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Perché all'improvviso non ce ne frega più niente della libertà di stampa in Italia?

Come tutti gli anni, è stato pubblicato il rapporto sulla libertà di stampa nel mondo, in cui l'Italia figura in 77esima posizione. A differenza di quanto succedeva ai tempi di Berlusconi, la notizia non ha avuto molta risonanza in Italia.

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Nonostante se ne sia parlato poco, come tutti gli anni è uscito il rapporto 2016 di Reporter Senza Frontiere sulla libertà di stampa nel mondo. E come tutti gli anni, l'Italia non ci fa una grande figura: nello specifico, ci ritroviamo al 77esimo posto su 180 paesi, quattro posizioni indietro rispetto all'anno scorso.

In pratica, tra i paesi dell'Unione Europea siamo tra quelli messo peggio. A livello globale, prima di noi si collocano paesi a cui nell'immaginario collettivo non ci sentiamo di certo inferiori—e che probabilmente non sappiamo neanche dove si trovano—come Nicaragua, Lesotho, Burkina Faso e Botswana. Tra le motivazioni di tale posizione, si legge sul rapporto, c'è il fatto che in Italia "tra i 30 e i 50 giornalisti sono sotto scorta della polizia perché sono stati minacciati. Il livello di violenza contro i giornalisti (incluse le intimidazioni fisiche e verbali e le minacce di morte) è allarmante." Si fa riferimento, poi, allo scandalo di Vatilikeas che ha portato i giornalisti Emiliano Fittipaldi dell'Espresso e Gianluigi Nuzzi di Mediaset a rischiare dai quattro agli otto anni di carcere "per aver scritto un libro sulla corruzione e gli intrighi all'interno del Vaticano."

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Per processo a me e a Nuzzi la — emiliano fittipaldi (@emifittipaldi)20 aprile 2016

Curiosamente, quest'anno la classifica di RSF è stata accolta in Italia con un misto di indifferenza e scetticismo. All'indomani della pubblicazione, infatti, diversi giornali si sono interrogati sul livello di credibilità di questa classifica e hanno analizzato i modi in cui viene stilata.

Come è già stato spiegato, si tratta di un insieme di metodi qualitativi e quantitativi: il primo ottenuto grazie a un questionario in cui associazioni, gruppi, e giornalisti in tutto il mondo scelti da RSF vengono chiamati a dare a sei argomenti un punteggio da 1 a 10; il secondo tiene invece conto del numero di giornalisti uccisi, arrestati, minacciati, e licenziati nel paese di riferimento.

Si tratta quindi di un metodo complesso e nel quale la soggettività svolge un ruolo importante. Per questo, in sostanza, una classifica del genere dovrebbe essere usata più come un indicatore che come una bibbia.

Questo sembrano saperlo bene i giornali e i giornalisti italiani, che in effetti si sono perlopiù limitati a riportare la notizia senza dargli troppo spazio e senza calcare la mano su considerazioni catastrofiche sullo stato della nostra stampa. Alcuni, invece, hanno preferito fare del sarcasmo sul tema.

L'allarme sull'Italia al 77esimo posto nella classifica della libertà di stampa è una delle tante scemenze garantite dalla libertà di stampa

— Christian Rocca (@christianrocca)20 aprile 2016

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Eppure c'è stato un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui la stessa classifica—stilata con gli stessi criteri—provocava reazioni diametralmente opposte al silenzio e ai commenti misurati con il quale viene commentata oggi.

Chiaramente, sto parlando degli anni del predominio berlusconiano. L'Italia si trovava diverse posizioni più in alto nella classifica, eppure quella posizione veniva usata come dimostrazione che vivessimo in una specie di dittatura in cui la libertà di stampa era del tutto inesistente, e la responsabilità di tutto ciò era solo ed esclusivamente dell'ex Cavaliere.

Anche se ce ne siamo già completamente dimenticati, all'epoca il dibattito sulla libertà di stampa era molto vivace. Si facevano raccolte firme in sua difesa; in suo nome ci si mobilitava per difendere Repubblica che aveva pubblicato le 10 domande a Silvio Berlusconi; e infine si scendeva anche in piazza contro la legge bavaglio.

Quella classifica, insomma, veniva presa a parametro assoluto per dimostrare che l'Italia non era una democrazia occidentale, ma un paese autoritario paragonabile a certe nazioni sudamericane.

Non voglio certo sminuire l'enorme conflitto d'interesse di Silvio Berlusconi e l'impatto che ha avuto una tale concentrazione di potere mediatico nelle mani di una sola persona; oggi, però, Berlusconi non è più una figura rilevante nella politica italiana. Per questo, dunque, oggi più che mai il rapporto sulla libertà di stampa dovrebbe far riflettere—sia per il suo contenuto, sia per il modo in cui è stato commentato.

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Se quando c'era Berlusconi infatti la stampa era più che contenta di mettere in risalto il rapporto di RSF e quello analogo di Freedom House e di affrontare il tema, adesso pare molto difficile riportare con lo stesso entusiasmo una notizia in cui la stampa è al tempo stesso vittima e protagonista. Ma sarebbe importante chiedersi dove finiscono le colpe e dove iniziano le responsabilità.

L'atteggiamento della stampa di fronte alla notizia, è da ricercare inoltre in quanto evidenziato qualche tempo fa da Roberto Saviano, e ha a che fare con un problema di fondo: le critiche al governo Renzi. Prendendo ad esempio lo scandalo della banca Etruria, lo scrittore sostiene che un avvenimento del genere avrebbe avuto conseguenze molto diverse in un altro scenario politico—anche e soprattutto per il comportamento della stampa, che ora appare molto più indulgente rispetto a qualche tempo fa. "Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade?" si chiedeva poi Saviano. "Cosa è cambiato nella nostra capacità di indignarci?"

Oggi viene naturale porsi le stesse domande—oltre alla scontata considerazione che era più facile indignarsi quando quel rapporto usciva in epoca berlusconiana, quando si pensava che il problema fosse uno solo. Qualche anno dopo è venuto fuori che i problemi della libertà di stampa in Italia sono strutturali, e molto più radicati di quello che si pensava. Al tempo stesso, però, non fanno più scalpore.

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