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Una giornata a Milano con Howard Schultz, il CEO di Starbucks

Ci ha spiegato cosa si aspetta dall'arrivo di Starbucks in Italia, e cosa succederà.

Il primo segno dello sbarco in Italia di Starbucks doveva essere lieve, quasi impercettibile. Invece, coerentemente con lo spirito dei nostri tempi, si è rovesciato in un affaire più patetico che politico per via delle ormai famose palme in piazza Duomo a Milano—finanziate da Starbucks a seguito di un bando pubblico—che ancora ieri producevano titoli a dir poco sensazionalistici, e in alcuni casi sì, davvero patetici.

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Sgombrando il più velocemente possibile il campo dalle polemiche legate alla vicenda, cerco di capire cosa possa significare realmente l'apertura di Starbucks nel centro di Milano all'interno dell'imponete palazzo di Piazza Cordusio, un tempo sede delle Poste e da lì come apripista per il resto del Paese. Com'è noto, la catena di caffè più famosa al mondo non ha mai aperto un punto vendita in Italia e proprio in questi giorni è stato annunciato ufficialmente il debutto con quello che sarà molto di più della classica caffetteria, per diventare una sorta di modello e prototipo per il resto del mondo. Non è un caso che proprio l'Italia, 'patria del caffè, fosse fino a oggi rimasta lontana dagli investimenti del gruppo. Dunque, cos'è cambiato nel frattempo?

Per capirlo occorre fare un passo indietro ricordando alcuni dettagli alle origini di questa storia. Starbucks fu fondato nel 1971 a Seattle da tre ex compagni di università poi diventati insegnanti e scrittori. Ma è lo storico amministratore delegato, l'oggi 63enne Howard Schultz, che visitando proprio Milano nel 1982 fu sedotto dall'atmosfera dei caffè cittadini e dei suoi riti, una visione che lo portò a concepire quel format che ormai tutti conosciamo, e a rilevare nel 1987 la società trasformandola in una multinazionale con più di 24.000 punti vendita e che vanta un fatturato di oltre 21 miliardi di dollari l'anno.

Piazza Cordusio, dove sorgerà la Roastery di Starbucks.

In questi giorni Schultz è proprio a Milano per osservare i lavori che porteranno all'apertura della prima Reserve Roastery d'Europa, Medio Oriente e Africa (la quinta di tutto il mondo), prevista per la fine 2018. La sua presenza però è rivelatrice di ben altro e ho l'occasione d'incontrarlo e di partecipare a una piccola cerimonia che il CEO ha organizzato per conoscere i suoi "partner": sei giovani store manager di Starbucks UK in visita a Milano.

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Quando arrivo all'appuntamento è ora di pranzo e la location non potrebbe essere più affollata di così; essendo la domenica della fashion week nel centro di Milano, ed essendo Princi la destinazione, forse la bakery più famosa della città. Una scelta non secondaria, visto che sarà proprio Princi a fornire tutti i prodotti in esclusiva per le Roastery di Starbucks nel mondo; ed ecco quindi anche lui, Rocco Princi il suo fondatore, la cui biografia sembra scritta da Zavattini, lì ad ascoltare le parole di Howard Schultz che del panettiere italiano dice, "Ho pregato per anni quest'uomo in ginocchio per poter vendere i suoi prodotti e alla fine qui a Milano, con questo progetto, ha accettato."

Howard Schultz ripercorre la storia della sua vita, raccontando ai giovani manager e ai "baristi" italiani dell'infanzia nelle case popolari di Brooklyn, il dramma di un padre licenziato da un giorno all'altro senza alcuna assicurazione sanitaria o aiuto economico, e da lì il desiderio di riscatto, di costruire dal niente un impero ma soprattutto di garantire ai suoi dipendenti le migliori condizioni di lavoro possibile.

Howard Schultz insieme agli store manager. Foto di Guido Borso.

Sarà il fascino persuasivo del capitalismo, sarà quell'arte oratoria americana di fare team, ma i giovani store manager sembrano galvanizzati da quel momento collettivo. Parlando con alcuni di loro capisco che ho davanti persone con i background più diversi, provenienti da ogni parte d'Italia: chiedo a Lucia, una ragazza di Napoli che sembra molto più giovane dei suoi 39 anni, che effetto le fa ascoltare le parole di Schultz e lei molto limpidamente ammette: "Rappresenta il sogno di tutti, di chi è arrivato al massimo partendo da zero. Penso che tutti vorrebbero essere come lui." Lucia come gli altri, lavora da anni in uno dei vari punti Starbucks disseminati per Londra, ed è un esempio esempio di ragazzi di quella generazione tra i 20 e i 40 anni che hanno iniziato a vivere in Inghilterra, alcuni studiando e altri lavorando per mantenersi e che infine hanno trovato nella catena di caffè qualcosa di più di un semplice impiego.

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Me lo racconta ad esempio Christian, 26enne di Pisa, che poco prima ha officiato il "rito" del caffè con una speciale ampolla, servendo il blend Pike Place (l'originale miscela servita nel primo Starbucks) a Schultz e al resto del team: "Mi sono laureato in discipline dello spettacolo e della comunicazione, ho fatto teatro e poi sono andato a Londra, dove da tre anni lavoro nello Starbucks di Leicester Square. All'inizio era un semplice occupazione, ma poi mi sono appassionato realmente a questo mestiere, in particolar modo ad insegnarlo ad altri e infatti recentemente sono stato mandato in Sudafrica per portare la mia esperienza ai baristi della altre roastery."

Foto di Guido Borso.

Dopo una foto di gruppo i ragazzi proseguono il loro tour milanese verso il Camparino in Galleria Vittorio Emanuele, a pochi passi dalle famose palme, uno dei caffè storici della Milano risorgimentale. Il loro entusiasmo e il senso di appartenenza alla famiglia Starbucks appare sincero. Schultz è uno dei più pagati CEO americani ed è un simbolo per i suoi dipendenti. Eppure, nel suo volto e nello sguardo, che assomiglia a quello di Roy Scheider ne Lo squalo di Spielberg, qualcosa sembra mancare. Come se il pesce più grande fosse ancora là fuori ad aspettarlo.

Il giorno successivo incontro nuovamente Schultz e questa volta ho l'occasione di parlarci direttamente per capire meglio la proporzione del progetto milanese e proprio a proposito della città mi spiega: "Nel 1983 da ragazzo visitai per la prima volta l'Italia e venni proprio qui a Milano. Percorrevo la città spostandomi da un bar all'altro. M'innamorai di questo senso di comunità e umanità che si respira attorno al rito del caffè. Iniziai a chiedermi come fosse possibile portare una simile esperienza in America a modo mio." La sua descrizione dello store di Cordusio—un vero e proprio gioiello che si distinguerà per design, innovazione e un certo romanticismo, dice—lo fa quasi sembrare un incrocio tra la fabbrica di Cioccolato di Willy Wonka e un manga Steampunk.

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"Milano per me continua a rappresentare 'il' luogo per eccellenza in Italia, ci torno tutti gli anni," aggiunge. "Per noi è fondamentale continuare a frequentarla per capirne la cultura e i suoi cambiamenti. A Milano si respira l'etica del lavoro, e lo spirito d'innovazione è qualcosa che sento molto vicino, seppur in una città completamente diversa, a Seattle, dove tutto è cominciato."

Certamente la promozione di valori sociali e la segmentazione dell'offerta sono i più recenti e affilati strumenti del marketing, e Howard Schultz in questo senso non fa eccezioni come CEO di una multinazionale. Più realisticamente viene da chiedersi se l'apertura di Starbucks rappresenterà una minaccia culturale per l'Italia—come parrebbe leggendo i molti titoli catastrofisti, a partire dal più recente "l'apertura in Italia di Starbucks come italiano la considero un'umiliazione" di Cazzullo sul Corriere—o se più semplicemente andrà ad aggiungersi alle tante offerte possibili a Milano.

Foto di Guido Borso.

Va detto, del resto, che gli italiani che oggi protestano contro questi invasori delle tradizioni nostrane sono gli stessi che poi vediamo affollare gli store dei brand stranieri, gli stessi che continuano a tifare la squadra del cuore ora nelle mani di imprenditori cinesi, che guidano macchine tedesche e che da più di trent'anni amano consumare cibo nella più famosa catena di fast food americana che, giusto per rimanere nella stessa città (e quasi nello stesso luogo), suscitò proteste da parte dei clienti affezionati quando dovette chiudere per il mancato rinnovo del contratto d'affitto.

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Ripensando all'incontro con quei ragazzi il giorno prima, e alla prima e unica esperienza come avventore di Starbucks (a New York, nel 1999), mi rendo conto di quanto radicalmente Schultz abbia contribuito a riconfigurare e accorpare quella che lo studioso Richard Florida nel 2002 definiva come "la nuova geografia delle classi." "Quello che abbiamo voluto creare fin dall'inizio era un posto a metà tra una casa e un luogo di lavoro, dove tutti fossero ammessi… un ambiente dove chiunque possa passare del tempo a leggere, a comporre musica, a scrivere senza distinzione di età, etnia o classe sociale," continua Schultz, che spiega: "I nostri store sono diventati negli anni catalizzatori per le cose più disparate, che continuano a impressionarmi; alcune persone hanno persino voluto sposarsi da Starbucks."

Mentre concludo l'intervista mi viene in mente uno dei video-mixtape dei primi anni Duemila, degli artisti inglesi Oliver Payne e Nick Relph dove i due celebrano a modo loro il concetto di "Youth under the siege of youth culture" e dove non a caso i loghi e le uniformi di Starbucks ritornano spesso per descrivere una generazione in qualche modo intrappolata in un presente continuo fatto di eterni giovani che si barcamenano tra piccoli impieghi e divertimenti. Gli chiedo se il grande sogno che ha mosso quelli come lui e come Steve Jobs non abbia esaurito la capacità di creare un vero futuro per questa generazione. "No, sono ottimista e trovo che ci siano grandissime energie oggi, e che i giovani debbano combattere insieme per i loro sogni, ho grande fiducia in loro."

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Howard Schultz alla Bocconi.

Dopo la nostra conversazione il corteo si sposta all'Università Bocconi, dove Howard Schultz è atteso per una lezione a porte chiuse con 800 studenti e, in prima fila, Mario Monti e il rettore Gianmario Verona. Il suo discorso non ha molto di quello che potrebbe pronunciare un manager di successo a una platea di futuri capitalisti. Schultz cita Martin Luther King, e ricorda in particolare il celebre discorso fatto da Robert Kennedy a Indianapolis a pochi minuti dall'omicidio di King per parlare di razzismo. "È il momento di dire da che parte stiamo e per cosa lottiamo," dice, prima di chiedere alla platea come sia possibile oggi poter entrare da Starbucks portandosi un'arma in tasca, in uno dei 46 stati su 50 dove è legale "e non solo una pistola, in questi stati potete entrare in un qualsiasi luogo pubblico e portare con voi un AK1, un fucile da guerra. Tutto questo è assurdo… è questo il paese che vogliamo?"

Negli Stati Uniti, Schultz è stato uno dei pochi grandi manager che si sono dichiaratamente espressi contro il Muslim ban di Donald Trump, annunciando di voler assumere 10.000 rifugiati nei suoi store—annuncio al quale sono seguite pittoresche teorie e boicottaggi da parte dei fan di Trump all'hashtag di #BoycottStarbucks. "Voglio tenere fede a questa promessa che ritengo molto importante, e aggiungo che Starbucks ha già attivo un programma d'assunzione per veterani, militari e le loro mogli," mi aveva spiegato quella mattina. "Le grandi multinazionali hanno un'enorme responsabilità in questo senso, devono aiutare la gente non soltanto dando loro un lavoro ma prospettando un futuro migliore."

Dopo il discorso, otto ragazze e ragazzi della Bocconi pongono a Schultz domande sulla leadership, sull'innovazione, sull'internet of things, sui modelli di business. In alcuni casi il CEO di Starbucks le schiva persino, per scandire ancora una volta il suo messaggio, "recentemente ho parlato con un cameriere in America, un ragazzo di 19anni di colore: era disperato perché un cliente non ha voluto essere servito da lui, da un nero, per questo dovete lottare: per un società dove tutti, bianchi e neri, gay, etero e transgender, cristiani, cattolici, musulmani siano accettati."

Mentre pronuncia queste parole—che vanno ad aggiungersi a quelle di qualche ora prima sul voler "aggiungere valore alla società" attraverso Starbucks, e "restituire qualcosa alla comunità, per migliorare le condizioni di vita dei clienti e dei dipendenti"—mi appare ancora più chiaro che il suo linguaggio si stia connotando come quello di un politico in campagna elettorale. Non poche voci dagli Stati Uniti, del resto, lo vorrebbero in corsa per un ticket alla Casa Bianca.

Si tratta di voci. Esattamente come quelle che per anni si sono rincorse sull'arrivo di Starbucks in Italia—almeno queste ultime, ora, sono state confermate una volta per tutte.

Segui Riccardo su Twitter: @ByzantineVampyr