Siamo andati a vedere cosa sta succedendo con studenti, università e collettivi a Bologna

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Siamo andati a vedere cosa sta succedendo con studenti, università e collettivi a Bologna

Sono andato a Bologna dopo le polemiche e gli scontri per la biblioteca del 36.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Sulla facciata destra di palazzo Paleotti—nel cuore della zona universitaria di Bologna—da un po' di tempo a questa parte c'è un grosso murales che ritrae un gruppo di poliziotti in assetto antisommossa, con a fianco una scritta ("storia partigiana") e una data: 27/05/2013. Il riferimento è preciso, e celebra la ritirata delle forze dell'ordine da piazza Verdi avvenuta al termine di scontri con migliaia di studenti.

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Qualche giorno fa, raccogliendo l'appello del direttore del Resto del Carlino, politici e professori ne hanno chiesto la cancellazione. "L'importante è che si rimarchi il fatto," ha detto Massimo Bugani del Movimento 5 Stelle, "che quella piazza sia un luogo di cultura e aggregazione; è un luogo che deve unire, non dividere."

Ma in realtà—come ha notato il docente Alessandro Tolomelli, autore di Memorie di uno spazio pubblico—"Piazza Verdi è storicamente il luogo di incontro, e anche di scontro, tra la città e l'università." E nel corso della scorsa settimana, lo scontro è arrivato a livelli che non si vedevano da parecchi anni.

Com'è ormai noto, il pomeriggio del 9 febbraio le forze dell'ordine hanno fatto irruzione nel civico 36—la biblioteca di discipline umanistiche—per porre termine all'autogestione lanciata qualche ora prima da collettivi universitari (il CUA, Collettivo Universitario Autonomo, e Lubo) e dagli studenti. Senza annunciare in alcun modo il loro arrivo, gli agenti hanno caricato all'ingresso e poi sono entrati nell'aula studio. Qui sono partite altre manganellate, e nella concitazione alcuni ragazzi hanno lanciato sedie e altri oggetti prima di scappare.

Gli scontri sono poi proseguiti fino a sera in piazza Scaravilli, in via delle Belle Arti e infine a piazza Verdi: qui i manifestanti hanno creato delle barricate improvvisate con campane del vetro e tavolini, che la polizia ha spazzato via con ripetute cariche.

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Il 10 febbraio un nuovo corteo, composto da centinaia di persone, ha attraversato la zona universitaria. Sempre a piazza Verdi si è verificato un tentativo di sfondare il cordone della polizia, che ha reagito caricando i manifestanti. Al termine degli scontri sono state fermate tre persone; a due, un ragazzo e una ragazza, è stata poi applicata la misura degli arresti domiciliari.

Un momento degli scontri in via Zamboni e piazza Verdi del 9 febbraio 2017.

L'oggetto originario del contendere è la decisione—motivata da ragioni di sicurezza, su cui tornerò dopo—di installare i famigerati "tornelli" per regolamentare l'ingresso al 36, anche in vista dell'apertura fino alle 24.

L'università ha montato il dispositivo (delle porta di vetro che si aprono strisciando il badge universitario) tra la fine di dicembre e l'inizio di gennaio. Fin da subito collettivi e studenti hanno espresso la loro contrarietà in vari modi: assemblee, raccolte firme e atti di "boicottaggio"—ossia l'apertura delle porte d'emergenza. Per queste azioni, venti persone sono state denunciate per vari reati.

L'8 febbraio, al termine di un'altra assemblea, un gruppo di studenti e attivisti con le maschere di Guy Fawkes hanno svitato una delle porte a vetri, per poi lasciarla nell'atrio del Rettorato. Un simile gesto di sfida non deve essere andato giù alle istituzioni universitarie, che il giorno seguente hanno chiuso la biblioteca e infine autorizzato l'ingresso delle celere. Dopo l'accaduto, in molti si sono espressi sulla questione, spessoinsistendo sulla storia complicata del 36 e le apparenti divisioni tra studenti stessi e collettivi.

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Questi, in estrema sintesi, sono i fatti. Per quanto riguarda il come si sia arrivati a questo punto, è tutto molto meno lineare. Ho così deciso di farmi un giro nella zona universitaria per provare a capirci qualcosa in più.

Nel pomeriggio del 14 febbraio, l'atmosfera non è troppo diversa da quando la frequentavo da studente di giurisprudenza: i tavolini fuori dalle Scuderie e dal Piccolo sono gremiti; dentro i bar ci sono studenti che leggono libri di testo o scrivono sui laptop; e tutto intorno c'è il solito via-vai di persone che entra o esce dalle varie facoltà. All'altezza del civico 38 di via Zamboni—sede della facoltà di lettere e filosofia—è fissato uno striscione in cui c'è scritto "36 LIBERO," e sotto la comunicazione che alle 19 ci sarà l'assemblea generale per discutere di quello che è successo negli ultimi giorni.

Di fianco c'è appunto la biblioteca del 36, ancora chiusa dallo scorso giovedì. Attaccati al portone ci sono diversi fogli, tra cui uno firmato da "studentesse e studenti del 36." Oltre a criticare le autorità cittadine e le cariche della polizia fuori e dentro la biblioteca, nel testo si parla di "tentativi falliti di dialogo con l'istituzione universitaria"—uno dei temi centrali dell'intera vicenda.

Via Zamboni, pomeriggio del 14 febbraio 2017.

Stando a quello che mi dice Mario, studente che fa parte del collettivo Lubo con cui parlo in via Zamboni, l'amministrazione universitaria non avrebbe mai veramente coinvolto gli studenti nella decisione di installare i "tornelli." Al tavolo di trattativa con la prorettrice e il responsabile delle biblioteche dell'ateneo, continua lo studente, "ci siamo resi conto di come non ci fosse assolutamente la volontà di dialogo da parte dall'università."

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Dall'altro lato ci sono le dichiarazioni del prorettore vicario Mirko Degli Esposti—"smettiamo di chiamare studenti persone che non lo sono e forse non lo sono mai state"—e la testimonianza di Mirella Mazzucchi, coordinatrice gestionale della Biblioteca. "Già in passato avevamo avuto problemi e occupazioni da parte loro, con i quali, vi assicuro, abbiamo provato ma non è possibile né il dialogo né la mediazione," ha scritto. "Sono prepotenti, violenti e squadristi. Per loro questo è un centro sociale, uno spazio di aggregazione, non una Biblioteca."

La stessa, e qui arrivo ad un altro punto molto dibattuto, si è soffermata sui motivi che hanno portato l'università a optare per i "tornelli" al 36. "Da troppo tempo," si legge, "i bagni erano luogo di spaccio" e nella biblioteca si erano verificati "furti, rapine, episodi spiacevoli in sala di lettura per alcune ragazze, persone che entravano sistematicamente con pitbull, minacce al personale da delinquenti comuni, etc."

Un quadro pressoché identico l'ha fornito Emilia Garuti—responsabile per la legalità del Partito Democratico regionale, nonché studentessa che ha lavorato quattro mesi al 36—in un lungo post su Facebook che se le prendeva anche con i collettivi, che a loro volta hanno risposto con un attacco ad personam decisamente sgradevole.

Di questo riquadro che sembra essere totalmente fuori controllo ne parlo con Luca, uno studente del CUA che incontro in via Zamboni. Pur non negando che certi episodi siano avvenuti—il gravissimo caso della molestia sessuale da parte di uno studente (dotato quindi di badge) è stato all'epoca denunciato anche dai collettivi—Luca sostiene che certi fatti siano stati utilizzati strumentalmente per pompare la "retorica della sicurezza" e "rompere situazioni di aggregazione che sono importanti e salvifiche per la città di Bologna."

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Per Luca, infatti, il 36 "rappresenta un esempio alternativo. Dentro, anche per la presenza del cortile, dopo aver studiato ci si incontra e discute, e non si 'consumano' semplicemente i saperi. L'università invece vuole distruggere questa cosa: quello che aggrediscono al 36 è un modo di stare insieme, un modo di pensare le relazioni sociali all'interno dell'università."

È proprio da questa concezione del 36 che deriva la contrarietà ai "tornelli," percepiti come una barriera fisica e simbolica.

Marta, una studentessa di lingue che frequenta saltuariamente il 36 e non fa parte di alcun collettivo, mi dice che "questa biblioteca ha un preciso contesto storico e culturale, e non possiamo far finta che non esista. È uno spazio sociale, uno spazio di aggregazione oltre ad essere una mera biblioteca; perciò, a me piace l'idea che sia un luogo di confronto dove anche non-studenti possano entrare."

L'interno del 36 dopo l'irruzione della polizia.

Con i "tornelli," continua, molto probabilmente questa caratteristica sarebbe venuta meno. Quello che non la convince, tuttavia, è come abbiano agito i collettivi: "Non sono stata d'accordo con l'azione di togliere i tornelli, hanno agito in modo poco democratico. Si poteva fare un mese di prova e vedere cosa sarebbe cambiato concretamente. Comunque se qualcuno dell'università mi avesse chiesto se volessi o meno i tornelli avrei sicuramente risposto di no."

Naturalmente, per un motivo o per l'altro, un numero rilevante di studenti non si è trovato d'accordo con questa protesta. C'è chi ha firmato petizioni per dissociarsi, chi non vedeva nulla di male nei "tornelli," e chi (come Marta) ha contestato le modalità di CUA e Lubo. "Non sono per niente d'accordo con quello che state facendo," scrive una studentessa su Facebook. "A mio avviso la vostra non è lotta, è una corrida tra voi e i poliziotti e voi siete il torero. Perché vi piace provocare il toro, vi piace lo scontro."

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Tuttavia, molti altri studenti hanno sostenuto e continuano a sostenere la protesta—pur magari non condividendola in tutto e per tutto. Perché una cosa è certa: se a partecipare ci fossero stati unicamente i collettivi, che possono contare su non più di 50 persone, non si sarebbe mosso nulla.

"Se fossimo stati solo noi," spiega Mario di Lubo, "non avremmo avuto la capacità di portare migliaia di persone in piazza per tre giorni di seguito, non avremmo avuto la capacità di riprenderci il 36—soprattutto in una fase in cui le strutture di movimento sono in crisi. C'è voglia di partecipare, e io stesso un po' me ne stupisco."

Manifestazione dopo lo sgombero del 36, 10 febbraio 2016.

Nel frattempo, a riprova dell'interesse suscitato da quello che è successo al 36, la facoltà di lettere e filosofia inizia a riempirsi; e visto che l'aula 3 non riesce a contenere tutti quelli che sono venuti, si apre un'altra aula (la 2) in videoconferenza. Anche il corridoio del primo piano e le scale esterne sono gremite.

L'assemblea vera e propria comincia poco dopo le sette, e a occhio ci saranno più di cinquecento persone. I vari interventi vanno a toccare sia gli aspetti legati ai "tornelli," che tutto quello che sta attorno ad essi. "Cosa rappresentano i tornelli? Sono una barriera, una frontiera," dice uno studente. "E oggi non possiamo accettare nuove frontiere e nuove barriere negli spazi che sono sempre stati liberi." Un altro se la prende con il Rettore e l'università, che non può "trattare gli studenti come delle pezze da piedi."

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Qualcuno racconta di essere stato dentro al 36 mentre entrava la polizia e di aver "avuto paura"; altri, pur dicendo che "l'abuso di potere è una cosa schifosa," sollevano perplessità sui metodi dei collettivi; un altro studente ancora dice che "il 36 è un posto particolare e noi ce lo rivendichiamo."

Questa peculiarità la ribadisce anche Valerio, che frequenta da anni la biblioteca e non è legato ai collettivi. "Per chi l'ha vissuto e si è formato lì dentro, con il 36 c'è un rapporto biunivoco," mi spiega al margine dell'assemblea. "L'aula studio ha dato a noi, e noi abbiamo dato all'aula studio. E quindi, come dire, è giusto che non sia una semplice e asettica aula studio come tante altre—dove si va solo ed esclusivamente per studiare."

L'assemblea nell'aula 3 della facoltà di lettere e filosofia.

Per il resto, continua Valerio, il 36 "subisce alcuni fenomeni che investono la zona universitaria," ma sono problemi "di cui non si deve fare carico il corpo studentesco, ma il sindaco e l'amministrazione comunale; anzi, gli studenti del 36 hanno pagato le conseguenze del consumo di sostanze."

Dopo due ore e mezza e una trentina di interventi, l'assemblea si chiude lanciando un'altra mobilitazione per il 16 febbraio. Qualche centinaio di studenti—e anche di attivisti dei centri sociali lì presenti—decide di muoversi verso la Cirenaica, il quartiere di Bologna dove abita la ragazza che è agli arresti domiciliari.

Partendo da via Zamboni, il corteo intona diversi cori—tra cui "eroina, fascisti e polizia / uno per uno vi spazzeremo via," "Ubertini fuori da Bologna," "Liberi tutti / libere subito," e così via. Nonostante l'allerta dei quotidiani per l'ipotetico "martedì caldo," la manifestazione arriva sotto casa dell'attivista senza alcun problema e torna nella zona universitaria altrettanto pacificamente.

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All'altezza dei civici 38 e 36, i manifestanti chiudono il corteo urlando più e più volte "che cazzo / ci fanno / gli sbirri in biblioteca?," e poi entrano a piazza Verdi, dove si tiene una specie di comizio finale.

A parte la formula spiccia, sono convinto che quell'ultima domanda sia il fulcro dell'intera faccenda.

Alberto Tarozzi—ex docente dell'Unibo dal 1970 al 2015, nonché uno dei pochi professori ad aver preso posizione in merito—ha detto che in 40 anni "la polizia mai è intervenuta all'interno dei locali dell'università militarmente, nemmeno quando qualcuno occupava, nemmeno quando nei dintorni c'erano episodi di lotta armata." Per l'ex professore, la vera questione è "di intelligenza politica e di senso delle istituzioni che questa volta è mancato, come mai era avvenuto prima."

In un'intervista a Radio24, il sindaco Virginio Merola ha invece parlato di una decisione inevitabile a fronte della prevaricazione di "delinquenti" che "pensano di fare politica dicendo 'questo territorio lo controllo io'." Qualche giorno prima, lo stesso si era riferito al 1977 usando una famosa frase di Karl Marx: "La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa."

Probabilmente, però, i paragoni storici per inquadrare meglio il contesto sono molto meno risalenti nel tempo. Negli anni Novanta, ad esempio, il 36 è stato occupato ininterrottamente per ben cinque anni—dal 1991 al 1996. A Radio Città del Capo, un occupante di allora ha ricordato che un'occupazione così prolungata ha potuto funzionare perché "in tutta via Zamboni e piazza Verdi c'era un'anima molto viva: c'era il 25 in autogestione, c'era il Piccolo, c'era il 33 sempre in mobilità, c'era l'aula C [ sgomberata due anni fa] in Strada Maggiore."

Una studentessa durante la manifestazione del 10 febbraio 2017.

Ma soprattutto, c'erano sia un "corpo sociale molto compatto" (corpo che ora non c'è più), sia una situazione politica radicalmente diversa da quella che c'è adesso. Negli ultimi anni, come avevo scritto su VICE qualche tempo fa, le autorità cittadine hanno inaugurato una lunga stagione di sgomberi che non ha ancora visto la fine. In parallelo c'è stata un'azione repressiva sempre più dura, che ha travolto tutte le realtà antagoniste.

È notizia di questi giorni, ad esempio, che la procura abbia chiesto una serie di misure cautelari nei confronti di 6-7 membri del CUA per una sfilza di reati che partono dalla resistenza a pubblico ufficiale e arrivano addirittura alla tentata estorsione (per le "autoriduzioni" in mensa dei mesi scorsi) e all'associazione per delinquere.

E per restare sui "tornelli," infine, c'è un precedente specifico che in pochi hanno ricordato. Nel 2006, l'Ateneo montò i tornelli al 36 con l'intenzione di limitare l'accesso agli iscritti delle facoltà umanistiche. Collettivi e studenti dell'epoca protestarono a più riprese, e alla fine bloccarono in qualche modo il meccanismo. All'epoca, tuttavia, nessuno si sognò di mandare la polizia dentro la biblioteca.

Nel 2017, invece, bisogna prendere atto di una cosa: la città, l'università e probabilmente anche gli studenti sono cambiati così tanto che ci si può permettere di arrivare a questo punto.

Tutte le foto di Michele Lapini.

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