdraiarsi e a usare le pinze
per tirare su la cerniera. Se il fitting aderente ha definito gli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, la fase successiva della cultura del denim si è incentrata sull’aspetto del tessuto, ottenuto con un serie di strumenti tra i quali pietre, candeggina e lavaggi all’acido, forbici e spille da balia. Questo look può essere nato sulle strade, ma molto presto stilisti come Vivienne Westwood e Dolce & Gabbana hanno fatto sfilare in passerella denim di ispirazione punk. Nel 1988, il nuovo caporedattore di Vogue, Anna Wintour, ha messo un modello di jeans slavati Guess
sulla sua prima copertina. A metà anni Novanta, il denim era proprietà dell’alta moda. Tom Ford decorava, ingioiellava e impumava i jeans di Gucci. Consumati e un po’ grandi, pendevano dalle anche delle modelle e venivano venduti a più di 3.000 dollari. “Precedendo
l’arrivo nei negozi, il primo lotto è stato venduto su prenotazione,” scriveva il New York Times. “Winona Ryder, Mariah Carey e Helen Hunt hanno ordinato la gonna; Gwyneth Paltrow e Cate Blanchett i jeans. Le cantanti Lil’ Kim, Janet Jackson e Madonna hanno ordinato entrambi.” Malgrado tutte le potenziali insidie sul suo cammino, Diesel è stato il primo marchio che è riuscito con successo a portare il denim disegnato in Italia e accuratamente rovinato ai consumatori delle periferie. Il marchio ha spianato la strada ai pantaloni a zampa d’elefante e ai whisker (quelle linee slavate nelle pieghe che si allargano dalla cerniera) a circa 100 dollari. Seven for All Mankind, Habitual, Citizens of Humanity, Paper Denim & Cloth, True Religion, Chip & Pepper, Earl, Yanük, Frankie B., e troppi altri per citarli qui hanno fatto lo stesso inserendo filati elasticizzati nei tessuti, per facilitare la vita bassa che rende visibile il perizoma. Calvin Klein avrà caricato le pubblicità dei jeans di rimandi sessuali con Brooke Shields all’inizio degli anni Ottanta, ma anche Gucci se la cavava bene. Foto per gentile concessione di Advertising Archives. E ora, nel mezzo della grande recessione, si è chiuso il cerchio, con la domanda relativamente recente di nostalgici jeans “d’annata” che richiamino l’industrialismo poco produttivo della Grande Depressione: camici e tute slavate fino a diventare blu fiordaliso, e pratiche salopette scure e grossolane. Come i loro precursori degli anni Venti e Trenta, questi jeans sembrano permeati da una triste nostalgia per un Paese scomparso (ma stavolta con un taglio migliore). Siamo entrati nell’era della moda di Dorothea Lange—vestiti con cardigan di lana infeltrita, resistenti camicie di flanella e robusti stivali da lavoro, periodo della Depressione dalla testa ai piedi. Il look viene riprodotto in riviste come la giapponese Free & Easy, da dove arriva molto del sopraccitato denim d’annata. Negli anni Settanta e Ottanta le efficienti fabbriche americane hanno messo a punto un prodotto economico in grossi volumi. I giapponesi sono andati nella direzione opposta, lavorando con stilisti famosi e usando vecchi telai a spoletta e filati meno consistenti. Il prodotto ha una particolare cimossa (il bordo non tagliato del tessuto appena uscito dal telaio) diventata feticcio degli snob del denim di ogni dove. Quando si consumano acquistano molto più carattere dello sfocato denim ultra lavato degli ultimi decenni. Una nuova razza di blogger documenta ossessivamente il disintegrarsi dei suoi jeans, catalogando dettagliatamente marchi, anni, lavaggi e usura. La maggioranza degli americani non si può permettere il sogno di un paio di jeans su misura, con filatura ad anello e cerati, per quanto attraenti e speciali. La maggior parte compra i suoi jeans in posti come Walmart, in cui un duo-pack di jeans del marchio della catena, Faded Glory, a circa 22 dollari. Adeguandolo all’inflazione, è lo stesso prezzo che la giornalista di Vogue ha pagato per un paio di jeans nel 1928. Ovviamente questi jeans economici hanno un costo non visibile in termini di posti di lavoro negli Stati Uniti. Secondo la Cotton Incorporated soltanto l’un percento dei jeans in vendita negli Stati Uniti è frutto della produzione locale. Nel 2009, la maggioranza delle fabbriche di denim americane aveva chiuso, e i produttori trasferivano gli impianti in Cina, Messico e Bangladesh. Glenn Beck ha affrontato la questione l’anno scorso con la sua linea di jeans fatti in America (129,99 dollari a botta) lanciata attraverso una campagna pubblicitaria sciovinista, dopo essere rimasto infastidito dalle pubblicità Levi’s, che secondo lui celebravano “rivoluzioni e progressismo.” Beck non è sicuramente il primo acquirente Levi’s che assimila i suoi valori alla marca dei suoi jeans, ma per quanto possiamo nostalgicamente aggrapparci ai nostri pantaloni, non si tratta più solo di noi. Il mercato americano dei blue jeans è in declino; America Latina e Asia guidano il futuro del denim. Detto questo, c’è una piccola catena di produzione di denim di qualità ancora attiva a Los Angeles, e uno dei primi fornitori di Levi’s, Cone Denim, produce tuttora i suoi tessuti in Carolina del Nord. Forse una di queste produzioni riuscirà a crescere fino a diventare un’attività su larga scala e renderà di nuovo il “Made in USA” accessibile alle masse. O forse il blue jeans sopravvivrà soltanto quale miglior contributo dell’America agli armadi di tutto il mondo. Fino ad allora, loro se ne staranno ancora qua. Scoloriti, consumati, e allentati. Ma ancora qua. Il più vecchio  paio di Levi’s 501  noto, risalente circa al 1890, è stato ritrovato in una miniera nel Deserto del Mojave. La seguente timeline mostra le trasformazioni del 501 dalla fine dell’Ottocento al 1978. Foto per gentile concessione di Levi Strauss & Co.