Cinque medici spiegano come affrontano la morte

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Cinque medici spiegano come affrontano la morte

Abbiamo chiesto ad alcuni medici come convivono con la morte e con la possibilità di commettere un errore, e quanto è difficile lasciare il lavoro fuori dalla vita privata.

Spesso è solo quando succedono cose che ci colpiscono da vicino—in senso più o meno geografico, come gli attacchi di Parigi—che siamo costretti a pensare alla morte come a una realtà fattuale. Tuttavia, nella quotidianità abbiamo la tendenza epicurea (anche se molto più irriflessa) a considerarla un'eventualità lontana e che, in fin dei conti, non ci riguarda.

Ma al di là dei filosofi esiste un intero Ordine professionale che non può fare finta che la morte non esista: i medici. Che siano o meno incaricati di dare cattive notizie, tutti i medici a un certo punto hanno dovuto venire a patti con il fatto che il loro lavoro è, in molti casi, una specie di contrattazione con la morte.

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Come ci ha spiegato la Prof.ssa Gabriella Pravettoni—psico-oncologa e ordinario di Psicologia Generale all'Università Statale di Milano, nonché responsabile di molti seminari dedicati ai medici sulla questione—"non c'è un percorso tipico di accettazione della morte come possibile esito nel lavoro del medico. Dipende in primis dalle premesse personali: quali sono le sue credenze e le aspettative sulla morte e quali emozioni associa a essa? Dove le ha apprese?"

Il fatto che culturalmente non siamo più portati a considerare la morte come una parte normale della vita ci spinge ad andare in cerca di "una cura a tutti i costi" e dall'altra parte a fomentare una "cultura della colpa nei confronti del medico," dice la professoressa. Il medico non è però solo "responsabile" nei confronti del paziente e del proprio modo di vivere la morte, ma deve spesso fare i conti con il modo di comunicarla. "A volte," spiega Pravettoni, "capita che il medico si senta in dovere di proteggere il paziente dalla sofferenza, mettendo forse in campo anche parte del proprio modo di gestire il dolore emotivo. Perciò è importante distinguere tra coinvolgimento utile alla relazione medico-paziente e quindi al paziente da quello non costruttivo."

Abbiamo dunque deciso di chiedere ad alcuni professionisti in varie specialità con una lunga esperienza alle spalle come si fa a mantenere un equilibrio tra fare al meglio il proprio lavoro scientifico, ricordarsi che quello non è solo un corpo, e non cadere in depressione.

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NATALE FRANCAVIGLIA—Primario di Neurochirurgia all'Ospedale Civico di Palermo

Sinceramente non ricordo la prima volta che ho dovuto comunicare una brutta notizia, forse perché col lavoro che faccio devo comunicare qualcosa ogni giorno. Al paziente e ai parenti bisogna dire tutto, anche perché è la legge a imporlo. Ma nel farlo bisogna essere il più umani possibile: sta alla tua esperienza capire chi hai davanti, parlando sempre con semplicità e onestà. Le doti che ritengo fondamentali sono professionalità, umanità e umiltà. E coscienza di aver fatto tutto quello che potevi: mi preparo sempre meglio che posso per l'intervento che dovrò fare l'indomani, e non penso alla paura di sbagliare. Nel mio lavoro se pensi di sbagliare è meglio andare in pensione.

Non penso ci sia "un modo" di vedere la morte: la morte è un dato di fatto. Fa parte della storia dell'uomo, è solo l'uomo moderno che si è illuso di sconfiggerla. Certo, questo non vuol dire che ci si abitui. Vivo il rapporto con la morte come un'esperienza culturale e personale. E religiosa: anche in medicina chi crede in qualcosa sopporta meglio il dolore e la morte.

Per scaricare la tensione faccio attività fisica e cerco di non portare a casa quello che mi succede sul lavoro, ma a volte ci riesco e a volte no. Per non impazzire, però, sarebbe meglio riuscirci sempre.

MATTEO COEN—Medico assistente in medicina interna presso Hôpitaux Universitaires de Genève, Service de Medecine Interne Générale (Ginevra)

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In linea teorica ero cosciente che mi sarei imbattuto quotidianamente nella morte quando mi sono iscritto a medicina, ma la realtà poi si è rivelata molto più complessa: nonostante il concetto nella mia testa sia rimasto lo stesso, le persone che se ne sono andate davanti ai miei occhi erano tutte diverse.

A mio parere, la medicina è un'applicazione all'umano di una conoscenza scientifica. Il "fattore emotivo" entra sempre in gioco. Tanto che certe volte ho avuto la sensazione—umana—di non essere in grado di svolgere il mio lavoro come avrei voluto. Ma dopo una bella corsa e una dormita passa tutto. In realtà, credo di essere un grande cultore del processo di rimozione. Ho cancellato completamente le sensazioni del mio primo incontro con la morte. Ricordo solo la stessa tensione che si ripete quando con tutti i colleghi ci riuniamo per decidere come comunicare la notizia ai familiari. Ovviamente, capita anche di affezionarsi ai pazienti: soprattutto durante le guardie di notte mi ritrovo a parlare con persone anziane, a instaurare con loro un rapporto paritario che durante il giorno sarebbe impossibile, per tutte le regole sociali che abbiamo. E anche se sono il primo a essere al corrente della prognosi, una sera durante il mio turno un mio "amico" se n'è andato prima del previsto. Lì il processo di rimozione è stato più lungo del previsto.

A differenza dell'Italia, in Svizzera—dove lavoro—è contemplata l'eutanasia. Assistere alla morte volontaria di un malato terminale palesa la dignità delle scelte personali. Concedere il diritto di non essere un peso né per sé né per gli altri non avvilisce le responsabilità del medico, ma le completa.

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GIUSEPPE VIALE—Medico direttore in Anatomia Patologica all'Istituto Europeo di Oncologia e Direttore della scuola di specializzazione in Anatomia Patologica della Statale di Milano

Quando mi sono iscritto a medicina pensavo più a guarire i pazienti che al fatto che morissero, poi ho imparato che non potevo guarirli tutti e che quando non si può guarire il mio compito diventa di garantire la migliore qualità di vita possibile, ma anche che una persona possa morire in modo accettabile: trovo fondamentale che esista una dignità nel morire. Il motivo per cui non mi faccio prendere dallo sconforto è che penso di poter offrire un aiuto: considero il mio lavoro positivo rispetto alla morte.

Certo la malattia non guarita è un fallimento, ma è legato alla nostra ignoranza in un determinato contesto storico e sociale, non è un fallimento personale del medico. La medicina sta in piedi perché tutti i giorni fai un progresso per aumentare il numero di persone che per quella malattia non moriranno, finché non troveremo il modo di prevenire—e senza in alcun modo pensare di poter rendere gli uomini immortali. Anche per questo credo che la migliore definizione di medico l'abbia data Camus, "Chi non crede ai miracoli e non tollera i flagelli si sforza di essere medico."

In ogni caso non direi che ho accettazione per la morte, perché accettazione ha una connotazione passiva, direi che ne ho consapevolezza.

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MARIA ELENA DI MATTEA—Dirigente medico, specialista in Radiologia nella struttura complessa per diagnostica per immagine all'Ospedale SS. Salvatore Paternò

Dalla prima all'ultima diagnosi, non è mutato molto. Nonostante ogni volta utilizzi termini tecnici per sfidare l'ineluttabile, continuo a credere che parole come paziente, codice rosso, decesso siano troppo asettiche per descrivere l'ultima perdita cara a qualcuno.

E nonostante la figura del medico sia sovente legata alla scienza, non ho mai conosciuto un collega realmente distaccato. Anche quando per professionalità celiamo una certa pressione emotiva, gli occhi non mentono mai. Tanto che quando dobbiamo comunicare a un familiare "il decesso di un paziente" nessuno prende in carico di propria iniziativa questo compito: cerchiamo di centellinare la notizia, dandoci i turni insieme agli infermieri. Molte volte, spento già l'elettrocardiogramma, preferiamo edulcorare con un se ne sta andando.

L'adrenalina della forza d'animo da tirare fuori in queste situazioni alla sera ti rende esausto. Arrivata a casa capita che mi chiedano, "Cos'hai?" ma non dico nulla. Per metabolizzare certe perdite impiego anche settimane. Per fortuna ho la fede: se ringrazio sempre per aver contribuito ad aver salvato una vita, prego ogniqualvolta qualcuno non ce l'ha fatta. Checché se ne dica, scienza e fede—almeno nel mio caso—sono complementari.

MOMCILO JANKOVIC—Dirigente medico e Responsabile dell'unità di Day Hospital di Ematologia Pediatrica presso l'Ospedale San Gerardo, Monza

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Come pediatra emato-oncologo mi occupo di patologie gravi, curo soprattutto leucemie e linfomi. Negli anni Settanta, quando ho cominciato, morivano più bambini di oggi e questo ha consolidato in me il pensiero della morte—non come prioritario certo, ma come possibilità. Anche per un'esperienza personale di malattia ho imparato che ci sono alcune cose fondamentali che il medico deve dare: condivisione, accompagnamento, ascolto. E non per buonismo, ma per professionalità.

La comunicazione per me è un atto professionale: in vent'anni ho dovuto comunicare il percorso di cura a 600 bambini dai quattro-cinque anni in su e altrettante famiglie. Bisogna dire le cose, ma sono i modi e la gradualità a fare la differenza, stare attenti a cosa il paziente è pronto a sentire. Il mio lavoro è esserci ed essere pronto a rispondere; anche quando un paziente 19enne mi ha chiesto, "Dottor Jankovic, sto morendo?" non credere che fossi preparato, ho risposto spontaneamente. Da un certo punto di vista con i giovani è più facile, perché vivono il presente.

Il medico non può oggi guarire tutti, ma deve far vivere al meglio tutti, anche se il tempo che resta è poco. Nell'accettare la fine e il lutto, la religione serve: alle famiglie, e non nego che serve anche a me per avere una serenità. Ma quello che importa davvero è usare in positivo le energie che ciascuno di noi ha, non abbandonarsi alla depressione e alla rabbia.

Io ho la fortuna e la capacità di staccare, di fare quello che io chiamo "vivere". Ho una famiglia e un figlio ed esco con gli amici, anche se poi il telefono è sempre acceso. Bisogna salvaguardarsi: quando è morta la mia prima paziente di cinque anni il mio primo istinto è stato di andare al funerale, ma il primario mi disse che se fossi andato a quel funerale sarei andato a tutti quelli dopo, ed è una cosa che emotivamente non posso permettermi.

Tutte le illustrazioni di Silvia Rocchi. Segui Elena e Vincenzo su Twitter.