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Cosa non dobbiamo fare dopo il tifone Haiyan

Le terribili statistiche sul passaggio del tifone ci sono familiari: migliaia di morti, milioni di sfollati, un numero ancora incalcolabile di case, scuole e aziende distrutte. Ma ogni disastro è diverso dall'altro, e ci sono errori che media e...

Un aereo militare passa sopra un villaggio devastato nei pressi della città di Tacloban, nell'isola di Leyte.

Le terribili statistiche sul passaggio del tifone Yolanda (o Hayan, come è conosciuto ai più) possono suonarci familiari: migliaia di morti, milioni di sfollati, un numero ancora incalcolabile di case, scuole e aziende distrutte. A ben vedere però, la tragedia è un caso unico.

È come nella prima frase di Anna Karenina: "Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo." Le caratteristiche della tempesta, e la combinazione di geografia, infrastrutture, cultura, e storia del luogo differenziano questa tragedia da tutte le altre, rendendo necessario affrontarla in un altro modo.

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Sembra ovvio a pensarci, ma di solito non ce ne rendiamo conto. Ci aspettiamo che queste situazioni seguano un modello sempre uguale. E, peggio ancora, le idee che abbiamo in testa si basano su miti che raramente si verificano nella realtà. Suppongo sia dovuto alla tendenza fin troppo umana che porta a reagire alle situazioni nuove con schemi introiettati in precedenza invece che limitarsi ad analizzare quello che si ha davanti.

Questo lo so perché sono stato lì. Come corrispondente estero, sono stato testimone di uragani, inondazioni, incendi e del terremoto di Haiti del 12 gennaio 2010, in assoluto la peggior situazione in cui mi sia mai trovato. Nelle mie prime calamità pensavo di sapere (senza molta preparazione e con poco aiuto da parte dei miei direttori) cosa aspettarmi: senso di impotenza delle vittime, saccheggi, lotte sociali e la minaccia incombente di malattie. Gli operatori umanitari e i soldati accorsi sul posto si aspettavano lo stesso, e cercavamo di confermare i nostri sospetti con speculazioni su speculazioni per poi andare alla ricerca delle prove, raccontando le cose più simili che potessimo trovare a conferma delle nostre ipotesi.

Una donna si asciuga il sudore dal viso dopo avere setacciato le macerie alla ricerca di materiali riutilizzabili.

La verità però è che spesso ci sbagliavamo. I saccheggi erano raramente un problema, e la violenza partiva in genere più dalla polizia che non dai sopravvissuti affamati. Una serie di studi scientifici ha dimostrato poi come le epidemie sono raramente collegate ai disastri naturali—eccetto nel caso in cui, a causa di una sfortunatissima coincidenza, un'epidemia non collegata al disastro sia già in espansione nella zona. E l'impotenza è una delle ultime cose che si possono trovare in una zona colpita da un disastro. Dalle zone alluvionali dei Caraibi alle strade buie della Staten Island post Sandy, ho visto solo persone che si sforzavano di reagire e che cercavano modi creativi per andare avanti e aiutare le loro famiglie e i vicini di casa.

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I giornali hanno sparato uno dei soliti titoli ad effetto per parlare delle Filippine: "I sopravvissuti al tifone si danno al saccheggio in preda alla disperazione," così recitava un lancio di Reuters ripreso dai media di tutto il mondo il 13 novembre. Nel Regno Unito, il Mirror ha mantenuto il tono misurato che ci si aspetta, sostenendo che le Filippine sono "sull'orlo dell'anarchia". Negli Stati Uniti, USA Today ha aggiunto: "Nelle Filippine i medici sono travolti dai malati e da folle di bisognosi."

Sopravvissuti si tappano il naso passando di fronte ad alcuni cadaveri.

Guardando più da vicino però, le storie raramente confermano questi titoli (che a ben vedere potrebbero essere stati aggiunti da un redattore lontano dalla zona del disastro).

Mentre i titoli sopracitati si riferiscono a eventi vagamente legati al disordine sociale e alle malattie, gli articoli stessi li contraddicono. I sopravvissuti di Tacloban che hanno disseppelito quei tubi d'acqua hanno mostrato chiaramente più intraprendenza che avidità, perché in mancanza di alternative hanno trovato un modo per avere acqua potabile. Anche la fonte di queste notizie, ovvero il sindaco della città, ha spiegato che "il saccheggio non è criminalità. È un atto di auto-conservazione."

Nonostante ciò, il Mirror ha scritto che la ragione della manomissione delle tubature d'acqua fosse "la rabbia e la frustrazione", il che non ha poi molto senso, se ci pensate. Un servizio di Channel 4 News ha mostrato il notevole stoicismo nella popolazione filippina. "Stiamo bene. Non abbiamo cibo, né elettricità—ma sai cosa? Siamo felici ugualmente," ha detto un cittadino. "I convogli con gli aiuti passano di qui e non si fermano. Non possiamo far altro che guardarli passare. Ma non possiamo perdere la testa per questo," ha detto un altro. Può sembrare una straordinaria forma di autocontrollo, ma in realtà è una reazione molto più comune del panico.

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Esperti di calamità come Erik Auf Der Heide del Centro americano per la prevenzione e per il controllo malattie, sostengono che la violenza e i problemi sociali siano estremamente rari dopo i disastri. Notano però che il timore sproporzionato delle autorità è spesso un pretesto per portare avanti una politica di "comando e controllo" che preferisce lasciare diverse aree senza aiuti umanitari dando così priorità alla tutela della proprietà privata e non a quella della vita umana. Se la missione dei Marines americani nelle Filippine sarà simile a quella di Haiti quattro anni fa, molti di loro sprecheranno preziose settimane (e milioni di dollari di fondi) prevenendo una crisi civile che non arriverà mai.

Per quanto riguarda l'allarme malattie lanciato da USA Today, bastano due frasi per capire che è un'esagerazione. Lungi dall'essere "sopraffatti dai malati", il reporter ha osservato che "i medici per ora curarano tagli, fratture e complicanze della gravidanza, ma si aspettano che il grosso debba ancora arrivare."

Su quali prove sono basati questi dati? L'articolo ipotizza che i sopravvissuti costretti a dormire all'aperto potrebbero essere a rischio di febbri tropicali e malaria, e che la mancanza di acqua potabile potrebbe portare ad un'epidemia di colera. Sembra tutto plausibile, ma in che condizioni dormivano le persone prima del tifone? La popolazione in questione sa già come comportarsi con le zanzare e le malattie trasmesse dall'acqua non proprio limpida? Sembra proprio che lo sappiano; uno dei "banditi dell'acqua" ha detto al reporter di Reuters, "non sappiamo se l'acqua sia potabile. Dobbiamo bollirla." Che è esattamente ciò che bisogna fare in questi casi.

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Alcuni soldati passano davanti a un aereo militare nell'aeroporto di Tacloban. 

Ad Haiti, le supposizioni imprudenti hanno portato ad uno dei più grandi disastri dei nostri tempi. Dopo che il terremoto aveva ucciso dalle 100.000 alle 316.000 persone, i soccorritori hanno ritenuto che potesse scoppiare un'epidemia di colera, tralasciando un piccolo dettaglio: non c'era mai stato un caso accertato di colera nell'isola, mai nella storia. Concentrati nel combattere una minaccia infondata, nessuno si è preoccupato invece di esaminare i caschi blu delle Nazioni Unite che avevano appena lavorato in Nepal dove era in corso un'epidemia di colera, né di ripristinare i servizi sanitari nelle zone rurali di Haiti. Gli scienziati sostengono che i batteri trasportati da quei soldati siano stati la causa dell'epidemia che ha ucciso finora più di 8.300 haitiani.

Il peggior preconcetto dei soccorritori e dei giornalisti quando arrivano nelle zone colpite da calamità c'entra col fatto di pensare che la vita del popolo colpito sia iniziata e finita con il disastro. Nelle Filippine, le strade dissestate e le già disastrose condizioni di viaggio hanno prevedibilmente ostacolato o rallentato i soccorsi. Ma la preparazione e la prontezza hanno sempre salvato più vite di qualsiasi altra risposta organizzata.

Ad Haiti, gran parte dell'attenzione dei media si è focalizzata sugli sforzi dei soccorritori stranieri per tirare fuori i sopravvissuti dalle macerie. Ma la triste verità è che i soccorritori hanno impiegato giorni per arrivare sul posto, e sono stati in grado di salvare solo 200 persone su migliaia di intrappolati. La maggior parte dei salvataggi è stata effettuata dai vicini di casa o dai primi soccorritori presenti sul luogo. Quindi la vera domanda da farsi è se saranno create delle strutture adeguate di protezione civile prima del prossimo disastro, in modo che le persone possano evitare di recuperare corpi dalle macerie quando è troppo tardi—un problema che poche associazioni umanitarie vogliono o sono in grado di fronteggiare.

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Un sopravvissuto passa di fronte a due navi trasportate nell'entroterra dalla tempesta, che hanno distrutto alcuni villaggi col loro passaggio.

Certo, può succedere di tutto. Quindi la soluzione è quella di tenere alta l'attenzione e cercare di capire davvero cosa stia succedendo. Nelle Filippine, le Nazioni Unite hanno di nuovo messo in atto il loro sistema a "blocchi", che prevede riunioni di coordinamento fra gli operatori per risolvere i problemi legati all'accesso all'acqua potabile, al riparo, o alle condizioni di salute. Questo sistema in pratica è fallito ad Haiti, principalmente perché le riunioni erano chiuse al pubblico e tenute in una lingua, l'inglese, che pochi conoscevano. Nelle Filippine sarà di gran lunga più utile per i soccorritori ascoltare i sopravvissuti e scoprire cosa stia realmente accadendo.

I soccorritori dovebbero inoltre essere sempre onesti con i loro donatori, fargli sapere se hanno effettivamente esperienza del luogo in cui andranno a lavorare (o eventualmente se hanno personale del luogo). I donatori e i giornalisti dovrebbero invece conoscere le finalità realistiche delle donazioni, e la somma richiesta per portarle avanti. E, soprattutto, i soccorritori dovrebbero essere responsabili per le persone che promettono di aiutare, rispettando sempre un principio elementare: prima di tutto, non nuocere. Troppo spesso queste cose non accadono.

L'ironia di Anna Karenina è che non ci sono realmente famiglie felici, tutte hanno i loro problemi. E lo stesso vale per i paesi. Nessuna delle nostre città e delle nostre case è immune dai disastri, e in questo mondo surriscaldato e affollato le calamità sembrano più probabili che mai. In ogni caso, per arginare i disastri è necessario capire la situazione e continuare a lavorare fino a quando i problemi reali non saranno risolti. È quello che ci augureremmo per le nostre famiglie, dopo tutto.

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