FYI.

This story is over 5 years old.

Stuff

Ho preso un caffè con il ragazzo che ha cercato di violentarmi

Non tutti mi hanno incoraggiata a fare qualcosa dopo quello che è successo, quindi ho voluto provare a sistemare la situazione per conto mio. Volevo sconvolgerlo, come lui ha fatto con me.

Illustrazione di Julia Kuo.

Quando entro nel bar e mi guardo intorno alla ricerca di un volto familiare ho il cuore che batte all'impazzata. Riconosco immediatamente la sua figura allampanata seduta nell'angolo in fondo, con gli occhi fissi sull'Evening Standard. Ignoro la nausea e gli vado incontro. Alza lo sguardo e mi rivolge il suo sorriso migliore.

"Vuoi un pezzo di muffin ai frutti di bosco?" chiede, togliendosi le briciole dalla giacca. Rifiuto e mi siedo. Dopo una pausa imbarazzante mi chiede, "Ora mi puoi spiegare perché siamo qui?" Faccio un sospiro profondo e comincio a raccontare.

Pubblicità

Avevamo entrambi 22 anni, ci eravamo appena trasferiti a Londra e avevamo diversi amici in comune. Lui era incredibilmente timido—il tipo che quando è in gruppo scompare—ma qualcuno mi aveva fatto notare che sembravo piacergli. A quanto pare ha detto delle cose carine su di me. Lusingata, la volta successiva che usciamo in gruppo per festeggiare il weekend decido di parlarci. Rimango sorpresa dal fatto che è insolitamente spavaldo. Scopro che ha passato quasi tutto il pomeriggio a bere sotto il sole estivo.

Parliamo tutta la sera e mi fa bere un bicchiere dopo l'altro. Alla fine della serata si offre di fare insieme il tragitto verso casa mia, dato che la sua fermata è sulla stessa linea. In qualche modo riusciamo a infilarci nell'ultimo treno della nottata, lasciandoci alle spalle le luci del nord di Londra.

Uscendo dalla metropolitana mi giro e lo vedo in piedi sulla banchina, mentre la metropolitana se ne va. Sono un po' innervosita, ma più che altro scocciata. "Hai perso l'ultima corsa! Perché sei sceso?" gli chiedo. "Non c'è problema," risponde tranquillo. "Dormo da te." In quel moemento mi rendo conto che a casa mia non c'è nessuno.

"Va bene," rispondo. "Ma non nel mio letto. C'è il letto della mia coinquilina."

A quel punto sbotta, "Perché?" Gli dico che non mi va di fare cose con lui, un po' infastidita dal bisogno di giustificarmi. Il suo sguardo si fa scostante e arrabbiato. Mi dico di non cedere ai suoi capricci.

Pubblicità

Una volta a casa però torna alla carica. Chiude a chiave la porta di ingresso, mi spinge sul letto e cerca di spogliarmi. Ogni volta riesco a alzarmi e faccio il possibile per mantenere la calma, troppo spaventata o imbarazzata per fare una scenata. Quando vado a prendere un po' d'acqua pensando che possa mitigare la sbornia, mi segue e mi spinge sul divano in sala.

Questa volta mi blocca usando tutto il suo peso. Mi tira su il vestito e mi spinge la mano nelle mutande mentre mi bacia bruscamente il collo. Per tutta la durata dell'assalto rimane in silenzio e ignora le mie suppliche. Mentre gli chiedo di smetterla vengo invasa da un panico cieco. Il tutto dura circa un minuto, ma sembra dieci volte più lungo.

All'improvviso si ferma. Si sentono dei passi sulle scale, e alla porta appare uno dei miei coinquilini. "Che succede?" chiede, guardandoci. Troppo imbarazzata per spiegare la situazione, lo tranquillizzo––in un attimo, il ragazzo che con tanta sicurezza voleva averla vinta su di me torna nei suoi panni da timido. Mi dà un ultimo sguardo e dice, "Comunque non mi piacevi davvero."

Spiego brevemente l'accaduto al mio coinquilino, aggiungendo che mi sento a disagio e che vorrei levarmelo di torno. Mi dice che preferirebbe non buttarlo fuori—è un amico in comune. Brilla e stanca, decido di andare a dormire. Mi metto a letto con lo sguardo fisso sulla pornta, pronta a urlare. Alle 5 del mattino lo sento passare davanti alla mia camera per andare a recuperare le sue cose.

Pubblicità

Sento ogni singolo passo, finché non si allontana giù per le scale e poi fuori da casa mia. Solo allora mi accorgo che sto tremando.

Le settimane dopo quell'incontro sono alienanti. Dormo a malapena, e butto il vestito che indossavo quella sera—anche solo guardarlo mi fa venire la nausea. Cambio idea continuamente: dovrei andare dalla polizia? Se non sporgo denuncia c'è il rischio che lo faccia di nuovo. Ma d'altronte sono totamente cosciente del fatto che le prove non sono in mio favore.

Alla fine decido di non andare dalla polizia, e lo faccio principalmente per le reazioni delle persone a me vicine. Un mio parente mi dice, "Ecco cosa succede quando ti ubriachi e ci sono anche dei ragazzi." Altri mi dicono che si tratterebbe della sua parola contro la mia, quindi perché sporgere denuncia?

Ho paura di non essere considerata qualla che nella percezione della società è una "vera vittima"—una giovane donna sobria, aggredita nel corridoio da uno sconosciuto. I giudici, nella mia testa, continuano a dubitare dei miei moventi. "Quanto avevi bevuto?" urlano. "Ma hai lasciato che tornasse a casa con te, no?"

Con il passare dei mesi, sono sempre più agitata e decido che devo fare pace con ciò che è successo. Se non la polizia, si merita almeno di sapere quanto sia pericoloso da ubriaco. Lo cerco su Facebook e gli mando un messaggio privato.

Lo scrivo quattro volte prima di trovare le parole giuste—paradossalmente, non voglio sembrare troppo aggressiva e spaventarlo. Alla fine viene così:

Pubblicità

Ciao,

So che probabilmente non ti apettavi un mio messaggio, ma mi sono sentita in dovere di scriverti. Ho bisogno di parlarti di quello che è successo quest'estate, dato che mi sembravi inconsapevole di quanto la cosa mi avesse fatta arrabbiare. Vorrei anche metterci una pietra sopra, perché la cosa mi ha creato non poche ansie. Magari ti sembrerà una cazzata, ma se ti va possiamo prenderci un caffè, o qualsiasi cosa, se sei da queste parti. Sta a tefammi sapere.

Leonie

Mezzora dopo, mi vibra il cellulare e sento una scarica di adrenaina. Dice di non essere sicuro di ciò che ha fatto, ma che il suo comportamento "ha chiaramente creato un problema che deve essere affrontato faccia a faccia." Decidiamo di vederci per un caffè in settimana.

Mentre ripercorro la storia di quella notte, il suo linguaggio del corpo cambia lentamente. Non riesce più a guardarmi negli occhi, fissa le briciole che ha nel piatto. Non mi interrompe finché non gli dico cosa è successo sul divano: "Mi sei salito sopra. Io urlavo di fermarti, ma tu mi hai infilato le mani nelle mutande. Hai idea di quanto possa essere brutto?"

"No!" urla all'improvviso. "Questo non sono io." Gli chiedo se crede che mi sia inventata tutto. Dice di credermi, ma che è una brava persona.

Vederlo sull'orlo delle lacrime mi dà una strana sensazione di potere. Insisto, e gli chiedo se con le donne fa sempre così. Gli dico che nel caso dovessi sentire di altri incidenti, sarei pronta a testimoniare contro di lui. Si scusa diisperatamente, dicendo che farà più attenzione al suo comportamento. Prima di salutarci, dice, "Chiarire la situazione è stato un bene. Magari possiamo diventare amici." Gli dico che non succederà. Da allora non l'ho più visto.

Non tutti mi hanno incoraggiata a fare qualcosa dopo quello che è successo, quindi ho voluto provare a sistemare la situazione per conto mio. Volevo sconvolgerlo, come lui ha fatto con me. Quando ero seduta di fronte a lui in quel bar, ho avuto l'impressione che la situazione si fosse improvvisamente capovolta.

Di tanto in tanto, sui mezzi, vedo qualcuno che gli somiglia, e ogni volta che succede mi si rivolta immediatamente lo stomaco.