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Ho chiesto a uno sciamano eschimese di insegnarmi a vivere

Lui mi ha annusato una guancia e spiegato che devo prendere sul serio lo scioglimento dei ghiacci nell'Artico.
Giulia Trincardi
Milan, IT
Lo sciamano Angaangaq Angakkorsuaq e l'autrice. Foto di Lorenzo Foti

Sono seduta in cerchio con altre 15 persone circa. Alla mia destra, qualche posto più in là, c’è lo sciamano eschimese Angaangaq Angakkorsuaq. Ci racconta come il ghiaccio antichissimo della sua terra si stia sciogliendo troppo in fretta, poi ci domanda se anche a Milano la gente si lavi i denti. “Ah, non siamo poi così diversi, allora!” commenta, vedendo diverse persone annuire.

Dipendiamo tutti dall’acqua, ci dice, senza usare direttamente, in realtà, il verbo “dipendere.” Ci dice che siamo acqua e che l’acqua ha una memoria. Che il ghiaccio “nero” vecchio di millenni che forma lo strato più duro dell’Artico ha cominciato a scomparire e che gli esseri umani non hanno più tempo per fermare questa catastrofe senza precedenti.

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Angaangaq Angakkorsuaq — detto “Uncle” (zio), perché il suo nome in eschimese significa “colui che somiglia a suo zio” — è originario della Groenlandia e gira per il mondo con l’associazione Ice Wisdom per parlare di cambiamento climatico. Lo fa come se raccontasse una fiaba — eppure non tralascia una dose inaspettatamente consistente di dati e statistiche.

Angaangaq "Uncle" Angakkorsuaq, durante l'incontro del 20 marzo a Milano. Tutte le foto: Lorenzo Foti

Il 20 marzo — due giorni prima della Giornata Mondiale dell’Acqua — ha fatto tappa anche a Milano, ospitato dallo spazio 57Events, per celebrare il rito dell’acqua al mattino e quello del fuoco la sera. “Ho scelto Milano perché ha una forte valenza simbolica,” ha spiegato nel comunicato stampa di presentazione. “È al centro di un’area ricchissima di acqua tra fiumi, canali, laghi e mare e allo stesso tempo è un’area tra le più inquinate d’Europa.”

La prima parte dell’incontro mattutino è dedicata alle presentazioni: Angaangaq abbraccia ognuno dei presenti e chiede il suo nome. “Ti chiami come mia nipote,” mi dice, “ma il suo nome comincia per J, non per G.” Gli abbracci, ci spiega, sono molto più efficaci delle strette di mano che ci scambiamo normalmente. Con un abbraccio si trasmette la propria energia, che rimane come una sorta di impronta anche negli abbracci successivi. “In questo modo, chi stringerete domani riceverà anche la mia energia,” ci dice lo sciamano, sorridendo. Angaangaq ci tiene anche ad annusare le guance dei suoi ospiti. È una consuetudine eschimese che lascia vagamente interdetti e stupiti alcuni dei presenti, compresa me.

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Poi ci sediamo in un cerchio, con al centro una grande boccia di vetro trasparente. Alla fine del suo discorso, Angaangaq la riempie di acqua e chiede di versarne un po’ a chiunque abbia una bottiglietta con sé. Reggendo ai lati della testa due tamburi imponenti e leggeri — fatti solo di un cerchio di legno e una tela nera tesa — intona un canto profondo rivolto all’acqua immobile nel vaso. Alla fine del rito, dopo aver cantato con una mano appoggiata sul cuore di ognuno e passando lentamente da persona a persona, lascia che un membro dell’associazione Ice Wisdom versi l’acqua in piccole boccette, perché i presenti possano portarla a casa.

Il rito dell'acqua.

Per quanto suoni bizzarro parlare di cambiamento climatico e scienza con qualcuno che rappresenta una tradizione spirituale (per di più una estremamente lontana dalla quotidianità della maggior parte delle persone che vivono nel mondo occidentale), è chiaro che il benessere del pianeta è un argomento importante per uno sciamano almeno tanto quanto lo è per un climatologo. Negli ultimi anni, scienza e spiritualità, soprattutto quando si parla di emergenza ambientale, si trovano tutt’altro che in posizioni opposte. Persino il Papa si è espresso di recente a proposito delle responsabilità umane sul cambiamento climatico — lasciando, ironicamente, il ruolo di ultimo dei negazionisti a una figura teoricamente laica come l’attuale presidente degli Stati Uniti.

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Allo stesso tempo, la scienza sta tornando a indagare la sfera del non prettamente razionale, rispolverando quegli studi psichedelici che — dopo un breve momento di entusiasmo tra gli anni Sessanta e Settanta — sono stati schiacciati da norme e restrizioni che facevano leva sul panico e la paranoia generali per qualsiasi cosa sia stata definita nella storia come “droga.” Ora, terapie psichiatriche e mediche stanno sperimentando con LSD, ketamina, funghetti, DMT ed MDMA, tutte sostanze che — di base — alimentano il lato meno razionale della coscienza umana.

Angaangaq durante il rito del fuoco, eseguito la sera.

Quando, una volta finito il rito, mi fermo a chiacchierare con Angaangaq da sola, parliamo proprio di spiritualità e scienza. I suoi racconti semplici e simbolici non hanno lasciato grande spazio a domande nel mio cervello. L’impatto dell’uomo sull’ambiente — in particolare in Groenlandia, dove lo scioglimento dei ghiacci sta mettendo a repentaglio le popolazioni native inuit — è una verità talmente evidente che sembra assurdo non essere ancora riusciti, come comunità mondiale, a prenderla seriamente.

La calma di Angaangaq durante il nostro dialogo è disarmante. Mi dice che è probabilmente troppo tardi per evitare il peggio. Persino l’Italia sta subendo le conseguenze dello scioglimento dei ghiacci in Groenlandia, “vengo da un villaggio vecchio di cinquemila anni che ora si sta sciogliendo,” mi dice, “ma anche Roma finirà presto sott’acqua.” Gli rispondo che, di certo, Venezia sprofonda già a una velocità allarmante. Il mondo sta cambiando per colpa degli esseri umani, eppure, concorda con me, il vero problema riguarda la nostra capacità di sopravvivenza e adattamento, non quella del pianeta.

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Ad un certo punto mi prende la mano e la legge. Dice che vivrò più di 80 anni, ma che, quando sarò vecchia come lui, moltissime persone saranno morte — "alcune perché non avranno acqua, altre perché ne avranno troppa, e affogheranno," perché l'equilibrio del pianeta è compromesso.

Lo sciamano Angaangaq indica l'acqua nella boccia di vetro mentre parla dell'importanza dell'elemento all'autrice.

“Non possiamo fare a meno delle automobili,” asserisce, perché nella società in cui viviamo sono fondamentali, anche se inquinano così tanto. “Ciò che possiamo fare, però, è chiedere a chi le fabbrica di inventare tecnologie migliori e costruire macchine più pulite.”

Ciò che dobbiamo imparare di nuovo a fare, mi dice, è prenderci cura uno dell’altro e del pianeta. È una cosa quasi banale da sentirsi dire, eppure — come dimostra la corsa dei giovani occidentali al consumo dell’ayahuasca, una pianta psichedelica tradizionale per le popolazioni dell’America del Sud — è una pratica che non riusciamo ad attuare con successo nel nostro quotidiano. “Lo scopo tradizionale dell’ayahuasca, per esempio” mi spiega Angaangaq, quasi leggendomi nel pensiero, “non è fornire alle persone un’illuminazione sulla vita,” né tantomeno un momento di sballo. “Viene utilizzata per accompagnare le persone al momento della morte, perché accettino il cambiamento inevitabile.”

Esco dall’incontro con lo sciamano della Groenlandia — dopo un’altra dose di abbracci e guance annusate — ancora senza sapere come fare a vivere, ma con la conferma che, sia che si parli di morte che di clima, sia che lo si faccia come una fiaba sia con tutto il rigore della scienza, la nostra società è ferma al primo gradino. Dove deve ancora assumere coscienza e responsabilità di un cambiamento forse troppo grave per essere risolto.

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