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Perché dovreste seguire il football

Se considerate il football uno sport violento e di cattivissimo gusto, un’“americanata” meno sguaiata del Wrestling, è probabile che non abbiate capito molto.

La prima volta che per caso ho seguito una partita di football americano in televisione, si trattava di Dallas Cowboys – Pittsburgh Steelers, era il Super Bowl del 1995/96 e credo fosse Tele+2 a trasmetterlo. I Cowboys schieravano Deion Sanders, Troy Aikman, Emmit Smith e Michael Irving (tutti e quattro entrati poi nella Hall of fame), avevano vinto due degli ultimi tre titoli, erano soprannominati The American Team e, come suggerivano i cappelli da petroliere dei loro tifosi con tese ampie quanto un parcheggio IKEA, rappresentavano tutto quanto esiste di 100 percento americano che mi è sempre stato 100 percento sulle palle dell’America: in pratica l’equivalente di quello che oggi è Fox News. Al contrario gli Steelers potevano contare quasi solo su una difesa molto coriacea, provenivano da una delle città più working-class degli States e vantavano un quarterback con l’aria di chi è costantemente in sbatti. Tifare per loro mi sembrò la cosa più naturale del mondo. Altrettanto naturale fu che persero malissimo.

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Più che il dispiacere per la sconfitta tuttavia, l’impressione più nitida che conservo di quel giorno è quella di averci capito molto poco. Innegabilmente infatti, per un neofita il football è molto complicato da seguire e pieno di prassi controintuitive rispetto agli sport più amati dagli italiani, tipo il calcio, il calcio, il calcio, le bocce e le elezioni. Tuttavia, dopo anni passati (buttati?) a guardare partite, posso ormai dire di essere un discreto conoscitore di questo giuoco che si pratica coi caschi e per questo—dato che nella notte andrà in scena il Super Bowl XLVII tra San Francio 49ers e Baltimore Ravens, l’unica occasione al mondo in cui più di 50 persone al di fuori degli Stati Uniti si interessano al football—il web-editor di VICE Italia mi ha chiesto un pezzo per spiegare ai suoi lettori perché questo sport è, uso le sue parole, “una figata”.

Ultimo preambolo: mi sono chiesto se fosse il caso di cominciare con uno spiegone del funzionamento del gioco ma sono giunto alla conclusione che no, non era il caso per almeno tre motivi. Uno: avrei dovuto scrivere un post lungo il doppio di questo solo per introdurre i rudimenti di base. Due: credo che parte del divertimento, per un europeo che si accosta per la prima volta al football americano, stia proprio nell’“arrivarci da solo”. Terzo e più decisivo: “ehi siamo su Internet!” e quindi se vi interessa l’argomento, questo video per esempio lo spiega molto bene.

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Specificato questo, ecco tre delle principali qualità che secondo me rendono il football una fig… ehm, uno sport molto interessante.

STRATEGIA

Anche se, tra un sorso di tisana al ginepro e l’altro, i suoi detrattori europei considerano il football uno sport violento, barbaro e di cattivissimo gusto (ok, a volte non hanno tutti i torti), un’“americanata” giusto un pelo meno sguaiata del Wrestling, in realtà l’attività ludica che lo ricorda più da vicino sono gli scacchi. Questo soprattutto perché, a differenza del calcio, il football non è una disciplina interamente “fluida”, con azioni che si susseguono una dopo l’altra senza soluzione di continuità fino a quando qualcuno non segna un punto, fa fallo o fa uscire la palla dal campo, bensì, proprio come gli scacchi, il football si basa su una struttura “a mosse”. Ovvero è uno sport “stop and go” che, salvo rare occasioni figlie della sua imprevedibilità, si ferma dopo ogni mossa per riprendere dallo stesso punto alla mossa successiva.

Questa sua peculiarità lo rende deliziosamente tattico e “profondo”, poiché a ogni mossa dell’attacco deve rispondere un’adeguata contromossa della difesa ed entrambe queste mosse derivano da combinazioni di schemi estremamente dettagliate, studiate a fondo da analisti, ognuno specializzato in un dato aspetto del gioco, tramite strumenti estremamente raffinati che vanno dalla statistica al calcolo probabilistico, dalla psicologia fino alla tattica militare. L’insieme di queste centinaia di schemi è chiamato “playbook” e ogni giocatore deve ricordare a memoria ed eseguire con precisione chirurgica le traiettorie di movimento che ci si aspetta da lui in ogni dato schema, ogni volta che il capo allenatore ne chiama uno all’interno del playbook.

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IMPREVEDIBILITÀ

Un altro carattere che il football condivide con gli scacchi è la sua imprevedibilità e impredittibilità. Come si può perdere una partita a scacchi per una decisione sbagliata pur avendo un vantaggio di sei pezzi, a dispetto dell’apparente metodicità e costanza con cui le squadre avanzano sul terreno, in ogni istante, su un campo da football, può succedere di tutto e il suo contrario, con una drammaticità e rapidità sbalorditive. Anche dopo una sequenza di schemi oculatamente scelti e di azioni perfettamente eseguite, con cui magari ha guadagnato 99 yard sulle 100 totali, e avendo avuto in mano il pallino per dieci o 12 minuti di seguito, una squadra non può comunque dirsi totalmente padrona del proprio destino.

Come diceva Al Pacino in quel famoso monologo in quel bruttissimo film, in questo sport anche l’ultimo centimetro conta e deve essere guadagnato e può capitare che una squadra che si trova a meno di una yard dalla meta, si ritrovi a perdere palla per un intercetto o un fumble e a subire un touchdown difensivo nel giro di otto secondi, con una meccanica causa-effetto molto più drastica e immediata di quella del “contropiede” calcistico. Passatemi l’iperbole, ma per restare al calcio, è come se un giocatore tirasse un rigore e la palla, dopo essere finita sulla traversa, attraversasse tutto il campo in un attimo e si infilasse nella porta opposta. Dalle (quasi) stelle alle stalle in un amen. Nel calcio si vede solo dentro Holly e Benji, nel football succede quasi ogni settimana. Questo rovesciamento totale delle sorti è uno degli eventi dai contorni più netti e crudeli che possa offrire lo sport ma anche uno dei più ricchi di pathos. Negli anni ci si sono costruite sopra leggende, epiche e farse.

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NARRAZIONE

John e Jim Harbaugh ai tempi della scuola.

A essere completamente onesti, questa non è una prerogativa soltanto del football, ma in generale di tutto lo sport americano, ed è inoltre una qualità meno intrinseca agli sport in sé di quanto lo sia alla straordinaria bravura dei media oltre-Atlantico nel creare, alimentare e raccontare storie affascinanti intorno agli eventi agonistici, una capacità del tutto ignota alle nostre latitudini gazzettare. A ogni modo, in quanto sport americano per eccellenza, il football offre tantissime trame e sottotrame e la partita di questa sera non fa eccezione, anzi è una delle più ricche di intrecci degli ultimi anni. Il più clamoroso—probabilmente lo avrete già adocchiato su qualche quotidiano—riguarda gli allenatori: John e Jim Harbaugh. Sono due fratelli, rispettivamente di 50 e 49 anni. John allena i Ravens, Jim i 49ers. Nessuno dei due ha mai vinto niente di nemmeno lontanamente prestigioso quanto un Super Bowl, ed eppure oggi uno dei due dovrà “cainizzare” la serata dell’altro. Non era mai successo prima.

Ray Lewis mostra il suo lato più tenero.

Altre storie meritevoli portano i nomi di Ray Lewis, Randy Moss e Colin Kaepernick. Il primo gioca nei Ravens ed è probabilmente uno dei tre più forti Inside linebacker (il leader della difesa) della storia, nonché uno dei giocatori più carismatici di sempre. Per tutta la carriera è stato un colpitore durissimo, al limite del penale quando è in trance agonistica, ma raramente l’ho visto comportarsi con malizia su un terreno di gioco. I guai seri con la Legge semmai li ha avuti fuori dal campo quando, nel 2000, con alcuni amici si è trovato coinvolto in una rissa finita—non si è mai saputo come—con un cadavere. Ne venne fuori con una sentenza per ostruzione alla giustizia e un risarcimento patteggiato privatamente con la famiglia della vittima. In totale resta una vicenda su cui aleggia ancora una patina di foschia—eufemismo—e su cui né io né nessun altro abbiamo però elementi per emettere un verdetto di qualsiasi tipo. Limitandosi al gioco, Lewis è stato uno dei giocatori più esaltanti che abbiano mai indossato un elmetto e dopo 17 anni di professionismo quest’anno ha annunciato il ritiro dopo un lungo infortunio. Tornato a tempo di record per i Playoff ha trascinato i Ravens fino al loro secondo Super Bowl in 13 anni e se lo vincesse sarebbe il coronamento di una carriera strepitosa.

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Randy Moss e un tacchino nel Giorno del Ringraziamento, ai tempi dei Minnesota Vikings.

Randy Moss invece è uno dei più grandi talenti semi-sprecati degli ultimi trent’anni. Ricevitore dinoccolato e velocissimo, di gambe quasi quanto di favella, nel suo ruolo è stato uno dei più grandi di sempre (lui dice “il più grande”, ma appunto lui lo dice), nonché uno dei più ingestibili esaltati a correre una slant tra i professionisti, ragione per cui, secondo la rudimentale mentalità sportiva americana per cui alla ubris corrisponde sempre adeguato castigo, merita di non aver mai vinto niente di importante. Al termine di una carriera spesa tra Minnesota Vikings e New England Patriots, quest’anno è tornato in NFL dopo una stagione sabbatica firmando un contratto breve con i 49ers e ora ha la grande occasione di vincere il suo primo Super Bowl, a 36 anni e giocando per la squadra che fu di Jerry Rice, lui per davvero “il più grande ricevitore di sempre.”

La schiena di Colin Kaepernick.

Ultima ma non per importanza è la storia di Colin Kaepernick, a.k.a. l’uomo con la più evidente sproporzione tra la circonferenza dei bicipiti e quella del volto, a.k.a. l’uomo che ama mettere le tartarughe a 90°. Ventisei anni, quarterback dei 49ers, la sua è la classica “cinderella story” che si vende bene negli USA: ha incominciato la stagione da riserva finché il titolare Alex Smith non si è infortunato e da quel momento in poi, Kaepernick è diventato uno degli inamovibili di Jim Haurbagh fino all’apoteosi della semifinale di conference contro i Green Bay Packers in cui ha stabilito il record di yard corse da un quarterback nell’intera storia della NFL: 181. Fortunatamente c’è da dire che Alex Smith l’ha presa bene.

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