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Tutto quello che si è detto e forse si poteva evitare sul caso Elena Ferrante

Domenica in un articolo comparso sul Sole 24 Ore Claudio Gatti si prefiggeva—conti alla mano—di "smascherare" Elena Ferrante. Operazione discutibile, che a sua volta ha generato reazioni isteriche e un bel po' di qualunquismo.

Grab dell'articolo da cui è scaturita la polemica.

L'editoria italiana è notoriamente una specie di laguna nera dei sogni infranti e della povertà post bellica, ma talvolta qualche congiunzione planetaria inspiegabile produce dei fenomeni interessanti: faccio un nome a caso, Elena Ferrante.

La sua storia non poteva non attirare l'attenzione, perché quello che è successo a lei non succedeva a uno scrittore italiano vivente da parecchi anni: è diventata molto famosa. Quando dico molto famosa intendo dire milioni di copie vendute in tutto il mondo, profili e interviste sul New Yorker, serie tv tratte dalle sue opere e un nugolo di fan comprendente persone tipo Hillary Clinton, Michelle Obama, Amy Schumer e James Franco.

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Purtroppo, come tutti sappiamo bene, in Italia chiunque abbia un qualsiasi successo commerciale con dei libri o della musica è Malvagio e va dunque Punito con il Disprezzo. Infatti non si può dire che i critici italiani o anche solo le testate più note abbiano sprecato parecchio inchiostro per recensire Ferrante, che invece le sue "consacrazioni" le ha avute tutte dall'estero. Se, almeno fino a qualche tempo fa, dovevi ammettere di essere un lettore di Elena Ferrante, tanto valeva mettersi anche una maglietta dell'ultimo tour di Ligabue. Questo finché, dopo un tentativo filologico poco felice comparso su La Lettura del Corriere, il Sole 24 Ore non ha deciso di affrontare l'argomento per la prima volta, con un articolo intitolato "Ecco la verità sull'identità di Elena Ferrante".

La rivelazione fatta dall'articolo, che sia vera o meno—Ferrante sarebbe Anita Raja, traduttrice per la casa editrice e/o, la stessa che pubblica appunto Ferrante—è così una bomba che girava da anni solo su qualificatissime riviste di settore riservate a un sinodo di eletti, tipo Dagospia. L'autore dell'articolo Claudio Gatti trae le sue conclusioni da un'indagine sui redditi della casa editrice e/o e quelli dei suoi dipendenti, fra cui Anita Raja.

L'articolo del Sole è inquietante per molte ragioni, ma credo che la pole position se la contendano il tono da vigile urbano disturbato e le frasi in cui l'autore elenca il numero dei "vani" negli appartamenti comprati dalla scrittrice nei paesini toscani "noti per essere frequentati dall'élite giornalistico-letteraria italiana."

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Comunque, questo piccolo manuale della passivo-aggressività è stato ripreso dalle testate americane che rispondono offese e compatte con un sonoro "ma che cazzo su", insieme ovviamente alle legioni di fan inferociti ovunque. Non che ci fosse bisogno della spiegazione degli americani: è abbastanza ovvio, credo, che i particolari biografici esatti non aggiungano nulla all'opera di un autore. È abbastanza evidente anche che le intenzioni di autore e testata fossero riassumibili in un po' di sano, grillino clickbait.

Ma, ovviamente, ci siamo arrabbiati anche noi. Non tanto perché in Italia ci importi qualcosa del rapporto fra notorietà personale e letteratura o della libertà di pubblicare sotto pseudonimo, semplicemente perché non vogliamo lasciarci rubare il primo premio delle reazioni ribollenti.

Infatti siamo partiti sobriamente con i Wu Ming che hanno invocato nell'ordine: il patriarcato, il mansplaining, il collaborazionismo e il razzismo fascista, ma si sono inspiegabilmente dimenticati di menzionare i servizi segreti.

Sulla cecità del «buon opinionismo» italiano di fronte al sessismo dell'«inchiesta» su — Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt)4 ottobre 2016

Naturalmente anche Erri De Luca si è espresso in proposito, con un parere utile e circostanziato: "Queste indagini patrimoniali dovrebbero farle per stanare gli evasori fiscali, non gli autori" su cui, signora mia, non mi sento assolutamente di dissentire anzi se posso permettermi aggiungerei che si stava meglio quando si stava peggio.

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Ma, come spesso accade, il Campionato dell'Indignazione aveva un vincitore già annunciato, cioè Il Fatto Quotidiano, che sbaraglia tutti con il negazionista "Perché Elena Ferrante non è un caso letterario". Qui infatti raggiungiamo vette inaspettate con una difesa del "giornalista libero" che ha sbugiardato questo repellente massonico pericoloso sistema piramidale di fuffa noto come Elena Ferrante. È chiaro alla disincantata autrice di questo articolo che Elena Ferrante è arrivata alla fama solo tramite "i giri giusti", ovvero quelli dei traduttori—come tutti sanno i traduttori italiani rappresentano l'un percento di ricchezza del pianeta—e della casa editrice e/o, noto centro di potere hollywoodiano.

Da parte sua, la casa editrice ha risposto all'articolo di Gatti con un comunicato abbastanza duro, in cui parla di una mancanza di rispetto della privacy—ma non smentisce le informazioni che vengono date. Questo porterebbe a pensare che la ricostruzione sia sostanzialmente credibile, anche se nella polemica che ha generato questa inchiesta è un dettaglio abbastanza inutile.

In effetti, perché Elena Ferrante attirasse l'attenzione degli intellettuali italiani c'è voluto lo Scandalo: non è bastato tutto quello che aveva raggiunto professionalmente per farla diventare oggetto di analisi. E, in fondo, a rendere il tutto un po' avvilente è il fatto che l'unico modo che abbiamo trovato a livello nazionale per dare attenzione a un successo editoriale così ingombrante è stato il meccanismo dello sputtanamento personale e delle reazioni urlanti.

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