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Música

Intervista a Ian MacKaye

Soft Focus con Ian Svenonius: intervista a Ian MacKaye

Illustrazione di Marco Klefisch Visto che ci sono tanti di quegli artisti potenzialmente intriganti con cui parlare, da oggi in poi Soft Focus si affiderà ad un sistema di estrazioni. Non sarebbe giusto scegliere semplicemente i miei preferiti. Soft Focus diventerà l’unica vera istituzione democratica in questa società marcia e fascista. Tutti i nomi degli artisti sono dentro quest’urna, non vedo l’ora di sapere con chi mi toccherà parlare questa volta. E il mio prossimo ospite sarà… (estrazione automatizzata)… eccoci. Sarà Ian MacKaye. Ian MacKaye è noto come la voce di The Evens, Fugazi, Minor Threat e altre formazioni. Ha anche fondato la Dischord Records, etichetta che dirige tutt’ora. La sfida radicale che Ian MacKaye ha lanciato all’egemonia delle corporation è stata paragonata alle orde dei Visigoti che hanno dato il colpo di grazia all’Impero Romano. Non vedo l’ora di parlare con lui. Ian MacKaye: Certo che ne dici di cazzate. Vice: Beh, ma un po’ è vero, o no? Sul serio, tu sei riuscito a colpire alla giugulare l’industria dell’intrattenimento, e hai contribuito a far nascere quell’universo alternativo di cui negli ultimi tempi tutti sembrano voler scrivere la storia. Ormai l’operazione-nostalgia sull’hardcore americano è dilagante, ma a quei tempi era davvero qualcosa di prodigioso. Nascevano nuove etichette che sfidavano l’industria dell’intrattenimento, e all’epoca quell’industria non sapeva come inquadrarvi. Non so… che ne pensi?
È una premessa interessante, ma devo dire che la tua teoria dà troppa importanza al ruolo dell’industria dell’intrattenimento. Io credo che i ragazzi di ogni epoca si siano sempre ritrovati una certa realtà che gli veniva messa davanti, tipo, “Ecco, questa è la realtà”, e la loro reazione è sempre stata dire, “Io questa realtà la rifiuto, non voglio fare questo, voglio fare qualcosa di diverso”. Dal nostro punto di vista, e quando parlo di “noi” intendo i ragazzi di Washington D. C. all’inizio degli anni 80, ma credo che questo valesse per ragazzi di tanti altri posti, e molti ancora oggi, noi pensavamo, “Vogliamo mettere su i nostri gruppi, perché a nessuno gliene frega niente di noi”. Non pensavamo, “Dobbiamo abbattere il dragone dell’industria discografica”, perché in realtà non ce ne fregava niente. È un po’ come per gli sport professionistici. Io capisco che esistono la NFL, la Major League Baseball e la NBA, ma alla fine non possono appropriarsi di tutte le iniziative atletiche del Paese, non possono controllare tutto lo sport che ci si pratica, e per la musica è lo stesso. Se pensi a come funziona il mondo delle major discografiche, vedi che stanno sempre lì a darsi il premio per la migliore canzone dell’anno, il premio per il migliore artista dell’anno e così via, ma se guardi con attenzione le cerimonie di premiazione, o se ti leggi la storia di quei premi, scopri che sostanzialmente ogni singolo artista premiato appartiene ad una major. Come si fa? Voglio dire, è contro la legge delle probabilità. Già.
Per noi era chiaro che invece di cercare di distruggere il sistema dovevamo crearci il nostro mondo, e credo che questo sia proprio il modo in cui la maggior parte della gente comincia, ma poi ad un certo punto passano dall’altra parte, e fanno il salto perché pensano, “Ma ce l’abbiamo fatta, siamo arrivati? Dobbiamo arrivare in una grande squadra, ci sono tante grandi squadre nel campionato e quando ne faremo parte vorrà dire che ce l’abbiamo fatta”. Io credo che la ragione per cui il movimento hardcore o il primo punk sono ancora così rilevanti è forse che molte di quelle persone non sono mai passate dall’altra parte. È un’ipotesi, non saprei dire di più. Ma non avevate la sensazione all’epoca che ci fossa questa specie di pantheon in cui nessuno poteva entrare? Voglio dire, il giro di “We Are The World”? Un gruppo esclusivo in cui nessuno poteva entrare e tutti si consideravano delle specie di divinità.
Ma sai, come per la maggior parte delle divinità, a me non me ne fregava niente. Non era una cosa che io… Sì, ma neanche Cindy Lauper?
Scusa? Puoi ripeterlo ad alta voce? No, dicevo, Cindy Lauper? Voglio dire, nel senso, c’è sempre un’eccezione. Ma in ogni caso di quei tempi ora si scrive la storia, si fanno film, documentari e roba del genere, e ovviamente tutti vengono da te a farti domande. Voglio dire, le storie sono sempre una cosa strana, perché sono sempre influenzate dall’epoca in cui vengono scritte, no?
Beh, per prima cosa, per quanto riguarda le storie dei primi anni 80 che stanno uscendo in questo periodo, non le ho lette, e non le leggo di solito. Ce le ho, le tengo lì sullo scaffale, e forse ad un certo punto della mia vita le leggerò. Non le leggo ora perché, per prima cosa, si tratta di storie che parlano, spesso direttamente, di cose che a quanto pare avrei fatto io, e credo che leggere le idee di qualcun altro su quello che ho fatto possa interferire con quello che sto facendo ora, e io non sento di aver finito. Per questo non mi interessano davvero quello che gli altri dicono della mia storia. Non possono che avere torto. Non voglio dire che non abbiano diritto di scrivere, né che i presupposti del loro lavoro siano stupidi. È ovvio, loro sono documentati e appassionati, ed è carino che lo facciano, ma non possono scrivere la verità perché non erano lì davvero. Alcuni dei documentari e dei libri che mi sono capitati tra le mani… voglio dire, quello che mi preoccupa è che alla fine si tratta sempre di uomini bianchi sui trenta o sui quaranta che si mettono a riflettere sui “vecchi tempi”. Ho la sensazione che ci sia tanta di quella gente che ci tiene così tanto a sentirsi parte di qualcosa di epocale che non fanno che ripetere, “È stata la cosa più incredibile di sempre, è stata la prima volta nella storia in cui X”, sai, cose di questo tipo. Ma questi racconti pieni di iperboli alla fine ti fanno pensare, se sei un ragazzo di oggi, “Cavolo, che peccato che non c’ero”. E pensi anche, “Che strano che tutti questi tizi sentano l’esigenza di ritrovarsi e parlare di quello che si ricordano di un certo periodo”. È una cosa un po’ squallida. Volevo solo dire un’ultima cosa, perchè si parla tanto del punk, e io mi rendo conto che è morto e non voglio parlarne mai più, ma …
Non può morire! Voglio dire, tanti dischi che tu e tuoi colleghi avete realizzato allora oggi sembrano profetici, le cose di cui parlavate, lo stato di polizia, il fascismo, l’Impero, tutte quelle cose che il punk metteva in primo piano, ora si sono avverate. Voglio dire, apri il giornale e pensi, “È come un un disco dei Dead Kennedys”, no? Dunque, come padre fondatore del movimento punk, ti senti un profeta, o pensi che siano state proprio le vostre onde mentali negative che hanno creato la società in cui viviamo?
Ahahah. Ho solo queste due opzioni?!? Perché non diciamo questo invece: è lo stesso stato di emergenza che continua. È cominciato molto prima di noi, ci sarà quando noi ce ne saremo andati, e noi allora non facevamo che descriverlo, ed è quello che continuiamo a fare. Ci sono altre domande? Certo. Ma ora non mi vengono in mente. Aspetta che controllo.
Ma allora ti sei preparato. Certo che mi sono preparato. Ecco cosa volevo chiederti. Allora, Bertold Brecht cercò di piazzare questa sceneggiatura ad Hollywood, che aveva intitolato Pane, e in cui l’idea di fondo era che i capitalisti non sanno fare il pane, perché non pensano che a tagliare i costi e al PIL, e quindi sono condannati a fare un pane schifoso. Allora praticamente un capitalista va da un fornaio e gli fa, “Mi devi dare la ricetta del tuo pane”, e lui, “Sai, tu il pane non puoi farlo buono perché sei un capitalista”. Sei d’accordo?
Beh, in un certo senso è la pura verità, c’è tanto di quel pane schifoso in giro. È vero. Ed è per questo che mi viene sempre in mente questa cosa, perché quando l’ho letta ho pensato, “È proprio vero!”.
Sai, io sono un imprenditore, in un certo senso. Sono il co-proprietario di Dischord Records, ed è tutta la vita che lavoro, e non ho mai avuto problemi con il fare soldi. Non è che rifiuto il denaro o cose del genere, io lavoro, guadagno, e non lo sento come un problema. Ma fino a una decina di anni fa, ricordo che stavo chiacchierando con una persona, prima di allora non avevo mai capito come funzionano gli affari in America. Qualcuno ha un’idea, comincia un’attività, la cosa magari funziona, poi diventa molto popolare, e alla fine viene venduta. Ma non avevo mai capito fino a quando sono arrivato a 35 anni, e mi sono reso conto che è la pratica più diffusa. Io pensavo che, metti, se tu sei un bravo fornaio e fai del buon pane e ti piace farlo e alla gente piace, beh, continui a fare il pane. Mica devi vendere il forno! Mi sembra una cosa talmente ovvia! Ma è chiaro che il capitalismo fa un pane schifoso perché una volta che commercializzi un prodotto è finita. Verissimo.
Vedi, quando è stata fondata la Dischord, e lo scorso dicembre ha compiuto 25 anni, la nostra idea era di documentare la scena musicale di Washington D.C., e all’epoca pensavamo che ci sarebbero state tante altre etichette dello stesso tipo nel paese, gente che voleva documentare la propria scena. Era un universo molto tribale, in un certo senso. Devi anche tenere presente che all’epoca non c’era internet, non c’era la tv, programmi musicali, tutto avveniva in modo molto cellulare. Le altre etichette, quello che non si sono sviluppate e non hanno cambiato le loro idee nel tempo, sono state vendute, e ora non hanno nulla da spartire con i loro fondatori, è rimasto solo un marchio, un maledetto marchio. Sulla pietra tombale di ogni impresa ci si può scrivere, “Beh, qualcuno l’ha fondata ma alla fine, sai com’è, l’ha venduta e ora appartiene a qualcuno che a sua volta appartiene a qualcun altro”. A me piacerebbe che la mia invece dicesse, “Loro l’hanno fondata e loro l’hanno portata a termine. E tutto quello che c’è stato in mezzo è stato coerente”. Questo e ciò che mi interessa di più. Le major sono abituate a saccheggiare i campi, non a coltivarli. Loro arrivano, portano via tutto, e poi passano alla valle accanto. Noi non ci siamo mai fidati. Non ci interessava fare parte di quell’industria. Se c’è una cosa che mi ha spinto a continuare a lavorare per conto mio per tanto tempo è stata proprio il disgusto per quell’industria, perché io volevo solo fare musica, e non trovarmi a dipendere da quella catena di montaggio. Parte di questo processo è la digitalizzazione della musica, no? Cioè, prima hanno inventato il cd e hanno costretto tutti a comprare la musica nella forma del disco e del cd, ma ora si lamentano che nessuno compra i cd, voglio dire, qual è il futuro delle piccole etichette se nessuno compra i cd? Prenderete la strada del solo vinile? Ho sentito un sacco di gente che parla di “solo vinile” come nuova politica discografica.
Sono preoccupato. Ma devo dire, per quanto riguarda il digitale, chissenefrega. Se distrugge l’industria discografica, beh, ben venga, cazzo. No, sul serio, sarei felicissimo di finire io stesso in un cassonetto, se ci finissero anche quei bastardi insieme a me. Dobbiamo pensare il problema in questo modo: l’industria discografica in quanto tale gode del monopolio da un secolo; controllano la musica nel suo formato vendibile e consumabile, e forse saranno i computer, forse sarà questa cosa del digitale a rovinarli. Sarà la loro morte. E allora forse la musica tornerà nelle mani di chi la fa. Non ci sarebbe nulla di male. Anzi, è proprio una bella idea, sai. Una persona mi ha detto, “Cavolo, ora i musicisti dovranno andare là fuori e suonare dal vivo per fare un po’ di soldi”, e io ho detto, “Sì! E che cazzo pensava la gente?” Voglio dire, le cose vanno così: tutte le volte che ho pubblicato un disco qualcuno mi ha detto, “Allora andrai in tour per promuovere il disco?” Questa è una cosa che mi ha sempre sconcertato. Perché uno dovrebbe andare in tour per promuovere un disco? Non è il disco che promuove il tour? Io la vedo così, è esattamente il contrario. È così ovvio, se sei un musicista, vuoi suonare! Non è che pensi, “Oh madonna, ora mi tocca andare a suonare per vendere questo disco”. Io non penserei mai in questi termini, ma tutto va all’incontrario perchè è stato tutto calibrato per l’industria del disco. Molto interessante. Avevo un’altra domanda, però.
Scusa, non volevo distrarti. Ma no, era molto interessante. Ecco quello che ti volevo chiedere. Salvador Dalì ha detto, “Gli astrattisti non credono in niente, e per questo non dipingono niente”. Che ne pensi?
Penso che l’hai detta molto bene, e che la tua mente non fa che stupirmi. Beh, grazie. No, ma quello che sto cercando di dire è che la tua musica è molto attuale, o è sempre stata attuale, praticamente sin dagli inizi. Hai avuto un’enorme influenza su un sacco di gente. È una musica davvero attuale.
In realtà non mi piace considerarla “attuale”. Per esempio, quando scrivevo i testi per i Minor Threat mi ricordo bene che volevo resistere a tutti i costi all’impulso di inserire la parola “Reagan” nelle canzoni. Credevo che sarebbe stato il colpo di grazia. Se intitoli una canzone “Fuck Reagan”, poi ci sarà qualcuno che si domanda, “Ma di che sta parlando?”. Come per l’idea di stato di emergenza permanente di cui parlavamo prima. Credo di essermi reso conto di essere solo un essere umano. E scrivevo cose che la gente poteva provare, perché io le provavo. Mi sento molto vicino alla gente, sai. Sono sempre io alla fine, non sento mai di parlare a nome degli altri. E non penso mai, “Sono gli altri che sbagliano”. La gente può fare quello che vuole. Ma per me, personalmente, se devo cantare una canzone, dev’essere quello che penso cazzo. Per i miei primi testi con Teen Idles e Minor Threat ricordo che pensai, “Non voglio che qualcuno fraintenda questi testi, devo renderli il più diretti possibile”. Doveva essere qualcosa del tipo, “Questa è la mia posizione, questa e basta, e non è possibile fraintenderla”. Non avevo considerato però che semplificando così le parole avevo trasformato le canzoni in semplice strumenti che ognuno poteva usare per i propri fini. Non davano uno stimolo all’ascoltatore, erano idee chiuse in se stesse, e come tali chiunque poteva usarle per fare del bene, del male, o nulla. Allora ho cercato di aggiungere un’altra prospettiva affrontando i testi, e mi dicevo, “Non farli così semplici, non dargli idee finite, cerca di creare un ordito, cerca di creare dei materiali con cui la gente possa interagire se vuole. E poi magari cercare di creare qualcosa di costruttivo”. Questo ci porta alla prossima domanda, che è: ti senti mai responsabile in qualche modo? Tutti questi ragazzi crescono e comprano i tuoi dischi, e tu hai fatto parte di un sacco di gruppi che sono diventati canonici in un certo senso, per cui è tipico che chiunque voglia definire la propria identità di ribelle o di outsider si identifichi sempre con i dischi che hai realizzato. Senti un po’ di rimorso a volte, a che punto decidi di lavartene le mani?
Immagino che ti stia riferendo alla cultura straight-edge o cose simili. Qualche settimana fa un amico mi ha mandato la prima pagina del Denver Post, e c’era un lunghissimo articolo su queste assurde gang straight-edge di Salt Lake City. Di nuovo, l’ennesima ondata di gang che fanno cose tipo affettare i tatuaggi orrendi della gente col coltello o altre cose da gang, e ricordo di aver pensato, “Non ci posso credere”. Perché in qualche modo quando si parla delle origini di questi movimenti il mio nome salta sempre fuori, ma allora ho pensato, “Questa è semplicemente la vita, si tratta semplicemente di esseri umani”. Il fatto che degli esseri umani inventino delle armi che poi vengono gettate su altre nazioni e uccidano e tormentino migliaia di persone, beh, credo che anche quello sia collegato a noi. Tutto è connesso. Ma non posso provare senso di colpa per le gang straight-edge di Salt Lake City più di quanto non ne provi per l’assassinio di esseri umani che in questo momento sta avvenendo in Iraq, per esempio. Ma parliamo un po’ di Soft Focus. Cos’è? Beh, è questo.
Qual è la tua idea di fondo? Credo che forse l’idea di fondo è… che viviamo in un’epoca in cui l’arte è stata ridotta al vuoto assoluto, e penso che invitando a parlare alcuni degli artisti più dinamici di questa epoca, e di ogni epoca, possiamo contribuire a rivitalizzare la missione dell’arte, che è quella di trasformare la cultura. Che ne pensi?
Non saprei. Ecco un ottimo esempio: tu stai per pubblicare un nuovo disco, che uscirà tra un mese. Ma non ne abbiamo ancora parlato. Vorrei parlarne ora.
No, parliamo di te, invece. No, siamo qui per parlare di te, non di me.
No, parliamo di Soft Focus e di Ian Svenonius. No, sul serio, voglio farti ancora un paio di domande. Corre voce che The Evens, il tuo gruppo, eviti di suonare nei club. Dicci perché.
Il nostro obiettivo primario è di suonare la nostra musica e di portarla al di fuori dei luoghi di fruizione più prevedibili, più che altro perché, se non si parla di posti direttamente connessi all’industria discografica, sono comunque posti che ne assumono i valori. Voglio dire, io la musica la prendo sul serio, non cazzeggio. Se devo suonare voglio che la musica sia centrale, voglio che la gente la senta, che provi un’esperienza nuova. Voglio essere del tutto autonomo, non voglio avere debiti con nessun sistema, e per questo abbiamo il nostro impianto e abbiamo tutto quello che serve per suonare praticamente ovunque. Portando la musica al di fuori dei luoghi di fruizione più prevedibili riusciamo a creare le condizioni per momenti imprevedibili, e questo è quello che la musica deve fare. Se crei le condizioni giuste e il pubblico e la band lavorano insieme, e in un certo senso si lasciano andare insieme, c’è la possibilità che si arrivi a qualcosa di davvero incredibile. Ma se invece è sempre la solita cosa, arrivi dal buttafuori che ti controlla il biglietto e ti fa il timbro sulla mano, poi entri in questa stanza buia e ti sparano addosso la musica a tutto volume, e poi la musica si ferma e una band sale sul palco e le luci rosse e blu vanno su e giù per una mezz’oretta e poi la band se ne va e ricomincia la musica dalle casse, e ripeti questa routine cinque volte in una serata, poi vai a casa e pensi, “Ma che è successo, che cosa ho visto?” Così si costringe la musica in un habitat innaturale. È come andare allo zoo. Capisci cosa intendo?