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Cosa ho capito guardando lo speciale del TG1 sugli hipster

Domenica sera è andato in onda uno speciale del TG1, intitolato Le Nuove Tribù, che approfondisce tutte le dinamiche che stanno dietro al fenomeno e alla cultura hipster. Ecco cosa ci ho capito guardandolo.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Domenica sera è andato in onda uno speciale di un'ora del TG1, intitolato Le Nuove Tribù, che approfondisce tutte le dinamiche che stanno dietro al fenomeno e alla cultura hipster annunciandosi in questi termini: "Dopo i paninari, i metallari, i punk, gli emo, quali sono in Italia, le nuove tribù giovanili? Si può parlare di 'generazione hipster'?"

Ora: aspettarsi che un telegiornale come il TG1, con un pubblico come quello del TG1, arrivi in ritardo sulle tendenze e le mode è normale e pacifico. Quindi è altrettanto normale che il reportage sia uscito a marzo del 2015: in un momento in cui, 328 "tendenze giovanili" più tardi, probabilmente non ha più alcuna importanza capire chi o cosa siano gli hipster.

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È sempre interessante, però, capire come il nazionalpopolare ingurgiti e digerisca gli stereotipi di una sottocultura (sempre che la cultura hipster o quello che inquadra si possa definire così): in parte perché rende bene l'idea di quali siano gli strascichi che si porta dietro, e in parte perché è la metastasi che ne decreta lo stato terminale. Quando arriva il TG1, l'hype della questione ha già perso i battiti da un pezzo.

Così, ho deciso di ricostruire completamente il mio schema cognitivo del sostantivo 'hipster' assorbendo per osmosi le nozioni che Le Nuove Tribù ha dispensato.

Il documentario parte con un noto hipsterologo milanese, Gigio Moratti, che dà il suo personale giudizio riguardo al sottogruppo a cui si sta facendo riferimento: "Io l'ho sempre vista come una ricerca di stile vuota nel suo significato. Come ad esempio la passione hipster per l'antiquariato senza la comprensione dell'oggetto."

Partendo da questa affermazione sull'importanza dell'antiquariato, la voce fuori campo dà il via a un quarto d'ora introduttivo (inchiavardato sui Prodigy, il gruppo delle tendenze giovanili per antonomasia) che mira a definire quali sono i contorni e gli stilemi caratteristici degli hipster.

"L'hipster è il bohémien contemporaneo: veste vintage, predilige uno stile gotico e post-romantico, e porta barba e tagli di una volta. […] Il passato è un feticcio in tutte le sue forme: simbolo di vecchi valori da salvare. Ha il culto della creatività, possiede la consapevolezza ecologica e opta per uno stile di vita sano." La prima persona che mi è venuta in mente dopo la ricostruzione preliminare è Piero, il mio vicino di casa: che fa il contadino, vota Lega, mangia solo barbabietole che coltiva personalmente, e mette l'ascot quando va a ballare il liscio.

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Il video, però, ci mostra una carrellata di interviste a persone che non hanno niente a che fare con Piero: un sacco di ventenni e trentenni che spiegano come il modo in cui gli uomini portavano la barba negli anni Trenta li affascini, il tutto mentre portano in spalla delle bici fisse. Vengono mostrate pagine Facebook dedicate agli hipster musulmani con ben 194 like, e un filmato sulle Olimpiadi Hipster che si svolgono a Berlino.

Uno degli intervistati è Yuri, che si definisce un "imprenditore precario", e che ci viene presentato mentre si fa fare la barba per prepararsi al lancio della sua startup. Yuri fa delle riflessioni sul precariato e sul futuro economico dell'Italia, a testimonianza del fatto che il fenomeno hipster non permea solo le attitudini tricologiche e di locomozione, ma anche i sistemi d'impresa.

Io invece mi perdo a immaginare il momento in cui la redazione del TG1 ha contattato Yuri per proporgli l'intervista: "Ciao Yuri. Quando vai a farti la barba diccelo, così il documentario viene una bomba."

L'amalgama di opinioni coinvolge frequentatori di mercatini affascinati dagli utensili da cucina a forma di frutta, ragazze che spiegano come la passione per gli anni Venti e le biciclette a scatto fisso rappresentino un rifiuto della comodità moderna, esperti che riflettono sulla figura straniante del cappello nella contemporaneità dei giovani, e avventori random che danno decisivi giudizi esterni del tipo "Se hipster fosse un complimento, mi piacerebbe."

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Sono un po' confuso dopo questo iniziale giro di schiaffi introduttivo: più che un filone di pensiero, stando alle testimonianze raccolte, sembra più che dietro alla tribù hipster si celi un atavico bisogno di disoccupazione (credo che da quello nasca la passione per gli anni Venti, o almeno è quello che mi è parso di capire).

La voce fuoricampo della giornalista, però, provvede a riportare il sistema ideologico hipster su un binario ben definito—e anche leggermente angosciante—"il senso di fine della storia."

A questo punto mi aspetto un'altra storia umana hipster in grado di ancorare questa affermazione a qualcosa di concreto. Arriva infatti il momento di Federico, uno studente ventenne che elabora il suo essere hipster attraverso le seguenti affermazioni: 1- Si sente diverso quando indossa i felponi del padre; 2- Nella vita vuole costruire robot; 3- Per costruirli vuole andare in Giappone perché in Italia non c'è futuro per i robot; 4- Sperava in un colpo d'ala dato dall'Expo al futuro italiano.

Non capisco quali siano le correlazioni fra le affermazioni di Federico e il "senso di fine della storia", al di là dei riferimenti ad Expo, ma il documentario segue un espediente narrativo basato sull'aut-aut e connette le parole del giovane inframmezzandole con dei filmati girati all'oratorio di Don William a Garbagnate; dove adolescenti velatamente disagiati—che non sono hipster—contrappongono la loro visione della vita a quella di Federico. Capisco perciò che Federico è hipster perché si fa un sacco di seghe mentali sui robot e sui felponi, che all'oratorio di Garbagnate non si fa nessuno.

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All'oratorio di Don Willy si gioca a calcio, non con i robot.

Dopo questa epifania, il video prosegue con una sezione immersiva sulla vita dei writer a Milano che non ho capito cosa c'entrasse con gli hipster, se non nei 30 secondi in cui un graffitaro ha dichiarato che "gli hipster non sono writer."

Dopo questo intermezzo, però, il documentario riprende tono, e ci presenta un altro cariotipo hipster: Alain.

Alain è uno youtuber disoccupato che abita con il suo fidanzato in casa della nonna. Ci mostra il suo guardaroba, con particolare attenzione per le camicie rockabilly, e il suo canale YouTube in cui carica tutorial sulla cura della barba e parodie di altri youtuber.

Non faccio in tempo a elaborare che la scena si sposta a Bologna, introdotta—in base a un inserto viaggi del Sunday Times uscito nel 2011—come la "la città degli hipster"; e riparte un'altra serie di interviste a rappresentanti della categoria.

Quasi tutti quelli che parlano rappresentano lo stereotipo del compagno di classe di quinta ginnasio che stava simpatico alla professoressa di lettere e a cui pisciavi nelle scarpe durante l'ora di educazione fisica. Hanno un'attitudine quasi martire ed equilibrista nel districarsi in trattazioni rococò che vanno da "non puoi vivere a Bologna senza interessarti di politica" a "io mi giro tutte le gallerie di Berlino per vedere un po' com'è il giro, che è incredibile. Adesso dicono che è un po' la capitale della cultura, ma secondo me è tutto un fake."

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I minuti successivi si concentrano sulle osterie e le serate frequentate dagli hipster a Bologna. Come la serata "da Patrizia", in cui viene inquadrato un mio ex professore di Psicologia del Lavoro che fino a qui sembra comunque il più hipster di tutti. Da questo estratto si riescono a capire anche le dinamiche tribali del mondo hipster e dei temi che lo sorreggono, stigmatizzati da un'analisi dettagliata dello stile di Cuperlo.

Siamo ormai a due terzi del filmato, e ci spostiamo di nuovo. Questa volta a Roma, quartiere Monti/Pigneto: "il luogo in cui conta essere ed esserci." Roma è la vetrina in cui vengono analizzati i lati profondi e reconditi dell'essere hipster: "l'identità è la chiave per capire il fenomeno hipster." In realtà, grazie alla testimonianza di un ragazzo che in un film ha interpretato la parte dell'"amico della protagonista che piace alle donne perché è romantico e finto-trasandato," capiamo che l'identità hipster è basata sulla negazione: "Se ti dicono che sei hipster tu dovresti rispondere che non è vero, al che… vorrebbe dire che sei hipster."

Insomma, se individuiamo la nostra identità in base all'esclusione siamo hipster. È bellissimo: un sottogruppo che ti ingloba nel momento in cui decidi di non farne parte.

"La nuova tendenza," continua, "sarà quella di essere normali. Ma poi cos'è normale? Vestirsi in tinta unita e indossare le Nike? Spero solo che sia un complotto governativo per spaventare le masse." Da qui deduciamo che i normcore sono un prodotto della Trilaterale e del Bilderberg.

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Parte "Ritornerai" di Battiato, e l'amico fintotrasandato che piace alle donne termina questa analisi antropologica con una riflessione sul futuro: "Ho il timore di svegliarmi a 40 anni e chiedermi cosa abbia fatto negli ultimi vent'anni. Di essermi solo mosso fra i locali. Ma forse… è proprio questa consapevolezza che potrà salvarmi." O forse un lavoro, penso io mentre il video si conclude.

Alla fine, anche se mi ero preparato alla visione dello speciale del TG1 con il sopracciglio alzato fissato con lo scotch, devo dire che il documentario mi ha insegnato molte cose nuove sugli hipster—storia della barba e della bicicletta a parte.

Fino a domenica sera credevo che un sacco di miei amici con la barba lunga e il risvolto ai pantaloni rientrassero almeno nei parametri base del termine "hipster": ma hanno un reddito, poco interesse per le amenità, e generalmente riescono a esprimere delle idee in modo lineare. Hanno studiato a Bologna, ma si sono limitati a fumarsi dei carciofi di sputnik e a scopare. Quindi probabilmente non lo sono.

Per essere hipster avrebbero dovuto almeno possedere una schiumarola a forma di frutto della passione, comprata con i soldi della nonna, da innestare sul prototipo di un robot in grado di definire cosa sia l'antropologia poetica.

Comunque sia, poco male: dopo questo prontuario del TG1, siamo ufficialmente certi di essere usciti da quella fase storica in cui aveva senso parlare di cosa fosse hipster.

Segui Niccolò su Twitter: @NCarradori