Live Through This

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Live Through This

Il fotografo Tony Fouhse ha trascorso un anno insieme a un'eroinomane, documentandone la vita.

Di recente, i tossicodipendenti sembrano essere diventati i soggetti prediletti di fotografi in cerca di emozioni forti. Il problema è che spesso lo sguardo sulla psiche degli individui ritratti è superficiale, o finisce per diventare poco più di una scusa. L’ultimo libro del fotografo canadese Tony Fouhse, Live Through This, ha qualcosa di diverso. Tony ha passato quattro anni a fotografare tossicodipendenti nella periferia di Ottawa, e questo libro è la raccolta di ritratti intimi che dipingono la lotta contro la dipendenza di una di loro, Stephanie Macdonald.

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Tony ha incontrato Stephanie mentre lavorava a un altro progetto. Dopo averla fotografata più volte hanno iniziato a conoscersi meglio, fino a stringere un patto: Stephanie voleva aiuto per entrare in una comunità di recupero e Tony voleva farle delle foto. Durante i primi sei mesi i due sono diventati estremamente intimi, e a causa di una serie di eventi, Stephanie si è trasferita a casa di Tony e sua moglie—con tutti i problemi che una situazione del genere può comportare.

Live Through This è una collaborazione e una conversazione tra Stephanie e Tony. La sua presenza e la loro relazione emerge dalle fotografie senza mai risultare forzata. Ho chiamato Tony per discutere la natura di questo lavoro, la sua relazione con Stephanie e i dilemmi etici che emergono quando la tua connessione con il soggetto sfugge di mano.

VICE: Avevi già lavorato coi tossicodipendenti prima di incontrare Stephanie. Cos’aveva di così speciale che ha fatto sì che ti interessassi a lei?
Tony Fouhlse: La cosa che ho trovato eccezionale di Stephanie era la sua abilità a connettersi con le sue emozioni e a mostrarmele. Può anche darsi che sentissi che era l’ultimo anno in cui avrei fatto fotografie lì e volessi lasciare il segno su qualcuno.

Come mai è venuta a vivere a casa con te e tua moglie?
Circa cinque giorni prima di iniziare la disintossicazione mi ha chiamato per dirmi che stava male. Diceva che il cervello stava per esploderle. Era un’emergenza. Le hanno trovato un ascesso cerebrale e l’hanno trasferita nel reparto di neurologia. Sarebbe dovuta rimanere in ospedale sei settimane, ma tre giorni dopo l’operazione mi ha chiamato  e mi ha detto, “Vieni a prendermi. Voglio andare a casa.” Le ho detto, “Quale casa?” E lei, “Casa tua.”

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Come è stato vivere con lei?
Molto difficile. A giugno, quando le ho chiesto se potevo aiutarla, non avevo idea dell'intervento al cervello. Mi stava scivolando tutto di mano. Quando l'hanno dimessa era come una bambina cresciuta dai lupi. Era frenetica, felice di essere uscita e felice di essere viva. Si chiedeva quale futuro l’aspettasse, ma continuava a cadere nei suoi vizi. Se ne stava di sopra e teneva duro finché poteva, senza svegliarmi per chiedermi i soldi per la roba. È andata avanti per circa sette giorni. L’ottavo giorno si è alzata ed era una persona diversa. Era come se ce l’avesse fatta. Era molto più consapevole. Si era ripresa dall’operazione e voleva disintossicarsi.

Avresti mai detto che ti saresti avvicinato così tanto a lei?
No, è stata una vera sorpresa. Sono un tipo un po’ ingenuo. Ho un’intelligenza da strada; posso andare a Los Angeles e fotografare stupratori e cavarmela. Ma quando si tratta di certe cose, imparo davvero lentamente. Non mi piace pensare troppo, nel mio lavoro. Mi piaceva fare le cose e vedere cosa ne veniva fuori. Quel che sicuramente mi ha sorpreso è stata l’intensità della nostra relazione. Ci sono un sacco di cose che non ho fotografato. In quelle situazioni di merda mettevo via la macchina fotografica e affrontavo il dramma. Ho dovuto decidere se volevo essere suo amico o un fotografo.

E lei, ti vede più come un fotografo o un suo amico?
A questo punto sono molto più un amico, per lei. Quando il progetto era in corso, dovevo prendere delle decisioni. Dovevo mettere in discussione la mia morale e la mia etica. È una ragazza svegia e parlavamo un sacco di questa cosa. Le dicevo, “Non so cosa sto facendo. Non so se ti sto aiutando o facendo del male.” Il mio lavoro consiste anche nell'esplorare i confini morali ed etici e capire come una persona possa reagire. In questo caso, credo che questa persona sia io.

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Quale è stata la cosa più difficile per te in quanto fotografo, quando siete diventati amici?
Credo che la cosa più difficile sia stata trovarmi in situazioni in cui mi veniva messa davanti una scelta difficile. Ti faccio un esempio. A volte andavo a prendere Stephanie al mattino e la trovavo in astinenza. Non aveva roba o soldi e diceva, “prestami 30 dollari.” Avevo una scelta: potevo darle i 30 dollari, salire in macchina e accompagnarla a prendere dell’eroina; oppure potevo dire di no. Se avessi detto di no, probabilmente sarebbe uscita di casa per mettersi su un angolo della strada finché qualcuno non avesse sentito il bisogno di farsi fare un pompino. E una volta presi i soldi sarebbe andata a comprare l’eroina. Sono quelle le situazioni moralmente incasinate in cui mi sono trovato più e più volte. Non ho mai lavorato a un progetto in cui la morale e l’etica mi mettessero così in difficoltà.

Oltre a inserire nel libro le lettere di Stephanie, come l’hai coinvolta nel processo creativo?
Ho scelto le foto che la mostrassero isolata da quel che la circondava. Il contesto della sua vita era come sparito. Ci sono foto di lei che si fa e che dorme, ma gran parte del libro appartiene a quella categoria che definirei ritratto fotografico. Gran parte di quelle foto, tranne quelle scattate all’ospedale, le abbiamo decise insieme. Ci trovavamo in una situazione e io dicevo, “Stai qui, guardi qui, non guardarmi, non sorridere.” C’è un che di artificiale in tutto il mio lavoro, perché non credo nell’obbiettività. Credo che se il fotografo mostra alcuni segni di creatività risulta più onesto.

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Anche se le foto del libro sono pensate, trasmettono un vero senso di solitudine.
Volevo che la solitudine si vedesse. Parte del motivo per cui sono pensate ma sembrano vere è che le situazioni in cui ci trovavamo erano vere. Costruivo fotografie in una situazione molto vera. Il curatore della mostra dice che le fotografie sono straordinarie e banali, come la vita di un drogato. Volevo sottolinearlo anche eliminando il contesto. Volevo far presente che io e Stephanie ci eravamo dentro insieme. La mia presenza nelle fotografie doveva essere capita, piuttosto che vista.

All’inizio del libro accenni alla volta in cui hai detto a Stephanie che sarebbe dovuta morire, perché avrebbe avuto una fine migliore. Cosa intendevi dire?
È come se Stephanie e io fossimo stati in guerra insieme; a quel punto eravamo entrambi emotivamente coinvolti e non avevamo niente da nascondere. In più, quelle situazioni fanno emergere una specie di humor nero. Era tutto vita e morte. Ma quando sei in una situazione di vita e morte, uno dei modi per sopravvivere è scherzarci su. Ci sono un sacco di motivi per cui quell'aneddoto è finito nel libro. Indica anche la mia filosofia. Non credo nel lieto fine. Alla fine non sono sicuro che questo lo sia, perché Stephanie sta ancora lottando. È viva e sta 100 volte meglio di quando l’ho incontrata, ma per lei ogni giorno è una lotta. Sì, era un lieto fine, ma era tanto lieto quanto ci si poteva aspettare. Sopravviviamo per lottare un altro giorno. Cosa potrebbe esserci di più felice?

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Segui Stephanie (l'autrice) su Twitter: @smvoyer

Altri progetti fotografici:

A Mosca esiste un vero Fight Club

Stazione termini

Estate 2010Tony Fouhse

Steph a letto, novembre 2010Tony Fouhse

Steph a casa mia, novembre 2010Tony Fouhse

Dicembre 2010Tony Fouhse

La stanza di StephTony Fouhse

Nelson Street, dicembre 2010Tony Fouhse

Dicembre 2010Tony Fouhse

Gennaio 2011Tony Fouhse

Steph subito dopo essersi bucata, gennaio 2011Tony Fouhse

A casa, febbraio 2011Tony Fouhse

La stanza di Steph, marzo 2011Tony Fouhse

Steph al pronto soccorso, marzo 2011Tony Fouhse

Steph nel reparto di neurologia, marzo 2011Tony Fouhse

Steph a casa mia, tre giorni dopo l'operazione, marzo 2011Tony Fouhse

A casa mia, con Gus e Lily, marzo 2011Tony Fouhse

La cicatrice lasciata dall'operazione, aprile 2011Tony Fouhse

A casa mia, aprile 2011Tony Fouhse

Tre mesi dopo, durante il viaggio in Nuova Scozia, giugno 2011Tony Fouhse

Steph alla miniera di Westray, New Glasgow, giugno 2011Tony Fouhse

Steph a casa di sua madre, New Glasgow, giugno 2011Tony Fouhse

Steph nella sua stanza, New Glasgow, giugno 2011Tony Fouhse