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Perché quella di Nibali al Giro d'Italia è un'impresa?

Vincenzo Nibali è il vincitore dell'ultimo Giro d'Italia. Dopo il suo trionfo sui social e sulla stampa, specializzata e non, si è parlato di una grande "impresa". Ma se ne può parlare davvero in questi termini?

Nibali durante il giro del 2013. Foto via Wikimedia Commons.

A chiunque sia abbastanza distante dal ciclismo da non passare tre settimane l'anno a seguire per quattro ore al giorno lo "spettacolo" televisivo rappresentato da 200 biciclette che attraversano l'Italia a velocità improponibili (40 all'ora di media, montagne comprese), il weekend appena trascorso dev'essere apparso come una specie di esaltazione collettiva senza precedenti.

Tra venerdì pomeriggio e domenica sera su buona parte delle bacheche Facebook italiane è stato tutto un fiorire di faccine e punti esclamativi a tema Giro d'Italia e Vincenzo Nibali. Di più: sui maggiori quotidiani sportivi (e non solo) non si faceva che parlare di "impresa senza precedenti," di "numero d'altri tempi," di "tappe epiche e immortali." Il direttore della Gazzetta dello Sport ha scritto un editoriale in cui citava Omero e Hitchcock; il canale tematico sportivo della Rai ha fatto segnare ascolti record; alcuni siti specializzati hanno persino evocato leggende del ciclismo come Coppi e Pantani nel tentativo di pescare il paragone più adatto a rendere la misura storica del successo del ciclista siciliano all'ultimo Giro d'Italia. Alla luce di tutto ciò, è molto probabile che nella testa degli appartenenti alla categoria descritta in apertura sia sorto un quesito legittimo e non banale: ma quella di Nibali è stata davvero un'impresa memorabile? E se sì, perché?

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Cominciamo col dire quello che obiettivamente ha fatto Nibali: ha vinto il Giro d'Italia, la più importante corsa a tappe italiana, la seconda più prestigiosa del mondo dopo il Tour de France. Fin qui nulla di epocale, se si considera che Nibali è uno dei più titolati corridori al mondo, l'unico in attività—insieme allo spagnolo Contador—in grado di vincere almeno una volta tutti i "Grandi Giri" (Giro d'Italia, Tour de France, Vuelta a España). Nella storia del ciclismo, solo altri quattro campioni ci sono riusciti: Merckx, Anquetil, Hinault e Gimondi. In più, Nibali ha 31 anni, e la sua è considerata una delle età collegate al maggior rendimento atletico, in uno sport di resistenza come il ciclismo.

Morale della favola: alla vigilia, Nibali era il principale favorito per la vittoria finale del Giro 2016. Non bastasse, dopo la prima settimana di corsa era già il meglio piazzato in classifica generale tra i favoriti, e quello che era considerato l'avversario più temibile di tutti, lo spagnolo Mikel Landa, aveva abbandonato il Giro a causa di un problema intestinale.

Tuttavia, sul primo arrivo in salita qualche segnale di nervosismo Nibali l'aveva mostrato: a Roccaraso aveva tentato di attaccare gli avversari scattando in una fase di controllo della corsa, finendo però per essere ripreso e staccato. Al termine della tappa si era giustificato parlando di un'incomprensione con il direttore sportivo della sua squadra. I dubbi sul fatto che qualcosa non funzionasse alla perfezione erano diventati certezze durante le tappe dolomitiche. Salendo verso Corvara in Badia, Nibali era stato nuovamente il primo a prendere l'iniziativa e ad attaccare, ancora una volta con esiti nefasti.

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Il giorno successivo, durante la cronoscalata dell'Alpe di Siusi, le cose erano andate storte: a metà scalata gli era saltata la catena, era stato costretto al cambio di bici, aveva perso oltre due minuti dal leader, e al termine della tappa, era finito a sfogarsi su Twitter: "Sono umano e non me ne vergogno". I media avevano parlato all'unanimità di flop Nibali e, dopo altri 50 secondi persi nella tappa di Andalo, lo staff aveva persino meditato un ritiro dalla corsa. Ma lui era rimasto in corsa, alla ricerca di un riscatto che, nel migliore dei casi, sarebbe stato rappresentato da una vittoria di tappa che avrebbe quantomeno restituito dignità al suo Giro. Alla vigilia della 19esimaa tappa, la vittoria finale della corsa rosa sembrava pura fantascienza: Nibali era quarto in classifica generale, con quasi cinque minuti di ritardo da Kruijswijk e tre da Chaves, lo scalatore più pimpante.

Il resto è storia degli ultimi giorni: scendendo dal Colle dell'Agnello, Kruijswijk ha sbagliato una curva ed è caduto, gettando al vento il suo Giro; Nibali invece, improvvisamente rinfrancato, ha staccato tutti gli avversari fino a vincere il suo secondo Giro d'Italia con un vantaggio di 52 secondi, il secondo distacco più contenuto degli ultimi dieci anni.

Ora, sebbene la frenetica scansione degli eventi possa apparire sufficiente a giustificare l'esaltazione generata da un evento sportivo lungo 86 ore e mezza che si decide infine per meno di un minuto, l'essenza dell'impresa di Nibali va ricercata ben oltre la pur spettacolare eventualità del cambio di leadership all'ultima occasione disponibile. D'altra parte, rimanendo al Giro d'Italia, solo quattro anni fa avevamo vissuto una dinamica non dissimile con il canadese Hesjedal.

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La straordinarietà dell'epilogo del Giro 2016 nasce invece dalla dimensione numerica del ribaltone, innanzitutto. Cinque minuti di ritardo, ma anche solo tre, nel ciclismo moderno sono un'eternità: le corse a tappe dell'ultimo decennio hanno privilegiato la regolarità più che l'estro; i grandi attacchi da lontano, quelli capaci di creare distacchi di diversi minuti piuttosto che di una manciata di secondi, sono diventati sempre più rari, effetto diretto di un livellamento di forze che ha alla radice tutta una serie di cause storiche (es: lotta al doping) e strutturali (es: approccio scientifico alla disciplina).

Da questo punto di vista, la rimonta di Nibali ha avuto l'effetto di evocare nomi e imprese d'altri tempi, perché erano effettivamente altri tempi quelli in cui era realisticamente possibile figurarsi una cosa del genere. Chiariamoci: Vincenzo Nibali, per stile e caratteristiche, non è né Coppi né Pantani, ma sul pubblico del ciclismo, ontologicamente predisposto alle iperboli, il suo salto dal quarto al primo posto nel giro di trenta ore ha prodotto lo stesso tipo di effetto, ha ricreato lo stesso corollario di immagini mitologiche. Le montagne innevate, il campione ferito, il riscatto, la sofferenza dignitosa degli sconfitti: la tappa di Risoul ha riassunto in un pomeriggio tutti i tòpoi del cosiddetto "ciclismo eroico", perché lo sport delle biciclette possiede ancora l'innegabile dono di trascendere le epoche e di ritrovarsi subitamente antico e anti-tecnologico.

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Gli highlights della tappa di Risoul.

Se le condizioni psichiche e fisiche di Nibali non deponevano certo a suo favore, su un piano più strettamente tecnico, va detto che l'impresa non sarebbe stata possibile, quasi certamente, senza la già citata caduta in discesa dell'olandese Kruijswijk. Anzi, i detrattori di Nibali fanno notare come le sue più grandi imprese, il Tour de France del 2014 e il Giro di quest'anno, siano legate a doppio filo agli infortuni dei suoi avversari: Froome e Contador in Francia, Kruijswijk in Italia.

Nibali quindi ha vinto perché è stato molto fortunato? Certo, è stato fortunato. Tuttavia sarebbe fuorviante ammettere che sia solo frutto del caso. Nibali, già durante il secondo giorno di riposo nel punto più basso del suo Giro, aveva risposto con "certamente, la discesa" alla domanda su quale potesse essere il punto debole della maglia rosa e a impresa compiuta ha ribadito che "le discese fanno parte del ciclismo esattamente come le salite." Tradotto: se non cado mai è un merito, mica fortuna; se mi ricordo, unico tra i duellanti, di vestire la mantellina per proteggermi dal freddo prima di iniziare a scendere, è un merito, mica fortuna.

A ulteriore sostegno dell'ipotesi-impresa, non si può tralasciare nemmeno il fatto che, oltre a Kruijswijk, ci fossero altri due uomini a precedere Nibali in classifica generale prima della partenza della 19esima tappa. E Nibali, sfruttando le sue note qualità di fondista (è capace di migliorare il suo rendimento alla fine di una corsa) e la sua abilità in altura (tra venerdì e sabato si è corso tanto sopra i 2000 metri), ha distanziato sensibilmente sia Chaves, poi secondo, che Valverde, terzo. Infine, siccome il ciclismo è al contempo sport individuale e gioco di squadra, è importante dire anche che Nibali ha potuto sfruttare il lavoro della squadra meglio attrezzata del Giro: il supporto di Michele Scarponi, in particolare, è stato decisivo almeno quanto le disattenzioni degli avversari.

In definitiva, l'impressione che si ha da un primo sguardo d'insieme sul Giro d'Italia del 2016, è che complessivamente Nibali abbia vinto una competizione in cui non era l'atleta con le gambe migliori. E in uno sport come il ciclismo, dove è possibile nascondersi e fare catenaccio solo fino a un certo punto, vincere quando non si è nettamente i più forti richiede il ricorso ad altre doti, quelle che la "gente del ciclismo" apprezza da morire. Thumbnail via Facebook Segui Leonardo su Twitter o su Bidon.

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