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Il Giappone non esiste

Intervista all'autore di Sparire, un libro che parla di Giappone, di gente che scompare, e anche di altre cose.

Foto per gentile concessione di Fabio Viola.

Sparire parla di un ragazzo romano borghese di nome Ennio che va in Giappone per cercare la sua ex-ragazza di nome Elisa che non gli dà notizie da 15 giorni. In Giappone inizia a lavorare dove lavorava Elisa e frequenta gli amici di Elisa. C'è un grande senso di minaccia, di cospirazione che gira intorno a Elisa, ma che al tempo stesso è più grande di Elisa (e di Ennio). E questo è tutto quello che posso dirvi senza rovinare la trama del libro o darne interpretazioni soggettive.

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Ho conosciuto Fabio Viola all'epoca del suo primo romanzo: Gli Intervistatori. Dato che siamo amici non vi serve sapere se Sparire mi sia piaciuto o meno; ho cercato di fargli le domande migliori che potevo, quelle cioè che ha suscitato in me la lettura del suo libro (al tempo stesso, se non fossimo stati amici, dubito che avremmo fatto un'intervista via chat lunga tre ore—tre ore davvero). (Fabio ha scritto anche questo, ha pubblicato un racconto qui, traduce, e ha scritto anche per VICE).

VICE: Comincerei dal fatto che qualche giorno fa ti ho detto che non stavo capendo il tuo libro. E in effetti anche adesso che l'ho finito non saprei interpretare con esattezza la trama. Ma proprio mentre leggevo le ultime pagine sono stato preso da una brutta sensazione (spero ti faccia piacere) come di angoscia. Al tempo stesso stavo leggendo delle parti che, credo, erano apertamente ironiche.
Fabio Viola: Se leggo un romanzo pensando a chissà come andrà a finire finisco per sentirmici intrappolato dentro. Anzi, la trappola non rende l'idea, forse è più il fastidio di seguire un percorso prestabilito, si crea un'attesa che porta a delle aspettative sulla conclusione del percorso. Per me il percorso è già di per sé l'esperienza del libro, l'inizio e la fine sono artifici. Sembra un discorso new age ma non lo è, anzi è molto laico. Questo per dire che la trama è appunto la trama, non è la scusa per fare bu! al lettore sul finale.  
L'ironia in realtà non c'è, dove l'hai vista?

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La non-linearità della trama però è diversa dall'interpretazione finale, no? Per questo dico ironia, perché mi sembra quello il tema centrale. Mi sbaglio?
Se intendi l'etimologia della parola "ironia" (cioè finzione) allora sì, il romanzo è una lunga storia che il protagonista racconta a se stesso, volendo, su numerosi piani narrativi. Ma se per ironia intendi "dire il contrario di ciò che si pensa con fini semi-umoristici", allora direi di no. Come dicevi tu il romanzo sprigiona una certa dose di angoscia e inquietudine—che peraltro è ciò che mi aspetto a mia volta dalla letteratura—e se a tratti può far sorridere è perché c'è un elemento grottesco. Ironico non so, potrei risponderti meglio dopo un ciclo di psicoterapia.

Esatto. A mio avviso l'angoscia deriva dal fatto che le storie raccontate su più livelli (compreso quello del protagonista-narratore) si equivalgono. Non lo so, magari è una lettura mia, ma se dovessi riassumere direi che l'angoscia deriva dall'impossibilità di raccontare/credere/provare empatia per nessuna delle storie su nessun livello.
Be', questo mi dispiace. Il romanzo è sull'assenza di desideri, o meglio sul dare il nome sbagliato ai propri desideri. Non amore ma gelosia. Non gelosia ma possesso. Non possesso ma status quo. Il tutto ambientato nel Paese in cui, per eccellenza, ciò che sei ti si crea davanti agli occhi, ti si ripropone di continuo come in uno specchio non deformante ma amplificante. Il protagonista non ha alcun interesse per il Giappone, non sa nemmeno se sa amare qualcosa che non sia un ricordo, e il Paese ospite gli si manifesta davanti come un luogo sinistro, confuso, anche pericoloso. Il Giappone del romanzo è il protagonista (mi piace l'ambiguità di questa frase).

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Aspetta, forse mi sono espresso male. Non sto dicendo che "nel libro" non ci sia empatia, anzi nei miei appunti a un certo punto ho scritto UNA STRANA FORMA DI CALORE (e affianco c'è una freccia con l'aggiunta "parlate della vostra amicizia" ma non credo che lo faremo). Comunque ho capito come dire la cosa che volevo dire sull'ironia. Prima però mi spiegheresti che rapporto c'è tra il Giappone del romanzo e quello in cui tu vuoi tornare a vivere?
Non ho scritto un'elegia del Giappone. Se l'avessi fatto mi sarei unito al coro di voci curiose ed estasiate dal "Paese più strano del mondo", a quel filone esotista che vede nel ponticello di legno circondato dai ciliegi la suprema espressione di grazia ed eleganza (parola, quest'ultima, che detesto). Non volevo nulla che Syusy Blady e Patrizio Roversi potessero trovare "buffo", o "interessante". Né ho scelto la via della critica postmodernista à la Coupland, per dire. Semmai mi sono rifatto alle visioni di Abe Kōbō, al Giappone "dell'altro lato" di Kawabata. Come dicevo il Giappone del romanzo è un riflesso del protagonista, è l'esperienza che lui ne fa; coi suoi presupposti, non con i miei. Però è vero che, a sprazzi, soprattutto nelle parti per così dire più "oniriche" del romanzo, un certo Giappone esce fuori, qualcosa di più riconoscibile. Ma relegarlo nel—sempre per così dire—"sogno" è stata una scelta più onesta, secondo me.

A me sono piaciute molto le descrizioni dei locali. Il White Chair esiste davvero [un locale con una giostra in stile tazze delle Disney, ma con sedili e schermi su cui guardare altra gente live o registrata mentre sta su quella stessa giostra]?
È possibile che esista, perché no. Ma se esistesse non riuscirei mai a trovarlo.

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Nell'intervista a Rai Letteratura hai usato la parola "lynchiano". David Foster Wallace nel suo saggio su Strade Perdute (David Lynch non perde la testa) dà la seguente definizione: "si riferisce a un particolare tipo di ironia dove il molto macabro e il molto banale si combinano in maniera tale da rivelare la costante presenza del primo all'interno del secondo." Che ne pensi?
Quel pezzo l'ho letto e riletto, divertendomi molto e detestandolo moltissimo. Wallace faceva spesso quel giochino dell'intelligenza a ogni costo, quella che ridimensiona e sminuisce tutto e alla fine disinnesca qualunque visione della cosa presa in esame—che poi è la forma di intelligenza più in voga al momento, perché permette di prendere le distanze da tutto, anche da se stessi.
Secondo me l'inconscio (e qui ti rispondo alla cosa del "lynchiano") è tanto più letterario quanto più non viene tradotto razionalmente, o quanto più spaventa, respinge, affascina. Quando dico "lynchiano" intendo quasi pre-razionale, non rassicurante. È come dire, "Ho visto questa cosa che mi è piaciuta perché mi ha fatto paura. Eccola." Davvero non serve più di questo, non è più di così. È una cosa che trovo disarmante nella sua sincerità, e la sincerità ha il diritto di essere trattata come tale.

Ok. Capisco quando dici che una definizione di quel tipo disinnesca il senso stesso della cosa che definisce. Però in generale quel saggio è positivo, rispetto a Lynch. Specie quando parla del surreale "fighetto" di Tarantino come commercializzazione del surreale autentico e perturbante di Lynch.
Sinceramente non lo so, trovo già abbastanza arbitrario definire cosa sia surreale e cosa no senza che qualcuno addirittura accosti due tipi diversi di quella cosa lì.

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Mentre leggevo mi dicevo che non ero d'accordo quasi con nessuna scelta di Ennio (il protagonista). E mi chiedevo se era una cosa che fai apposta, proprio per disattendere il lettore.
Che intendi con non essere d'accordo?

Che non mi sarei comportato in quel modo al posto suo. Che non mi sarei aspettato che nessuno si comportasse in quel modo. Che non capivo qual era la sua vera motivazione.
Ah, ho capito. Qui mi chiedi di darti una risposta molto articolata e forse noiosa. Ci provo. Nei romanzi che mi piacciono riesco a immedesimarmi in tutto, anche in ciò che io, da lettore, non farei mai, o che mi sembra irrazionale, addirittura sciocco. In questo romanzo ho provato a staccare i fusibili del nesso causa-effetto, per cui molte delle cose che accadono non sono conseguenza diretta di altre cose, o lo sono a un livello impalpabile. Trovo violento ridurre le azioni umane a delle semplici reazioni, si è ingabbiati se ci si ferma a esaminare la vita e tutto il suo caos applicandoci sopra una griglia culturale, sociale o quant'altro, una specie di prontuario che si rifà alle esperienze umane date per assodate, o più "comuni".
La non immedesimazione col protagonista, su di me (sempre come lettore, e sempre parlando di romanzi che mi piacciono) è solo una delle molte possibilità, e spero che nel caso di Sparire porti a una forma di disagio rispetto allo stare al mondo del protagonista, che tutto sommato non è così alieno.

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Nel romanzo non c'è neanche un personaggio giapponese (se non sotto forma di quaderno sgrammaticato). Eppure so che hai molti amici giapponesi. Perché hai voluto tenere questa parte fuori dal romanzo?
Il Giappone come dicevo emerge nelle parti più oniriche del romanzo, durante il viaggio verso i luoghi del disastro oppure nella corrispondenza fittizia che il protagonista intrattiene con l'Italia. In quelle parti il Giappone si manifesta e compaiono anche i suoi abitanti, che nel resto del libro sono relegati a scialbe figure di contorno. Il motivo è sempre quello: al protagonista il Giappone non interessa affatto, dunque il Paese non interagisce più di tanto con lui.

Come ti ho già detto mille altre volte Gli Intervistatori mi è piaciuto moltissimo e l'ho anche consigliato a mia madre. Mi parleresti di Sparire rispetto ad esso e in generale dell'esperienza del "secondo romanzo"?
Col primo romanzo non avevo nulla da dimostrare, col secondo pur non volendo sì, e quindi ho scelto di non impazzire e non provarci nemmeno a dimostrare qualcosa.
Gli intervistatori è un romanzo che si sviluppa in orizzontale, per accumulo, come una chiazza di ammoniaca nel salotto di casa. Sparire invece va in verticale e verso il basso, nel senso che scava. Col terzo (o forse quarto), che ho in mente ma non scriverò prima di qualche anno, andrò in diagonale.
Mi sembra di aver dato una risposta sufficientemente vaga.

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Anche io pensavo che Sparire andasse verso il basso e che i diversi piani della narrazione fossero quelli di un grattacielo costruito al contrario dentro terra. Senti a proposito, nel romanzo c'è il terremoto del 2011, anche se più come proiezione psichica che come fatto sociale. Ecco, secondo te la Letteratura serve a qualcosa?
Uhm. Serve come chiave di lettura e a nient'altro. Non serve a far funzionare l'iPhone ed è inutile anche a ricordarti di mangiare. Però se sei disposto a credere per qualche ora, in stato di semi-incoscienza, che la tua vita non significa niente, e quest'idea tutto sommato ti alletta, e giustamente non ti fa paura, allora rivolgiti alla letteratura.
Il cataclisma che ha colpito il Giappone nel marzo del 2011, comunque, è stato, per chi non l'ha vissuto direttamente, un cataclisma psichico. Vedere palazzi spazzati via dal mare precipitare contro navi che schiacciavano macchine in fuga è stata un'esperienza allucinante per tutti gli abitanti del pianeta; e contemporaneamente sentir parlare di radiazioni, contaminati, aree divenute inadatte alla vita umana… come si tratta un trauma del genere? Come si mette in prospettiva una cosa del genere? Con la letteratura, è una risposta plausibile.

Visto che abbiamo parlato di Lynch mi viene da chiederti che rapporto ci può essere tra cinema e letteratura. Ad esempio il tuo stile è… accurato? (spero colga la citazione implicita al mio personaggio preferito del romanzo), pensi che si potrebbe tradurre con le immagini? Al tempo stesso secondo me da Sparire ne verrebbe fuori un gran film. Ci pensi mai o sono io a essere un megalomane (fermo restando che in caso non potrebbe essere un film italiano)?
Colgo la citazione e ti ringrazio. Sì, ci penso, ma come ci pensano tutti o quasi quelli che scrivono. È un tic culturale, più che altro: leggo o scrivo un libro e me lo immagino in video. Non ho mai scritto con quest'idea in testa, però, o avrei fatto scelte diverse. Non tanto stilistiche quanto strutturali. Di certo un film italiano no, anche e soprattutto per motivi di budget.

Ah, vorresti proprio un kolossal?
Più che un kolossal hai presente quelle produzioni ben fatte, curate, ovviamente americane, però con la patina autoriale? Una cosa tipo HBO, o Showtime, però per il cinema.

In bocca al lupo allora.

Segui Daniele e Fabio su Twitter: @DManusia e @deepbalduina