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"Braccialetti Rossi" è sempre la solita storia

Ieri, mentre tutte le attenzioni erano rivolte agli Oscar, su Rai Uno andava in onda l'ultima puntata della miniserie "Braccialetti Rossi".

Ieri, mentre tutte le attenzioni erano rivolte agli Oscar, su Rai Uno andava in onda l'ultima puntata della miniserie Braccialetti Rossi. È l’adattamento di un format spagnolo di successo, che ha ripreso anche Steven Spielberg e che in Italia è stato scritto da Sandro Petraglia (che ha scritto tante ottime cose come La meglio gioventù, La ragazza del lagoIl Portaborse e molto altro, e le cui opere nel cinema e nella tv italiana vengono messe in discussione con la stessa serenità di giudizio con cui in Corea del Nord si discetta di libertà di stampa). È girato da Giacomo Campiotti e ne è già in lavorazione una seconda stagione.

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Della serie si è parlato molto in questi giorni, per l’ottimo riscontro che ha ottenuto a livello di share e anche per il fatto che sarebbe riuscita dove tutte le dirigenze Rai degli ultimi vent’anni e la legge morale hanno fallito—ovvero, ad attirare un pubblico giovane. Per rendersi conto della portata della notizia in viale Mazzini si possono immaginare le conseguenze che genererebbe l’improvviso apparire di una partita da un quintale di cocaina nei bagni degli studi di Uomini e donne, qualcosa a metà fra estasi e gioiosa violenza primordiale.

La serie è composta da sei puntate, che raccontano la storia di un gruppo di giovani ricoverati in una struttura ospedaliera. Tutti i protagonisti fronteggiano malattie gravi e diagnosi infauste; si va dai tumori agli infarti ai danni neurologici, alle amputazioni fino alle morti di undicenni, quindi ci si aspetterebbe un’atmosfera ragionevolmente complessa, pur trattandosi di un prodotto a metà fra commedia e teen drama.

Fortunatamente si decide di mettere subito in chiaro le cose, introducendo la serie con un meccanismo narrativo avanguardistico e che nessuno si sarebbe mai aspettato: una voce narrante. Però si voleva anche essere sicuri di poter zittire quelli che in Rai sono noti come i “cinici da tastiera” e nel resto del mondo sono chiamati “spettatori che hanno conseguito la licenza media”, quindi si è scelto un personaggio per nulla ricattatorio, cioè un bambino in coma chiaramente assemblato in un laboratorio specifico di produzione di Speranza per Milioni di Italiani.

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È lui che non solo veglia sull’ospedale come una sorta di buona presenza onnisciente, ma ci introduce alle storie degli altri protagonisti. Tra questi c'è Valentino, arrivato in ospedale per farsi amputare una gamba a causa di un tumore alla tibia. Come tutti gli altri affronterà i suoi momenti di peggiore pathos accompagnato dalla voce della Pausini o di Emis Killa e da una quieta autistica speranza, per cui prima dell’intervento lui sarà semplicemente “un po’ nervoso” ma per fortuna un infermiere si ricorderà di suggerirgli di pensare a “una cosa bella” e tanto basterà per tranquillizzarlo.

Tutti i personaggi mancano d’introspezione o anche semplicemente di un carattere al punto da dover esplicitare qualsiasi loro intenzione o ruolo all’interno della storia. Se si sentono soli durante il ricovero, come Leo, e provano il desiderio di costruire dei rapporti d’amicizia all’interno dell’ospedale andranno letteralmente in giro dalle altre persone dicendo loro: “Formiamo un gruppo? Io sarò il leader! Tu sarai il furbo. E tu il bello! Mentre tu sarai la ragazza.“

Ma probabilmente è inutile descrivere nel dettaglio questi meccanismi, perché è quello che senza dubbio accade tutti i giorni fra i giovani e tutti noi comunque serbiamo dei ricordi molto simili della nostra infanzia e delle nostre esperienze di socializzazione.

L’implacabile occhio neorealista della Rai però non si limita ai vibranti ritratti umani: non si fa mancare neanche una grande tradizione dei serial ospedalieri, cioè le scene di emergenza. In genere sono scene molto giocate sul ritmo, frenetiche, in cui la regia ha più possibilità di dare un taglio emotivo e incisivo alle riprese. In Braccialetti Rossi l’atmosfera durante le scene “d’azione” è così sincopata che corri il rischio reale di addormentarti mentre si sta decidendo il destino di un bambino.

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Un rischio che non si corre mai, invece, è quello di essere messi davanti a tutto quello che comporta una vera malattia mortale in età così giovane, tutta una serie di conseguenze poco telegeniche, ma contemporaneamente dalla grande forza rappresentativa che vengono serenamente epurate dallo script perché onestamente difficili da far combaciare con le linee comiche di inservienti romanacci e bambini istrionici in quanto napoletani.

Braccialetti Rossi è un prodotto perfetto per Rai Uno nonostante sia stato un ottimo successo a livello internazionale, perché unisce due core business dell’azienda in fatto di narrazione seriale: il binomio deliziosamente innocuo e democristiano commozione facile/buoni sentimenti che è più o meno alla base di tutte le loro produzioni in materia di fiction.

La differenza visibile in questo caso è che l’approccio tipico del network alla scrittura è stato innestato su un’idea comprata all’estero, funzionale e potenzialmente esplosiva a livello commerciale e televisivo. L’intrattenimento non deve necessariamente riguardare l’eroina o l’orrore umano o il demonio e va bene che esistano prodotti mirati a un target più ampio e bisognoso di rassicurazione, esattamente come Braccialetti rossi nelle intenzioni dei creatori originali. Quello che stupisce è l’assoluta incapacità del nostro adattamento di uscire dai soliti codici narrativi per cui si arriva a esplorare il labilissimo confine fra il lirismo e il lol in scene al rallenty particolarmente spericolate di gioia e buoni sentimenti, in cui arrivano a comparire personaggi di colore mani visti prima all’interno della serie per suggerire un’accezione più inclusiva e terzomondista della felicità, immagino.

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Il promo dell'ultima puntata.

Non cerco di negare che questa serie abbia avuto un impatto positivo nella critica o nelle pagine Facebook dedicate o che tentare di usare una colonna sonora pop sia stata una buona idea—per quanto personalmente avrei evitato di associare un brano di Vasco Rossi notoriamente dedicato all’eroina a una scena che prevedeva la rianimazione di un bambino infartuato. Ma sono gusti, si sa.

Molte delle recensioni positive di cui ha goduto la serie hanno voluto sottolineare il “cambiamento”, la discontinuità con gli altri prodotti a base di estetiche stereotipate e contenuti meno forti a livello emotivo. Si è notato l’avvicinamento di un pubblico più giovane e tanto è bastato. Che non ci sia stato alcun tipo di evoluzione nel linguaggio fa nulla. La scrittura non è diventata più spessa né la recitazione è diventata meno imbarazzante, non si è rinunciato a una visione edulcorata e pedagogica di questo “dolore” che si è provato a trattare, convincente quanto una scena di rapina a mano armata con sei morti in Centovetrine.

Si è solo avuta la giusta intuizione in fatto di sociologia di massa e cioè che piangere è liberatorio, ma suggerire che con la speranza e la forza d’animo si può superare qualsiasi difficoltà funziona sempre, anche quando non è vero. Inoltre abbiamo imparato anche che fra gli adolescenti c’è una fame tale di modelli televisivi della loro età che si accontenterebbero anche di una scopa con un cappello poggiato sul manico. Questa è anche la lezione più preziosa di tutte per il network, che chiaramente si guarderà bene dal cogliere il suggerimento.

Segui Laura su Twitter: @lautonini

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