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Musica

Abbiamo intervistato le Warpaint

Le Warpaint ci parlano del loro nuovo omonimo LP e del perché è bene che ci piaccia

“Devi scendere a… come si dice?” mi chiede Emily Kokal al telefono e io non ho ne idea. Si risponde da sola ed esclama “Compromessi!” con una certa soddisfazione. Avrei dovuto immaginarmelo.

“Dovrei tatuarmelo,” aggiunge, e poi, come se le fosse stata posta una domanda che in realtà non è mai arrivata, continua “Non è vero, è proprio nella mia anima adesso.”

L'album da liceali della sua band, le Warpaint, è pronto fra due settimane e devo confessarle che i primi ascolti sono stati duri, ma non nel senso comune. Warpaint non è un disco ingodibile, non è neanche innecessariamente complesso, o privo di sorprese. Anzi, l’album tiene al sicuro i suoi segreti, specie le prime volte. E ascoltarlo può farti pensare di star parlando alla band, tipo ricevere una domanda alla quale non ti rendi conto di saper già rispondere.

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Più che una soddisfazione, l’arte di Warpaint non si manifesta appena termina l’esperienza dell’ascolto, ma quando ti fermi a cercare di risolvere il suo mistero, dato che la band esprime davvero tutto quello che vuole con la musica. Eppure esistono indizi. Tipo, la copertina dell’album, disegnata dal marito della bassista Jenny Lee Lindberg, Chris Cunningham, regista di “Come to Daddy” di Aphex Twin. L’immagine ritrae le quattro donne, Kokal, Lindberg, Theresa Wayman e Stella Mozgawa, come esseri trasparenti, tutte in un unico spazio così che la loro presenza fisica è poco distinguibile l’una dall’altra. È una rappresentazione visiva di ciò che Kokal sostiene di avere nell’anima—il compromesso.

“Quando abbiamo cominciato a suonare, l’unica cosa dalla quale ci sentivamo affascinate era il fatto che la musica suonava molto fluida e naturale,” dice Lindberg durante un’altra telefonata. “Non avevamo bisogno di parlare di come sarebbe stata la canzone, lo diventava e basta. Ma via che scrvevamo più canzoni e crescevamo insieme, tutto comincia a cambiare. Cominci ad avere le tue opinioni e idee personali. Così oggi è importante essere coscienti l’una dell’altra, tenendo conto che non ci sono solo io nella band, e non si fa solo quello che voglio io. Diventa molto importante ascoltarsi a vicenda, all’interno e all’esterno della band. E credo che questo disco dimostri l’evoluzione.”

Poco dopo averlo detto, Lindberg cita una dei nuovi pezzi delle Warpaint, per descrivere la loro coesistenza con un titolo. “Keep it healthy,” dice.

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E lo fanno. La band si fonda ancora sull’amicizia, stanno insieme a lungo, e si sono pure stanziate a Joshua Tree Park per tre settimane, per dedicarsi al meglio alla realizzazione dell’album. Dopo tutto, Warpaint è il loro primo album registrato e scritto tutto insieme, mentre l’LP di debutto, The Fool, è stato il prodotto di anni di raffinamenti. Le dinamiche interne alla band, però, rimangono dubbie. Certo, abbiamo avuto modo di vedere squarci della loro vita, ma aneddoti come l’unione tra la Wayman e il menestrello bass-drop James Blake, o il legame con Hollywood di Lindberg tramite la sorella Shannyn Sossamon, un’ex Warpaint, sembrano tutti un po’ troppo frivoli se comparati ai loro live evocativi o all’estetica brumosa.

Nonostante tutto, con quel velato distacco che si ha quando si parla con sconosciuti, la personalità della Kokal emerge per vie traverse. La band viene ricordata per avere tra le influenze l’hip hop, e se la cosa non è direttamente connessa all’album in modi che un qualsiasi ascoltatore possa percepire, non è difficile da confermare nel momento in cui la Kokal parla del Wu-Tang Clan quando nomina “Bees” di The Fool, o tira fuori Notorious B.I.G. riferito al suo nome Cristiano, Chris Wallace. Ma non c’è mai la sensazione di star conoscendo Kokal o Lindberg, che sembrano ben decise a parlare solo della band.

“È bello che quando la gente pensa a noi, pensa alla musica e non alle persone che la fanno,” dice Lindberg, che in parte è vero. Più nello specifico, le Warpaint sono un tutt’uno, le singole parti sono molto difficili da individuare. Non che ogni membro non sia riconoscibile dentro o fuori la loro musica, ma l’insieme è diverso; un’entità più forte delle sue componenti. Lindberg va ben oltre l’abbattere l’importanza di avere una band di sole femmine, dicendo “Non pensiamo mai a noi come a una band di sole ragazze, e in un sacco di aspetti probabilmente siamo dei maschi.”

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Kokal non è così sprezzante a riguardo, ricordandosi di un viaggio in Russia in cui ha potuto testimoniare l’importanza delle donne che suonano con altre donne, ma portare avanti questo credo non è ciò che interessa alle quattro.

Neanche del successo mainstream importa molto. L’album non include una futura hit, nemmeno tracce che si potrebbero prendere e ascoltare a oltranza, “Disco // very” e “Love Is To Die” sono quelle che ci arrivano più vicino. E sebbene il prodotto finale possa rappresentare una relazione simbiotica all’interno della band, Kokal descrive il processo creativo come “una battaglia tra quattro persone”, prima di fornirci le visioni più rivelatrici della conversazione.

“Per natura, il dibattito è una grossa componente del nostro lavoro,” dice Kokal. “Se una dice rosso, l’altra dice blu quasi solo per aggiungere un intero spettro di colori a come potrebbero essere le cose. Devi modellare il tutto in modo che non perda potenziale, ma che abbia i colori di tutte. Quel processo è una degli aspetti più difficili e appaganti dell’essere in una band.

Poi continua “Un sacco di volte hai un’idea, e può essere la tua personale idea di come vuoi qualcosa, ma l’intero sistema della band consiste nel collaborare e permettere alle altre di entrarci, fidandoti di quello che fanno perché apprezzi le loro espressioni artistiche e ciò che possono apportare. Così arrivi a qualcosa di completamente diverso, e forse l’idea che avevi amato all’inizio non c’è neanche più, oppure altre volte rimani molto attaccato a quella originale. È un processo in continuo cambiamento. Un album e il modo in cui esce non dipendono solo dalle canzoni, ma dalla collaborazione tra noi quattro e Flood [produttore], e tutto quello che abbiamo passato per arrivare a questo punto. Il punto è dov’eri in quel momento e su come tutto è cambiato. E con questo, specie se lo fai con onestà e arte, cosa che credo facciamo, permetti alla musica di esistere, la estrai, fai sì che la gente la apprezzi e vai avanti. A volte è quella la parte più difficile, andare avanti e assicurarsi che il tot di persone che mette le mani su qualcosa di nostro non lo snaturi.

A un certo punto Kokal rigira la conversazione e comincia a chiedermi delle pressioni che ho come scrittore. Anche Lindberg mi parla della pressione che hanno sentito mentre erano a Joshua Tree, del tornare con del materiale valido per l’album. E infatti, dopo averne parlato con loro, l’ansia del voler dare una spiegazione ai loro lavori, di scoprire i loro caratteri, di vederle come quattro artiste molto più complesse di un insieme di canzoni… sembrava tutto insignificante, come rispondere a una domanda retorica. Eppure la musica è sempre più bella, ogni volta.

“Una particolarità della nostra band,” dice Kokal alla fine “è che non siamo mai state una roba per tutti, specialmente se paragonate alla musica pop, perchè non abbiamo mai scritto con quella struttura. Non è mai stata una priorità. Ma credo anche che abbiamo trovato un nostro pubblico che percepisce la nostra musica in una maniera molto simile a come la percepiamo noi. Il modo in cui i fan hanno risposto in passato, è stato in sostanza il modo in cui noi stesse sentiamo di essere. La gente che ha bisogno di quelle sensazioni, o che le vuole e le sente, le sente davvero. E allo stesso modo, per noi è una sensazione molto bella.”

Ma per non diventare troppo smielati, Kokal aggiunge “Quindi fate in modo che vi piaccia.”