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stili di gioco

Titì goes meme

Poche immagini sono in grado di sintetizzare così bene un calciatore e il suo stile come l'ultima esultanza di Henry, e lui se l'è fabbricata da solo, con la consapevolezza e il carisma accumulati nel corso di 22 stagioni da professionista.

Ok, la notizia è che Thierry Henry è diventato un meme. Non è neanche una vera notizia dato che è successo più o meno una una settimana fa, che nel tempo di internet equivale a più o meno un anno della vera vita. L'henrying sarebbe il modo in cui Titì sembra aver deciso di esultare d'ora in avanti, o almeno come ha esultato per i suoi ultimi due gol. Questo è il modo in cui il 15 settembre ha deciso di festeggiare così il suo quattrocentesimo gol in carriera (QUATTROCENTESIMO).

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Henry henrying

Kick Tv ha scomposto gli elementi dell'henrying in quattro punti, per farne un meme del tipo howling, ma internet sembra preferirlo come meme tipo l'esultanza di Balotelli, tagliando la silhouette di Henry e appiccicandola in contesti ironici o foto famose.

Tipo qui.

Poche immagini sono in grado di sintetizzare così bene un calciatore e il suo stile come questa, e Henry se l'è fabbricata da solo, dal niente, o meglio con la consapevolezza e il carisma accumulati nel corso di 22 stagioni da professionista. (E in effetti questa è la ragione per cui non ha preso piega la versione fai da te del meme: nessuno tranne Henry può mettersi in quella posa perché nessuno ha la storia di Henry. L'henriyng lo possono fare solo dei megalomani col complesso di Re Mida e 400 gol in carriera.)

È sempre stato al tempo stesso timido e gradasso, autenticamente cool e auto-ironico, ed è normale che sia stato lui ad innalzare l'arte di esultare senza esultare fino a farsi meme. L'8 settembre contro Houston, Henry si era trascinato fino al punto d'appoggio più vicino per riprendere fiato, usando la porta avversaria come decoro per la sua scenetta, ha guardato un attimo in terra e si è girato verso i compagni con l'espressione esausta e divertita di Will Smith nel finale di uno qualsiasi dei suoi film, quando abbandona il personaggio pensando “Man, I'm good.” E il sottotesto è che Henry può permettersi di essere stanco perché gli viene tutto troppo facile, al punto che potrebbe anche scusarsi, o scoppiarvi a ridere in faccia, o tutti e due. Poi contro il Toronto ha preferito tenere lo sguardo fisso in terra, come se quella posa fosse un momento di interiorità, una posa profonda.

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Stagione 2000/01: “Ogni volta che riguardo questo gol penso tipo: l'ho fatto davvero? Sono tutto istinto, mi sentivo di farlo ed è entrata.”

Un'altra scena in cui si vede bene la combinazione di intelligenza e narcisismo, ambizione e generosità di Henry è quella della fine del 2011 quando è stata inaugurata la sua statua in bronzo fuori dall'Emirates Stadium. Con l'Arsenal ha vinto due campionati e cinque trofei tra FA Cup e Community Shield, ma ha soprattutto fatto parte della squadra che i tifosi ricorderanno sempre come Gli Invincibili: 49 partite consecutive in campionato senza sconfitte (tutta la stagione 2003/04 più l'inizio della seguente). Di quella squadra facevano parte anche Viera, Bergkamp, Sol Campbell, ma nessuno tranne Thierry Henry ha una statua fuori dall'Emirates. Durante il discorso Henry si è commosso. “Lo so che certa stampa mi ha ucciso perché non mostravo le mie emozioni,” ha detto mentre dal pubblico qualcuno ha fatto partire il suo coro: “Ma eccoci qui, adesso sto esprimendo le mie emozioni, per la squadra che amo.”

D'altra parte, se fosse stato davvero solo un individualista non si sarebbe appassionato così a fondo alle vicende dei club in cui ha giocato, se non si fosse sentito parte di qualcosa non sarebbe stato così amato dai suoi tifosi. In un documentario sul suo periodo a Londra Henry ricorda che i primi tempi, in cui non segnava e sembrava non impegnarsi, ci avevano pensato Tony Adams (anche lui con una statua fuori dall'Emirates, ma ha lasciato nel 2002), Martin Kweon e Lee Dixon a fargli capire cosa significava giocare con l'Arsenal. Adams stesso insiste sul fatto che parte del successo di Henry sia dovuto al suo grado di partecipazione nella storia del club. Durante l'ultima partita prima della demolizione di Highbury ha segnato una doppietta, e dopo il secondo gol su rigore Henry ha esultato inchinandosi e baciando il manto erboso. In tre stagioni a Barcellona, in cui ha vinto quanto nelle otto precedenti in Inghilterra, compresa la Champions League che gli mancava, ha preso a cuore la causa catalana (“Io penso questo: la Catalogna non è Spagna, è qualcos'altro e questa è una cosa che si sente”), poi si è innamorato di New York al punto da tatuarsi la Statua della Libertà e il ponte di Brooklyn su tutto l'avambraccio sinistro, vicino a un ritratto del figlio.

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L'ultima esultanza a Highbury: “Non me l'ero preparata. Era solo un addio in realtà.” Henry resterà per sempre il giocatore ad aver segnato più gol in quello stadio (oltre che, per ora, nella storia dell'Arsenal).

C'è un video di Henry giovanissimo, un ritratto in cui il presentatore lo introduce al pubblico francese come un coatto ambizioso: “È la storia di un ragazzo di periferia, emigrato da Les Ulis a Monaco.” Nipote di uno sprinter (quattrocentista), madre della Guadalupe come il padre, una guardia privata che si è fatto licenziare pur di portarlo a una partita, fratello autista della metro, nell'intervista Titì ha i baffi e i dread, è un coatto per gli standard europei, ma è più ambizioso di quel che intende il presentatore. Monaco per lui è solo una tappa: “Non si sa mai, anche se non ce la faccio qui l'importante è emergere, quello che voglio è emergere e se lo faccio a Lille a Saint'Etienne o qualsiasi altro club, quello che voglio è giocare in prima divisione, giocare contro… giocare in prima divisione, è quello che voglio.” Nel video si vede Henry allenarsi e calciare alto a pochi metri dalla porta, compare Gerard Houllier che parla ovviamente della sua velocità e aggiunge che se alla fine delle sue azioni riuscisse anche a finalizzare come si deve potrebbe diventare un attaccante di altissimo livello.

Quando Wenger lo ha voluto all'Arsenal per rimpiazzare Anelka (che, due anni più giovane di Henry, era passato al Real Madrid dopo una stagione da 17 gol) Henry veniva da un anno complicato alla Juventus e soprattutto era considerato un giocatore di fascia. Wenger lo aveva fatto esordire a Monaco, Henry ricorda che c'erano giocatori con qualche anno in più che aspettavano di passare in prima squadra: “Perché ha scelto me? Non lo so. Vede cose che gli altri non vedono.” Adesso a Londra voleva farlo giocare lone striker: “Gli ho detto: al Monaco giocavo ala, in Nazionale gioco ala e ho vinto il campionato del mondo da ala, e tu vuoi farmi giocare punta? E Wenger: ‘Sì, dammi retta’.” Naturalmente aveva ragione Wenger e dopo le prime settimane (otto) a reti bianche Henry diventa il miglior marcatore della squadra quell'anno e per le successive sei stagioni (quattro volte capocannoniere della Premier League, due volte Scarpa d'Oro). Henry si è saputo adattare, ha accettato le responsabilità, è stato all'altezza della pressione. Nel 2004 ha ricordato: “Quando ero giovane cercavo di fare quello che volevo, non quello che il campo voleva che facessi. Direi che è questa la differenza.”

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Titì da giovane.

Il che non significa che Henry nel tempo abbia perso il carattere o la voglia di arrivare. Sempre nel 2004: “Youri Djorkaeff mi diceva a Monaco che sapeva che sarei potuto diventare un buon giocatore ma che quando avevo la palla non gli sembrava fosse veramente mia. Ma adesso, quando mi fermo e ho la palla so che è mia.” L'impressione nei suoi anni migliori era che quando la partita non si metteva per il verso giusto per Henry diventasse una questione personale. E considerato il talento, per Henry era davvero una questione personale. Nell'aprile del 2004, in piena striscia positiva, l'Arsenal va sotto in casa contro il Liverpool, 1-2. Henry segna una tripletta e per il gol del 3-2 (“Non ho mai sentito Highbury così”) prende palla a metà campo, salta un uomo accelerando verso sinistra, poi rallenta e punta il centrale della difesa prima di saltare anche lui, di nuovo a sinistra, e concludere di piatto destro sotto la pancia del portiere (e adesso che ci penso anche il piatto destro rasoterra sul secondo palo meriterebbe di diventare una statua o un meme, tanto è legata a lui).

Henry era così superiore (qui contro la linea a cinque dell'Italia e i calci di Cannavaro, Nesta e Pessotto) che poteva permettersi tutti i trick che voleva, il più famoso dei quali è il passaggio con la gamba d'appoggio, che sa fare anche di punta, o di rimpallo, calciando di destro sullo stinco sinistro, e che ha fatto anche negli Usa proprio durante la partita dell'henrying. E l'antipatia di Henry consiste proprio nel fatto che sa di essere troppo superiore agli avversari, soprattutto ai difensori inglesi di inizio secolo che di fronte alla sua agilità invecchiavano di colpo di una decina d'anni, sembravano di un'altra epoca. (Ma Henry non era solo veloce e se vi capita guardate qualche partite dei Red Bulls in cui si diverte a giocare da playmaker e da punta al tempo stesso).

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“Se ti prendono a calci e tu li prendi un po' in giro, gli fai un sorrisino, non c'è niente di male finché resta parte del gioco.” Era anche furbo (per ben due volte ha provato a segnare facendo il vago e soffiando la palla al portiere su rinvio—qui e qui) e in Francia non è molto amato per la cerniera vergognosa 2006-2010 e soprattutto per il fallo di mano contro l'Irlanda che ha permesso alla Nazionale di qualificarsi barando. A fine gara dice: “È normale, io ho perso una coppa d'Inghilterra così.” Ma i giornalisti francesi insistevano: “Hai pensato lì per lì di dirlo all'arbitro?” “Sì. Gliel'ho detto dopo.” “No, ma lì per lì?” “Allora, mi dovevo fermare, parlare all'arbitro e poi crossare? Molto divertente. No, davvero. Divertente.”

Henry vs i tifosi spurs.

Insieme all'henrying e al saluto dell'Highbury altre due esultanze di Titì fanno ormai parte della storia. La prima è quella scelta per raffigurarlo nella statua dell'Emirates, la celebre posa del derby del 2002 con il Tottenham quando, dopo un contropiede di 60 metri, ne ha corsi altrettanti in senso inverso per finire inginocchiato davanti alle gradinate dei tifosi nemici. “Ad essere sincero non so perché ho corso così tanto dopo il gol. Ogni volta che guardo quella foto vedo delle facce. Fastidio, rabbia. (Scuote la testa nel suo bel gilet di panno grigio con le fettucce di cuoio). Alcune facce non hanno nessuna espressione. Io le guardo e…” Il giornalista lo interrompe prima che si capisca se quella foto gli procuri piacere o cosa: “Sembra la tua foto preferita.” Henry serio: “Sì, non è falso. È una bella foto.”

La seconda è quella del 2012, quando dopo cinque anni di lontananza Henry torna per due mesi, in prestito. Era andato via lasciando un club in salute e lo ritrovava in un momento difficile. Dopo dieci minuti dall'ingresso in campo Henry segna il gol vittoria (un piatto destro a giro rasoterra), esulta allargando le braccia come suo solito ma stavolta l'emozione è troppo forte per tenerla dentro, spalanca occhi e bocca e se non fosse per la barba nuova si potrebbe pensare a un'allucinazione collettiva. Durante la stagione degli Invincibili ha dichiarato: “Sono ossessionato dall'idea di entrare nella storia.” E nel documentario citato sopra, di qualche anno dopo, quando gli viene chiesto come vorrebbe essere ricordato dai tifosi, Henry risponde: “Vorrei solo essere ricordato. Ho sempre detto che volevo entrare nella storia, fin da quando ho iniziato a giocare a calcio. E fare la storia significa lasciare una traccia, una prova di dove sei stato.”

Segui Daniele su Twitter: @DManusia.

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