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Tecnologia

Fermiamo la blockchain prima che privatizzi le nostre GIF

La mania della 'proprietà' sta distruggendo una rivoluzione che va avanti da un secolo.
Giulia Trincardi
Milan, IT
Immagine: Motherboard

Ogni volta che con un certo gruppo di amici finisco a parlare di ***arte*** — cosa significa, perché deve fregarcene qualcosa, dio è morto, la trap anche — la conversazione si trasforma rapidamente nell’equivalente vocale di un incontro di MMA.

Ma il dibattito sull’arte (o: estetica) non è esattamente uno sport estremo recente, anzi: fior fior di filosofi hanno cercato di venirne a capo nei secoli, sbattendo irrimediabilmente la faccia sulla donchisciottesca natura del cercare una definizione assoluta di qualcosa che muta di epoca in epoca e di cultura in cultura.

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Ultimamente, una nuova variabile si è aggiunta all’equazione: la blockchain. La tecnologia alla base delle criptovalute — ma anche di progetti scientifici, bizzarre imprese e app per il sesso di cui nessuno sentiva il bisogno — ha cominciato a farsi strada nel mondo dell’arte come strumento di garanzia da qualche tempo: sistemi come Verisart o KnownOrigin.io offrono infatti ad artisti e compratori la possibilità di registrare i propri diritti su opere digitali tramite blockchain e renderli così inalterabili. Ancora, il sito SuperRare.co ha appena istituito un mercato relativo esclusivamente a GIF certificate e vendute tramite blockchain.

Il linguaggio usato da servizi del genere insiste sul concetto di “possesso” di un’opera — introducendo per la prima volta in modo efficace (e preoccupante) le dinamiche del collezionismo nel mondo dell’arte digitale. Con la nascita di internet la rivoluzione iniziata nel secolo scorso — per cui principi come l’autorialità, l’unicità e la non-riproducibilità di un’opera sono stati violentemente smantellati — è arrivata forse al suo apice. La blockchain potrebbe essere lo strumento perfetto per annullare questo processo storico.

La storia dell’estetica è complessa e ricca di fraintendimenti, ma tentiamo di fare un punto rapido e brutale: per buona parte della storia umana la parola “arte” non significava granché, ma era più una questione di bravura tecnica nel creare statue e ritratti a qualche divinità: il suo valore era legato alla sua funzione religiosa-didascalica (leggi: la Chiesa metteva i soldi per i quadri belli).

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Poi, intorno alla metà dell’Ottocento “dio è morto,” le opere storiche si sono spostate nel vacuum finto neutrale (in realtà fortemente europeista) del museo e l’umanità ha inventato o messo a punto tecniche come fotografia, litografia, stampa — per cui produrre in serie la stessa opera è diventato facile e l’unicità delle stesse meno affidabile come metro di giudizio. La funzione religiosa è stata sostituita brevemente con quella politica, poi con quella sociale ed economica, che si sono poste in antitesi una all’altra.

Mentre infatti la pop-art ha essenzialmente incanalato il consumismo e la fama mitologica dell’artista (per vendere opere a prezzi esorbitanti), movimenti come Dada, arte performativa e Net.art hanno cercato in modi diversi di svincolare la pratica artistica tanto dal suo valore materiale (ed economico), quanto dal suo supporto tangibile e dal concetto di “unico” che il Romanticismo aveva creato, insieme a quello di “genio” artistico. L’arte, da essere oggetto, è diventata processo.

Il digitale, in questo senso, ha costituito un campo di radicale sperimentazione: in particolare il movimento della Net.art si poneva in fondamentale rifiuto del sistema chiuso delle istituzioni d’arte — spesso hackerando, infettando o creando falsi siti di istituzioni, col fine di scalzare l’autorità aprioristica di cui godevano. L’attivismo e la guerriglia semantica — anche cari all’arte performativa — sposavano l’anonimato online per dissacrare l’insieme di regole del mercato. Dal virus biennale.py creato da epidemiC e 01.org, al racconto interattivo My Boyfriend Came Back from the War di Olia Lialina, il tentativo è stato sempre quello di criticare lo spazio pubblico virtuale, tramite la frantumazione di un quotidiano dato per scontato.

Ovviamente, vendere le proprie opere è sempre stato possibile per un artista o creativo; a livello storico, però, la critica alle istituzioni — i musei tanto per cominciare — permessa dal digitale ha rappresentato un passaggio di pensiero senza precedenti. Non c’era mai stato un mezzo come la rete che permettesse di annullare del tutto l’autorità dell’artista e — dunque — la commerciabilità delle opere.

Può darsi che l’introduzione della blockchain nel mercato dell’arte possa rivelarsi a sua volta una rivoluzione fondamentale — se non altro, si tratta pur sempre un registro distribuito che non necessita di un organo regolatore centralizzato. Eppure, sappiamo che la blockchain ha già tradito parte delle aspettative nobili con cui era nata, rischiando di trasformarsi in uno strumento per quegli stessi sistemi governativi e bancari centralizzati che le criptovalute vorrebbero destabilizzare. A livello tanto concettuale quanto pratico, non si può escludere che possa comportare un triste passo indietro per la forma più radicale dell’arte digitale.

Rendere una GIF collezionabile ufficialmente, in un certo senso, non è che un altro gradino verso la privatizzazione di un mondo virtuale nato utopicamente libero, fluido e multiforme.