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A Milano le librerie indipendenti esistono, i centri sociali no

Abbiamo cercato di capire qual è realmente la situazione delle librerie indipendenti di Milano, quali chiudono, quali aprono e cosa fanno le istituzioni. Spoiler: non va così male come forse pensate.

La libreria Gogol. Foto via Facebook.

Se dovessi descrivere il mio processo di ambientamento a Milano direi che è passato attraverso il riconoscere alcuni luoghi ed esercizi commerciali come "di fiducia", in particolare l'ortofrutta di Porta Lodovica, il sarto che mi cambia le cerniere dello stesso paio di jeans da sei anni e la Libreria del Corso in San Gottardo. A un certo punto di fine estate, poi, ho trovato la libreria del Corso chiusa e sostituita da uno studio dentistico in franchising.

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Dato che di sorprese simili avevo già letto in numerose missive infuocate al Corriere Milano—e che non ho ancora intenzione di convertirmi alla Feltrinelli in Piazza Duomo—ho pensato fosse giunto il momento di capire se davvero la situazione delle librerie di quartiere sia tragica come il deserto della mia zona (5) farebbe presupporre. Per scoprirlo ho interpellato tre attori della scena libraria underground milanese, e quella che segue è una specie di chiacchierata che senza offesa per nessuno e lasciando a chi legge la sentenza su chi è chi nel Far West del marketing librario chiamerò Il buono, il brutto e il cattivo.

Anzitutto, mi spiega il presidente di Librerie Indipendenti Milano [un network che unisce 28 librerie di vario tipo] dott. Bernardini, "La realtà milanese va meglio di altre come Torino o Genova, per non parlare del sud," ma riflette una crisi che non riguarda tanto le librerie indipendenti quanto tutto il settore. Secondo l'ISTAT le librerie indipendenti stanno anzi reagendo meglio delle librerie di catena alla picchiata della readership, anche se non avendo il foraggiamento continuo dei grandi alle spalle ogni piccola flessione del mercato può essere fatale.

"Molti dei problemi delle librerie indipendenti sono basati su scelte sciagurate dell'industria, per esempio l'eccesso di produzione," mi dice Bernardini. "L'editore è il primo concorrente di se stesso perché facendo uscire moltissimi titoli impedisce che i piccoli librai possano tenerli in esposizione a lungo." L'altro problema, secondo Bernardini, "sono le politiche commerciali aggressive: ma se un grande editore può permettersi di far uscire un Ken Follet a prezzo di copertina 25 euro con uno sconto immediato del 25 percento, la piccola libreria non può." Per Bernardini il problema però è più profondo, è culturale: "la pretesa di spendere meno per un prodotto così è sbagliata: bisogna accettare che musica, cinema, teatro, la letteratura non sono merci come le altre e non possono sottostare ai modelli di consumo normali."

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Che il libro non sia una merce come le altre è un'affermazione che nel 2016, dopo che Baudelaire si era accorto del contrario circa 150 anni fa, mi lascia un po' perplessa. Se comunque vogliamo dire che il libro non sia una merce come le altre, è inutile girarci intorno: vendere libri è un esercizio commerciale come vendere ravanelli, e le leggi del mercato vogliono che a definirne la morte, prima ancora degli affitti alti e delle condizioni dittatoriali della distribuzione, sia l'incapacità di rispondere alla domanda del proprio target market—o la sostituzione di un target market con un altro. Perciò, ecco la prima cosa che ho scoperto: le librerie di quartiere tradizionali sono effettivamente sull'orlo del baratro perché mirano a soddisfare i bisogni di chi non potrà averne ancora a lungo. Secondo il presidente di LIM, infatti, "i lettori forti stanno morendo." Ma il semplice lutto per la fine di una generazione di acquirenti non ha mai portato il business molto lontano.

È così che ho deciso di contattare l'assessore alla cultura Filippo Del Corno, il quale ha confermato che "[la libreria di quartiere] di sicuro è scomparsa, ma è un portato della storia: era un luogo meraviglioso, ma oggi non più sostenibile." Tuttavia, ha aggiunto l'assessore, "Nascono altri modelli in cui la libreria è un centro vitale, un luogo di socializzazione che non si esaurisce nella vendita del libro ma si attrezza di caffetterie, spazi coworking ed eventi, soprattutto in quartieri in cui altri elementi culturali non sono presenti, come nel caso di Verso e Open."

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Questi nuovi esercizi, ovviamente, non nascono su iniziativa comunale ma sull'osservazione privata di un modello che all'estero funziona molto bene: quello delle librerie come centro di aggregazione. "Anche se faccio, e forse sono, l'anarchico arrabbiato che non si sente rappresentato democraticamente, in questi ultimi tre anni stiamo facendo progressi," mi ha detto Danilo, co-fondatore di Gogol & Company, libreria-caffetteria-spazio espositivo-coworking in Giambellino. "Forse non c'è un vero tessuto culturale ma ci sono numerose attività—una sorta di TAZ—che funzionano molto bene e, al di là dell'aiuto delle istituzioni e dei network, creano alleanze e scoprono affinità. Il post-capitalismo è anche questo: alternative sotterranee che si muovono da sole."

È infatti anche per il ritirarsi delle istituzioni che i modelli di librerie si stanno modificando e stanno diventando sempre più simili a oratori laici o centri civici, mantenendo però elementi di continuità con la tradizione "locale" della libreria di quartiere. Se l'Assessore porta a esempio Il mio libro in zona Piazzale Lodi, è da Gogol & Company che mi sono resa conto della commistione tra territorio ed elementi ripescati da culture che riescono a essere contemporaneamente più affariste e più welfare-savvy della nostra.

"L'idea, quando abbiamo aperto nel 2010, era di creare un presidio sociale che invitasse alla permanenza: lo spazio per studiare, la caffetteria, il wi-fi gratuito, le persone sanno che possono fermarsi qui ore e ore," mi racconta Danilo. Il bisogno a cui le nuove librerie milanesi cercano di rispondere è quello non solo di fornire merce, ma anche di fornire spazi. "Tutti noi che lavoriamo qui abbiamo 30-35 anni e abbiamo vissuto il momento di caduta del concetto di terza piazza, il centro sociale milanese che era il nostro punto di riferimento diventava sempre meno accogliente e meno propositivo, il pub nella nostra cultura non esiste. Non sapevi nemmeno dove andare quando bigiavi."

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Il fatto che abbiano centrato la sfera dei bisogni è evidente dagli introiti. "Dal 2010 in poi siamo cresciuti del 10 percento ogni anno e del 19 percento dal 2015 al 2016," mi spiega Danilo. "Quindi sì, non è secondario il fatto che siamo un'impresa, anche se la nostra organizzazione è pienamente orizzontale. E devo dire che strumenti altrimenti detestabili come il Jobs Act ci hanno permesso di assumere nove persone a tempo indeterminato e che usufruiamo dei bandi istituzionali per migliorare la nostra attività." Che però anzitutto va avanti usando strumenti che le librerie di vecchia generazione non considerano neanche: "Bypassiamo tutti i distributori e ci relazioniamo con chi crea il libro. Questo comporta due grandi possibilità: la prima è un ritorno economico addirittura del 10-15 percento in più. Grazie al rapporto diretto io pago quando vendo, quindi la mia esposizione iniziale è zero. La seconda è discutere l'offerta direttamente con le case editrici, in modo da offrire ai nostri clienti un catalogo approfondito e ragionato, con gli strumenti di consulenza che solo il libraio può dare."

La libreria milanese Open, che non sembra in procinto di chiudere. Foto via Facebook.

Questo tipo di libreria, se si rivelerà anche un modello positivo sul lungo termine, apre uno scenario completamente diverso quanto ai meccanismi editoriali, come mi informano da Gogol. "C'è una grande visione comune tra noi, editori, uffici stampa, e c'è una netta divisione con la preistoria, esseri umani marcescenti che producono merce marcescente—e che sai poi dove va? Nella grande distribuzione o su Amazon. Quindi dove sta la diatriba tra noi e voi?"

La differenza tra le due visioni è quella che sussiste tra cercare di mettere le pezze dove si può a un sistema destinato a cadere sotto i colpi non tanto di internet e della grande distribuzione ma della "marcescenza" delle proprie gambe, e portare avanti un nuovo sistema basato sulla coesistenza di grande distribuzione, internet e librerie di quartiere.

Insomma, quello che sta succedendo a Milano da anni è che la signora che manda la lettera al giornale perché le ha chiuso la libreria sotto casa, quella sciura che avrei potuto essere io, non si rende conto che siamo davanti non a una crisi contingente ma a una vera e propria apocalisse e ristrutturazione. È la stessa cosa che sta succedendo ai cinema: la reazione ai multisala non è continuare con una sala sola e programmazione d'essay, ma diventare spazi culturali come sta facendo l'Anteo. A differenza dell'Anteo, che ha mantenuto lo stesso nome e quindi sappiamo che è il cinema Anteo, queste librerie nuove sono tante ma è come se non sapessimo davvero riconoscerle.

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