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Perché in Egitto si continuano ad arrestare giornalisti?

Abdullah Elshamy è uno dei quattro giornalisti di Al-Jazeera al momento in prigione, trattenuti per accuse alquanto vaghe in attesa di un pronunciamento dal tribunale. Ma il loro caso è solo uno dei tanti.

Sit-in a Nairobi a sostegno del giornalista di Al-Jazeera Peter Greste.

Il corrispondente di Al-Jazeera Abdullah Elshamy ha superato il suo 177esimo giorno in carcere e sta portando avanti uno sciopero della fame iniziato poco più di due settimane fa.

“Ho perso molti chili. Mi nutro solo di liquidi. Non reggo neanche il più piccolo sforzo,” ha scritto in una lettera fatta uscire di nascosto dalla sua cella, dove penne e fogli sono banditi. “Ma è ciò a cui sono costretto per sensibilizzare circa l’importanza della libertà di parola.”

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Abdullah—che è stato arrestato ad agosto, quando le forze di sicurezza hanno sgombrato un sit-in organizzato dai sostenitori dell’ex presidente Mohamed Morsi—è uno dei quattro giornalisti di Al-Jazeera al momento in prigione, trattenuti per accuse alquanto vaghe in attesa di un pronunciamento dal tribunale. E sono solo un esempio tra le dozzine di reporter che negli ultimi sei mesi sono stati picchiati o detenuti mentre seguivano le vicende in Egitto. Oltre a questi, nove sono stati uccisi dall’inizio delle rivolte nel 2011.

Questi dati sono il sintomo dei cambiamenti invervenuti nel paese da quando l’estate scorsa l’esercito ha destituito il leader della Fratellanza Musulmana, Morsi. Come ormai evidente il governo ad interim sta facendo di tutto per mettere a tacere i simpatizzanti della Fratellanza, penalizzando questo e altri movimenti e formazioni con l’emanazione di una legge che bandisce a tutti gli effetti ogni forma di protesta pubblica.

In un paese instabile come l’Egitto, il controllo della parola si può facilmente tramutare nel controllo delle strade, e il controllo delle strade in potere politico. Per gran parte degli ultimi tre anni, e fino a poco tempo fa, il centro stampa internazionale situato nel palazzo della TV di stato era presidiato da uomini armati, chiaro segnale che il controllo sul potere di comunicazione  in Egitto è considerato una questione di sicurezza. Di conseguenza, i giornalisti che danno spazio ai sostenitori della Fratellanza per raccontare la loro versione dei fatti non sono esattamente i benvenuti dalle autorità.

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I programmi di Al-Jazeera in lingua araba sono considerati apertamente favorevoli alla Fratellanza Musulmana, in linea con le politiche estere del Qatar, proprietario del canale. Questo punto di vista ha anche le sue motivazioni, dal momento che l'emirato ha sostenuto le finanze dell’Egitto durante l’anno in cui Morsi e la Fratellanza erano al potere. In ogni caso, Al-Jazeera Arabic è di parte tanto quanto il resto dei media operanti in Egitto—l'unico problema è che si trovano dalla parte opposta dello spettro.

Durante il recente referendum, per esempio, “i media hanno sostenuto una campagna a senso unico [per gli emendamenti costituzionali voluti dal governo guidato dall’esercito], con l’unica nota dissonante offerta da Al-Jazeera [Live] Egitto”.

Un video del raid al Marriott.

Il 29 dicembre tre colleghi di Elshamy che lavorano per la versione in inglese di Al-Jazeera sono stati arrestati dopo un assalto a uno studio allestito nel centro del Cairo, all’hotel Marriott. L’ufficio del pubblico ministero ha affermato che il team di giornalisti stava producendo “filmato falsificato” per aiutare “il gruppo terroristico [la Fratellanza Musulmana] a raggiungere i propri obiettivi e influenzare l’opinione pubblica.” (Una volta subentrato al potere, il governo provvisorio aveva ufficialmente classificato la Fratellanza come gruppo terroristico.)

Il SIS [State Information Service] egiziano sostiene che la squadra stesse operando senza il permesso di trasmettere, allegando la copia di una richiesta autenticata di Al-Jazeera che mostrava i nomi di tre membri dello staff—diversi da quelli dei giornalisti fermati. Una fonte vicina ad Al-Jazeera sostiene che, dopo il raid agli uffici dell'emittente dello scorso agosto, fosse chiaro che la rete non avrebbe più goduto di permessi ufficiali, portando alla decisione di proseguire comunque il lavoro. Nel video del raid tuttavia uno dei giornalisti afferma in arabo che la richiesta era effettivamente stata inoltrata.

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Peter Greste, giornalista di livello ed ex corrispondente per la BBC, è un altro dei reporter attualmente in prigione. In una delle due lettere scritte dalla sua cella sostiene, “il nostro arresto non sembra avere nulla a che fare col nostro lavoro. Si tratta più che altro di capire cos'è normale e accettabile per il governo. Chiunque elogi lo Stato è considerato un uomo salvo, un uomo che merita la libertà. Tutto il resto rappresenta una minaccia che deve essere schiacciata.”

La cella di Greste era accanto a quella di alcuni giovani attivisti, altre vittime collaterali della repressione dell’opinione pubblica. Gli passavano libri e riviste mandate da fuori, ma lunedì—secondo quanto riporta un membro della famiglia di uno degli attivisti in arresto—sarebbe stato trasferito in un’altra cella. La sua posizione è al momento sconosciuta e in un sistema giudiziario tediosamente lento come quello egiziano, la detenzione in queste condizioni può prolungarsi anche per mesi.

Le libertà di stampa ed espressione sembrano aver fatto un altro passo indietro nel paese, e non si parla solo di Al-Jazeera. Uno dei pochi giornalisti critici dell'operato del governo ancora in attività si è dimesso nel corso di questa settimana, dopo che uno dei suoi articoli è stato censurato dall'editore; il regista Hossam Meneai è stato prelevato dal suo appartamento con l’accusa preliminare di “divulgazione di notizie false”, e una giornalista olandese ha lasciato l’Egitto dopo l'accusa di essere parte dell'operazione Al-Jazeera, nonostante la sua unica connessione fosse un incontro avvenuto in una sola occasione con uno dei reporter ora in arresto.

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Nella sua prima lettera dalla prigione, Elshamy descrive l'ambiente circostante: “ Sono le tre del mattino. Mentre tutti dormono, una brezza d’aria penetra dal soffitto sprangato… Sedici di noi giacciono in uno spazio di 12 metri… Non c’è vita qui.”

Nonostante ciò, il reporter di Al-Jazeera sembra consapevole dello scalpore mediatico della sua reclusione—che, per la comunità internazionale, è la perfetta rappresentazione della totale e soffocante repressione del dissenso e della libertà di parola voluta dal governo provvisorio egiziano.

“Non rimpiango nessun giorno della mia detenzione qui,” ha scritto. “Noi siamo i testimoni della libertà e saremo sempre ricordati come tali.”

Segui Tom su Twitter: @tom_d_

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