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I miei giorni in un ospedale psichiatrico

A ottobre, dopo una serie di episodi maniaco-ossessivi dovuti al mio disturbo bipolare, sono stata ricoverata nel Centre Hospitalier de Saint-Anne, a Parigi.
Tutte le foto per gentile concessione dell'autrice.

Non ricordo nulla dell'arrivo in ospedale. Mi sono svegliata in una stanza che non era la mia, con un pigiama che non ricordavo di aver indossato.

La prima cosa che vedo entrando nella sala comune è un uomo che attacca volantini alle pareti mentre parla da solo. Più tardi ho scoperto che quei volantini erano lettere indirizzate a Dio, al Presidente della Repubblica francese e alle farfalle. Ne attacca uno anche sullo schermo del televisore, cosa che sembra non disturbare gli altri pazienti che stanno guardando la tv. Nessuno di loro ha le scarpe, sono tutti scalzi, o al massimo portano calze di spugna. Non capisco tanto bene cosa ci faccio qui. Una donna mi si avvicina e mi chiede di tagliarle i capelli come i miei. "Ho sempre voluto la frangia."

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Molti hanno gli occhi fissi sulla televisione, ma nessuno la guarda con la benché minima attenzione. Stanno semplicemente lì. Dietro di me qualcuno parla di nuove uscite musicali, più precisamente del rapper Kaaris. Mi colpisce come alcuni pazienti sembrino perfettamente normali, ad esempio Patrick*, che ha 23 anni e due settimane fa è stato ricoverato contro la sua volontà in seguito a una violenta lite con la polizia. È biondo, ha l'aria tranquilla e passa gran parte delle sue giornate a leggere i giornali. Nel tempo che gli rimane cerca di scappare dall'ospedale.

A ottobre, dopo una serie di episodi maniaco-ossessivi dovuti al mio disturbo bipolare, sono stata ricoverata nel Centre Hospitalier de Saint-Anne, a Parigi. Erano le 3:30 circa di un martedì mattina. I primi due giorni li ho passati a dormire a causa del Valium, dopodiché ho deciso di uscire dalla mia stanza e vedere com'è un ospedale psichiatrico francese nel 2016.

I medicinali mi intontiscono e perdo completamente la nozione del tempo. All'inizio, stento a credere agli infermieri quando mi dicono che giorno è. Grazie a loro ho capito che medici e personale ospedaliero fanno un lavoro degno di tutta la mia stima, e anche molto faticoso.

La sala comune.

Tra le mura di un ospedale psichiatrico tutto è attentamente pianificato, minuto per minuto: la cena è servita alle 19:10, e chi arriva alle 19:20 può scordarsela. Il mio primo pasto, come poi anche tutti gli altri, sono insoddisfacenti. Il menù prevede tacchino al curry, ma nel piatto c'è un pezzo di carne che galleggia in un po' d'acqua. Comunque, ai nuovi arrivati non è permesso consumare i loro pasti alla mensa; secondo il regolamento della struttura, chi è appena stato ricoverato deve rimanere nel suo reparto e aspettare che le infermiere gli portino un vassoio. Durante la mia prima notte una donna fa capolino nella mia stanza e mi minaccia: "se non mi dai i tuoi biscotti inizio a piangere." Ovviamente le cedo la mia scorta di gallette senza battere ciglio.

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Il secondo giorno lo passo girovagando per i corridoi con il mio pigiama blu, che è obbligatorio—con abiti normali sarebbe più facile scappare. Sul cellulare continuano ad arrivarmi messaggi e notifiche: non ho avuto tempo di avvisare i miei amici del ricovero. Per scendere al piano di sotto non si possono prendere le scale, che sono chiuse a chiave, quindi sono obbligata a usare un ascensore che mette i brividi. Sul pavimento ci sono macchie rosse, verosimilmente di sangue, ma Patrick mi assicura che "l'altro giorno hanno fatto cadere una crostata alla marmellata di fragole."

La sala tv.

Il ritmo delle giornate è scandito dagli esami: prima quelli del sangue, poi la pressione, infine le urine. Anche la somministrazione dei farmaci segue orari prestabiliti, e i sedativi vengono assunti in gocce, non compresse, così da evitare che ce li nascondiamo sotto la lingua. Lo staff si prende cura di noi con affetto e c'è sempre qualcuno pronto ad ascoltarci.

Stringo amicizia con Antoine*, che ha 27 anni ed è bipolare, come me. Mi si siede accanto e con aria solenne annuncia: "stare qui è come stare in prigione, quindi ti voglio prendere sotto la mia ala e proteggerti, dicendoti con quali pazienti puoi avere a che fare e con quali no." Mi spiega che "qui le persone creano legami per sopravvivere." Andiamo d'accordo. Passiamo il tempo a fumare e giocare a backgammon, e lui mi legge le poesie che scrive—crede di essere il Proust del ventunesimo secolo. Questo quando non è immerso nei suoi pensieri, quando il suo sguardo non si perde fissando oltre i suoi occhiali dalla montatura tartarugata.

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Antoine e io creiamo una specie di gruppo con Patrick*, T* e Sofiane*. Antoine e Patrick sono dei veri cavalieri: quando andiamo in cortile litigano sempre per chi debba prestarmi la giacca. Con loro rido moltissimo. Siamo tutti dei sopravvissuti, e ci capita di pensare di essere in un campo estivo per ragazzi, o in vacanza con i nostri amici. Quello che più apprezzo qui dentro è che anche le persone che soffrono di gravi disturbi mentali sono trattate come esseri umani con una loro dignità, mai come pazzi.

La stanza dell'autrice.

Più conosco Antoine e più mi rendo conto dei suoi problemi. È arrivato qui da poco, in cerca di una cura che meglio si adattasse ai suoi disturbi ed è nel bel mezzo di una fase maniaco-ossessiva. Una sera, dopo cena, dice di avere "qualcosa di veramente importante" da raccontarmi e che avrei dovuto "prepararmi psicologicamente" a ricevere tale notizia, salvo poi rivelarmi di essere un medium capace di comunicare con spiriti e alberi. Dice di potersi trasformare in un animale, di essere un discepolo del Figlio di Dio che è tornato sulla terra nelle sembianze di Abel*, un altro paziente della clinica.

All'inizio penso che mi stia prendendo per il culo, ma dopo un po' sono costretta ad arrendermi all'evidenza: lui crede davvero in quello che dice. Provo a fargli capire che non è l'unico paziente a credere di avere un canale di comunicazione diretto con Dio, gli dico che dovrebbe tenere per sé quest'informazione se vuole avere qualche speranza di uscire, prima o poi. Ovviamente non mi dà retta.

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Abel, quello che Antoine pensa sia la reincarnazione di Cristo, è un ragazzo dolce e inquietante in egual misura. Convinto che Gesù si sia manifestato sulla terra attraverso la sua persona, giura di poter decretare la morte di qualcuno lanciando i dadi. La voglia che ha sul palmo della mano sarebbe, a suo dire, un chiaro segno delle stigmate della sua vita precedente. Ah, crede anche di essere Clark Kent e di dover salvare l'umanità intera.

Un giorno ha preso a testate il muro, più volte. Quando gli chiedo perché l'ha fatto, risponde: "rabbia." Con le poche parole che riesce ancora a mettere insieme a causa dei farmaci, mi confida di essere sieropositivo. La cura a cui si sta sottoponendo per migliorare le sue condizioni fisiche e psichiche ha un impatto così massiccio su di lui da rallentarlo nei movimenti e fargli venire le allucinazioni.

La notte successiva la donna dei biscotti piomba in camera mia. Le offro dei mandarini, ma quando lo racconto ad Antoine lui diventa paranoico e mi dice che la donna sta cercando di farmi del male "succhiandomi via l'energia vitale." Ha davvero un'espressione abbattuta quando la vede passare nei corridoi.

Le persone qui si raccontano le loro storie più intime, belle o brutte che siano. Una donna sulla cinquantina mi dice di essere follemente innamorata di sua moglie da 22 anni. "La amerò fino all'ultimo istante," mi confida. Non appena uscirà di qui, "rifaremo il giro del mondo, in entrambi i sensi." Mi mostra delle foto in cui avevano appena vent'anni, e sembrano entrambe bellissime.

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Il pranzo.

Un'altra donna, all'incirca della stessa età, cerca spesso di chiacchierare con me ma mi mette così tanto a disagio che provo in tutti i modi a evitarla nei corridoi. Non so come reagire davanti al suo dolore, mi sembra di andare fuori di testa. È finita qui perché stalkerava un uomo che conosceva a malapena, del quale mi dice di essere "patologicamente innamorata." Lo seguiva sul posto di lavoro, molestandolo. Le è stato diagnosticato un disturbo di ipersessualità, è ninfomane. Ora scrive a quest'uomo decine di lettere al giorno e vuole andare a cercarlo non appena le sarà permesso di mettere piede fuori di qui. Mi dice che finché non andrà a letto con lui non potrà guarire, che ha bisogno di sapere cosa sta facendo, con chi e dove. In ogni singolo istante.

I giorni passano e mi vengono gradualmente tolti i farmaci. La prima notte senza sedativi è difficile. Sono cosciente e reattiva agli stimoli del mondo esterno, come il vento che smuove gentilmente le imposte, gli scricchiolii delle tubature, le risate e i singhiozzi nelle stanze accanto. Ci sono notti calme e notti agitate. Senza farmaci è dura. Lontano, qualcuno suona un'armonica.

Un pomeriggio ottengo un permesso di quattro ore, posso uscire dall'ospedale con un accompagnatore. Tutti mi chiedono di comprar loro qualcosa. C'è chi vuole le sigarette, chi una lima per le unghie o dei mandarini. Devo ricordarmi gli ingredienti per fare una torta per Abel, perché tra poco sarà il suo compleanno.

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Al mio rientro in ospedale Antoine mi fa fare un tour del suo "mondo immaginario", che nella realtà si rivela essere il piccolo cortile in cui i pazienti di ogni piano possono fumare. "Guarda, lì ci sono le mie piante di cannabis, presto saranno pronte per la raccolta," mi dice indicando un cespuglio di erbacce. Mi presta la sua giacca, perché gli sembra abbia dei poteri magici. "Mi protegge dagli spiriti malvagi, come un'armatura," spiega.

Le nostre conversazioni sono profonde, filosofeggianti. Mi dice che per lui il dolore non è che una condizione passeggera. Parliamo di vita, di amore e di relazioni. È estremamente intelligente per essere un discepolo della seconda reincarnazione di Gesù. Insieme, Antoine e io passiamo molto tempo a scrivere. È concentrato, mentre scrive: ricopia ogni frase dieci volte e procede con studiata lentezza. Lavoriamo fino a tarda notte, io al mio articolo, lui alle sue poesie.

Scritte sui muri dell'ospedale. Questa recita, "Ospedale di merda."

Antoine ha un'inclinazione particolare per tutto ciò che è vagamente mistico e con aria crucciata tenta di spiegarmi tutto quello che c'è da sapere su aura, energia e karma. È una persona molto interessante, anche quando il suo disturbo lo disconnette dalla realtà. Vuole convincermi che sulla mia coscia ci sia un lemure, il suo animale totem, nonostante io tenti in tutti i modi di fargli capire che quello che ho sulla gamba altro non è che un mandarino a metà. Lui dice di non vederlo, e aggiunge: "è normale che se ne sia andato, non gli stai simpatica."

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Il venerdì successivo festeggiamo i 24 anni di Abel. I pazienti che non sono ancora a letto si riuniscono nel corridoio del nostro piano, e tutti insieme mangiamo la torta che io e Patrick abbiamo preparato. La madre di Antoine ci ha preparato una marmellata da spalmare sui biscotti, lui invece ha passato l'intera giornata a scrivere una poesia per il festeggiato. Dall'emozione Abel scoppia in lacrime.

Qualche giorno dopo Sofiane riunisce le persone a cui è più legato per annunciare che tornerà a casa, per l'occasione ha preparato un breve discorso. Noi non possiamo fare altro che scherzare per cercare di nascondere quello che proviamo davvero. Tutti gli altri sono qui da molto più tempo di me e non vedono l'ora di andarsene, anche se il ricovero li sta aiutando molto. Come ricordo del tempo passato insieme, Sofiane mi regala il suo braccialetto.

Il compleanno di Abel.__

Antoine dice di voler organizzare una grande festa per quando saremo tutti fuori. "Berremo tè e mangeremo pasticcini," perché la maggior parte di noi non può bere alcolici. Intanto, seduti ai tavoli della mensa, immaginiamo quali siano i nostri animali totem e ci raccontiamo gli episodi maniaco-ossessivi peggiori che ci sono capitati. Beviamo acqua di fronte a fagioli freddi e carne insapore.

C'è una nuova paziente. Una giovane giornalista svedese che vive a Parigi. Ha i capelli biondi e un bel sorriso, dal quale si intravede un dente d'oro. Gli uomini l'hanno notata, e due di loro vogliono imparare lo svedese per fare colpo su di lei. Maja* mi racconta che si è buttata nella Senna due giorni fa, che ha 29 anni "ma di notte me ne sento 19", e che quando usciremo mi porterà a fare un tour delle discoteche parigine. Un'infermiera mi svelerà in seguito che Maja era già una paziente: era semplicemente scappata dal suo reparto e le infermiere sono dovute uscire a cercarla.

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La donna che soffre di ninfomania nel frattempo viene rilasciata, ma dopo poco fa ritorno nella struttura. Non ha potuto fare a meno di tornare dall'uomo da cui è ossessionata. È andata nel suo ufficio, ma non l'hanno lasciata entrare. Adesso, lui ha chiesto un ordine restrittivo nei suoi confronti. Lei se lo immagina mentre ride della cosa, ed è felice. "Se non posso spingerlo ad amarmi, almeno posso farlo ridere," spiega.

Coca Cola, caffè e pennarelli.

Mi ritrovo a cenare con Agatha* e Antoine. Agatha è qui da cinque mesi, ma continua a fare dentro e fuori dalla struttura. Le diciamo che forse trovarsi un lavoro la aiuterebbe a interrompere questo circolo vizioso, dandole un obiettivo. Forse potrebbe fare la parrucchiera, in fondo le è sempre piaciuto sistemare i capelli degli altri. Vuole fare un po' di pratica con quelli di Antoine, ma per quanto bene potrebbe farle lavorare in un salone, le sue possibilità di trovare un lavoro quando uscirà sono minime. Chi ha alle spalle una storia di disturbi mentali di rado viene assunto.

Incontro Fatima*, che ha una ventina d'anni. Nella sala comune si avvicina a me e inizia a raccontarmi che soffre di depressione post-parto, dice continuamente di voler morire e aggiunge che non riesce più a respirare. Improvvisamente afferra le mie mani e se le porta alla gola intimandomi: "uccidimi, uccidimi a mani nude." Vado nel panico. Le dico di non muoversi. Corro dalle infermiere, che sembrano trovare comica la situazione. "La aiuteremo, certo, ma non abbiamo intenzione di ucciderla," mi dicono sghignazzando. Dalla mia stanza sento Fatima piangere e sbattere ripetutamente la testa contro il muro.

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Per cercare di calmarmi torno nella sala comune. Da due giorni non mi sento bene. Le infermiere se ne accorgono e mi danno dei sedativi, confiscandomi anche il portatile. È per il mio bene, dicono.

Altre scritte.

Il lunedì faccio un esame per rilevare la presenza di litio nel sangue. Questa volta devo rimanere un po' più del solito; vogliono capire se i miei livelli di litio modificano il mio comportamento senza mettere a rischio la mia salute. Sono così imbottita di farmaci che non mi accorgo neanche dell'ago da prelievo.

I giorni scorrono, uno uguale all'altro. Improvvisamente, è il momento di lasciare l'ospedale. Qualcuno pulisce la mia stanza, un uomo ci si trasferisce urlando e insultando le infermiere. Rifiuta di indossare il pigiama d'ordinanza. "Non voglio il vostro cazzo di pigiama," sbraita. "Altrimenti morirò di freddo quando uscirò in cortile a fumarmi la mia eroina!"

Il foglio di dimissioni.

Non ci sono grandi discorsi né lacrime prima della mia partenza. Abbraccio Patrice e Antoine, che mi consegna una poesia che ha scritto per me.

Mentre sono sul marciapiede e aspetto il taxi, si avvicina Maja. Sta cercando di scappare dall'ospedale. " Wanna smoke some weed ?" mi chiede con fare un po' troppo amichevole. "Voglio fumarla insieme a te, perché sei la ragazza più carina qui dentro." Non ha ancora finito di parlare quando vedo le mani di due membri dello staff afferrarla per gli avambracci. Continua a gridare, mentre la riportano dentro: "Se non li guardi, loro non possono vederti Non guardarli Louise! Non guardarli!"

Maja mentre gira una sigaretta.

Voglio ringraziare i dottori e le infermiere che lavorano col delicatezza e sensibilità in questo ambiente difficile, come anche il resto del personale ospedaliero. Un grazie speciale va alla donna che mi portava la colazione e al giovane infermiere che aveva sempre un sorriso e dolci parole per ogni paziente.

*Tutti i nomi sono stati cambiati.