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Com'è fare il praticante avvocato in Italia

In pratica, l'idea opposta di ciò che immagini quando ti iscrivi a Giurisprudenza e passi le sessioni d'esami a convincerti del tuo futuro guardando Un giorno in pretura. Questa è la mia esperienza.

Più o meno la mia idea della vita quando mi sono iscritta a Giurisprudenza. Foto via Flickr.

Quando ho deciso di iscrivermi a Giurisprudenza non avevo le idee chiare, avevo le idee cristalline: io avrei fatto l'avvocato.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, però, la mia condizione non era così diffusa. Molti miei compagni non avevano preso nemmeno lontanamente in considerazione la prospettiva di andare a ingrossare le fila dell'esercito degli oltre 250mila legali italiani: c'era chi voleva diventare un magistrato, chi non sapeva bene che fare e chi, dopo cinque anni in facoltà, era disposto ad andare a raccogliere fragole in Australia piuttosto che passare un altro giorno sui codici.

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Io no, sapevo perfettamente cosa avrei voluto fare. Man mano che superavo gli esami e macinavo puntate di Un giorno in pretura, l'immagine di me con la toga addosso diventava sempre più nitida. Non vedevo l'ora di scrivere la tesi, discuterla, e guadagnarmi l'agognato titolo di Dottore Magistrale che mi avrebbe consentito di porre in pratica tutti gli insegnamenti e le teorie del diritto.

Nello studente medio di giurisprudenza, pensieri e aspettative di questo tipo crescono e si ingigantiscono sempre di più. E il punto è che crescono e si ingigantiscono non sulla base di esperienze pratiche o elementi che qualificano una supposta appartenenza alla facoltà di Giurisprudenza—è proprio l'estrema astrattezza dell'università che ingenera aspettative fondate sul nulla.

Il momento in cui me ne sono resa definitivamente conto è stato l'inizio del praticantato, un periodo di formazione di 18 mesi finalizzato all'esercizio dell'attività forense, nonché condizione necessaria per poter accedere all'esame di Stato.

Ricordo perfettamente il giorno in cui ho iniziato la pratica. Era inizio settembre ed ero appena tornata dal mio viaggio post-laurea. Avevo trovato questo studio una settimana dopo essermi laureata, e sapevo che il dominus era un avvocato molto famoso con dei clienti grossissimi. Mi aveva fatto questo colloquio di mezz'ora in cui mi ero presentata addirittura con copia rilegata della mia tesi di laurea. Dopo avermi spiegato brevemente come funzionava il lavoro in quello studio, aveva sottolineato che lui cercava gente a cui piacesse lavorare duramente, aggiungendo però la fatidica frase: "Io non ti posso pagare."

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Quel primo giorno ero così nervosa che decisi di uscire di casa con la valigetta un'ora prima del dovuto, per poi aspettare di salire all'orario concordato bevendo un caffè al bar sotto lo studio. Quando salii mi introdussero ai miei nuovi colleghi, e ricordo che la prima cosa che mi fu detta fu: "Domani sei in Procura, devi fotocopiare un fascicolo." Già quando studiavo, la battuta sul praticante-fotocopiatore circolava ampiamente, ma pensavo che fosse, appunto, una specie di leggenda. Non potevo immaginare che le fotocopie avrebbero davvero rappresentato una costante per 18 mesi.

La mattina seguente andai in Procura accompagnata da un mio collega praticante di un anno più anziano. Dopo avermi mostrato brevemente dove si trovavano gli uffici dei vari pubblici ministeri, mi condusse al piano delle fotocopiatrici, aggiungendo il monito: "Questo ricordatelo bene!" Dopo aver fotocopiato quasi un intero faldone, andammo via.

Mentre aspettavamo l'arrivo dell'autobus, ricordo che mi guardò con fare timido (o intimidatorio, ho ancora il dubbio) e disse: "Posso darti un consiglio? Scappa il prima possibile." La interpretai come una mossa decisamente molto poco strategica per mettermi i bastoni tra le ruote. Non osai nemmeno chiedergli il motivo e risposi con un cenno del capo.

L'unico video YouTube di Un giorno in pretura che non dura più di 90 minuti.

Dopo qualche settimana di sole fotocopie, giri di cancellerie a cercare fascicoli, e quattro udienze tutte rinviate, il dominus entrò nella stanza di noi praticanti e, lasciando ( rectius, gettando) un fascicolo sulla mia scrivania, esclamò: "Vedi cosa si può fare." Finalmente il mio momento era arrivato . Aprii il fascicolo a dir poco entusiasta, mi munii di codice, cercai il capo d'imputazione e lessi: "[…] imputato per il reato di cui […] per aver cagionato la morte del gatto […]." Il mio primo caso, quindi, era l'uccisione di un gatto. Nonostante lo sconforto mi misi d'impegno, studiai una linea difensiva e lo risolsi—o meglio, lo "risolse" il dominus senza nemmeno un grazie.

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Continuai a fare fotocopie per tre mesi, poi me ne andai. Mi ero resa conto che in quel posto non avevo e non avrei imparato nulla, se non ad essere un esecutore materiale di ordini che ben poco avevano a che vedere con la mia crescita professionale. Così inventai una scusa qualunque, ringraziai addirittura per l'opportunità concessami, e decisi di cercare un altro posto per proseguire quel che un mia prozia ottantenne—che non avendo capito niente aveva capito tutto—chiamava volontariato.

Il secondo studio in cui venni presa a "lavorare" era decisamente migliore. Dominus più umano, casi molto interessanti, ambiente lavorativo tranquillo. Certo: non avevo una stanza, né una scrivania, né tantomeno ero retribuita; ma ormai mi bastava preservare la mia dignità personale. Lì facevo sicuramente più vita da tribunale, nel senso che mi veniva data la possibilità di assistere alle udienze, senza avere particolari incombenze pratiche.

La vita da tribunale mi piaceva, e ogni tanto riassaporavo quella sensazione di entusiasmo che provavo prima di laurearmi. Certo, continuavo a non sentirmi esattamente un "membro della comunità forense," eppure riuscivo a imparare sempre qualcosina in più. Seguivo quante più udienze possibili, cercavo di carpire i gesti, i modi di dire e di porsi degli avvocati più grandi, memorizzavo le procedure. Da mero osservatore quale ero, non potevo nemmeno sedermi al banco dei difensori (nemmeno con il mio dominus), ma dovevo accomodarmi in fondo all'aula, insieme ai testimoni.

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Più assistevo alle udienze, più le mie granitiche (e ingenue) convinzioni crollavano: con mia somma delusione, mi resi subito conto che "Obiezione, Vostro Onore" non si dice (al massimo "Opposizione, Presidente"), e che i magistrati non sono degli esseri umani calmi, imparziali, e moralmente impeccabili come traspare dalle descrizioni contenute in codici e manuali, ma persone normalissime che, tra le varie cose, arrivano in aula spesso e volentieri in ritardo e si stufano di ascoltare arringhe lunghe più di dieci minuti.

Più mi scontravo con la realtà dei tribunali, insomma, più maturavo l'idea che l'università non aveva fatto altro che ubriacarmi di tante, tantissime teorie, lasciandomi con un pezzo di carta in mano e senza la più pallida idea di come funzioni veramente il mondo del diritto.

In quel periodo osservavo sempre altri colleghi praticanti. Alcuni, i miei preferiti, erano soliti presentarsi con outfit—giacca, cravatta cum 24 ore per i maschi/ tailleur e tacchi a spillo cum borsa Louis Vuitton per le femmine—e modi di fare tipici dell'avvocato navigato. Alcuni si fingevano proprio già avvocati, e così li vedevi al termine dell'udienza estrarre di nascosto il libretto di pratica proprio quando arrivavano vicino al cancelliere per non farsi vedere. Forse si vergognavano di essere praticanti.

I pomeriggi nel nuovo studio non erano sempre proficui. A volte non avevo nulla, ma proprio nulla da fare, e così prendevo libri di diritto a caso dalla libreria e mi mettevo a leggere. Ricordo che una volta il dominus mi trovò a leggere un manuale di diritto processuale e mi disse:"Brava, studia, tanto non è la pratica che ti farà superare l'esame di Stato." ."Macchè," rispose un altro avvocato dello studio sopraggiunto nel mentre. "Mica lo studio fa passare l'esame. Quella è tutta una questione di culo! Anzi, chi studia non lo passa mai!" Iniziavo ad essere confusa. Oscillavo tra momenti di trascurabile esaltazione quando assistevo alle udienze a momenti in cui mi domandavo che cazzo stessi facendo nella mia vita. Nel complesso, tuttavia, non posso dire che questa seconda parte di pratica forense sia stata così tragica, anzi. Con il senno di poi mi dico di aver avuto fortuna, molta fortuna.

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Sicuramente più fortuna del mio amico e collega dell'università che era finito in uno studio civilistico a fare il praticante factotum, ossia il praticante che fa tutto tranne che imparare a fare l'avvocato. Al di là delle solite operazioni di routine (fotocopie, fax, rispondere al telefono, fare le code agli uffici postali per le notifiche, ecc.), il mio collega era diventato una specie di agente di recupero crediti per conto del dominus, e quasi quotidianamente doveva recarsi presso un negozio di ortofrutta il cui titolare (controparte dello studio in un giudizio) era debitore di svariate somme di denaro. Ovviamente, nemmeno lui percepiva uno stipendio.

Già, lo stipendio, questo sconosciuto per il giovane praticante. Il pagamento del praticante è sempre stato collocato a metà strada tra misticismo e leggenda. Un altissimo numero di praticanti non vede mai riconosciute le proprie prestazioni durante tutta la pratica. E questo è un dato di fatto.

Si vocifera che l'articolo 40, comma 2, del Codice di Deontologia Forense preveda testualmente che l'avvocato, oltre a dover assicurare al praticante l'effettività e la proficuità della pratica nonché un luogo di lavoro idoneo, deve riconoscergli, dopo il primo semestre, un compenso adeguato , tenuto conto dell'utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio, fermo l'obbligo del rimborso spese.

Ecco, mentre il rispetto del dovere di retribuzione del praticante è fuori discussione, nel senso che la stragrande maggioranza degli avvocati non considera minimamente questa possibilità, altri si rifugiano nel contentino del rimborso spese, facendolo apparire come un vero e proprio stipendio mensile. Generalmente, il rimborso spese del praticante oscilla tra lo 0 e i 300/400 euro, cifre che in ogni caso non consentirebbero nemmeno il pagamento di un canone mensile di locazione di una stanza.

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In pratica, gli unici con una vita economica decorosa erano quelli finiti a lavorare in grossi studi legali associati, ossia quegli studi che si vedono nei telefilm americani in cui c'è il team di avvocati che risolve il caso del secolo da milioni e milioni di dollari comodamente seduto al tavolo ovale nella sala riunioni. A differenza degli studi legali "normali," gli studi legali associati in genere pagano—generalmente imponendo al praticante l'apertura della partita Iva—e pagano anche abbastanza bene. Ma il giovane praticante dello studio legale associato deve optare per l'abbandono quasi totale della propria vita privata. Semplicemente non ha orari, e dipende completamente da loro.

Infine, degni di nota sono i praticanti fittizi, ossia coloro che conoscono un avvocato perché parente o amico di famiglia, e fingono di fare la pratica. Si presentano in studio solo per visionare atti al fine di compilare il libretto di pratica, oppure seguono le udienze per ottenere il numero di presenze necessarie a portare a compimento la pratica. Così facendo, accedono tranquillamente all'esame di Stato risultando assolutamente in regola.

L'esame, infatti, possono sostenerlo tutti i praticanti, o sedicenti tali, che al termine dei 18 mesi di praticantato siedono tra i banchi di padiglioni e università per svolgere il tanto atteso esame di Stato, un'altra piaga. Le irregolarità (e gli scandali) nello svolgimento della prova scritta e quelle in sede di correzione sono noti. Non esistono criteri selettivi di accesso alla prova, basta il certificato di compiuta pratica. Per cui anche chi fa le università online ha la stessa possibilità di guadagnarsi il titolo di chi ha studiato in università pubbliche. Il risultato è che chiunque, con un pizzico di fortuna, può diventare avvocato.

Ovviamente non tutti hanno fatto e fanno un'esperienza negativa—le eccezioni ci sono—ma non posso dire di aver sentito colleghi genuinamente entusiasti dell'esperienza lavorativa forense durante il post-laurea. È vero, all'università non ci preparano alla prassi, e quando entriamo in uno studio per la prima volta non sappiamo nemmeno come sia fatto un fascicolo. Ma è mia opinione che anche il praticantato sia e debba essere considerato un lavoro, ed è giusto che venga riconosciuto, apprezzato e retribuito. Al contrario, ci viene detto e ripetuto che la possibilità di fare esperienza è un'"opportunità unica" in cui "tutto serve."

Per quanto mi riguarda, i miei quasi due anni di pratica si sono conclusi in silenzio. Fatti gli scritti dell'esame di Stato mi sono affidata all'ignoto. Vedevo che i miei colleghi avvocati più giovani non se la passavano molto meglio dei praticanti—le retribuzioni medie della categoria, contrariamente a quanto ancora si crede, sono parecchio basse. E forse solo chi ha una famiglia solida alle spalle può anche lontanamente pensare di intraprendere una carriera forense.

Così mi sono fatta due calcoli, e ho deciso di cambiare strada. Ho fatto domanda per un dottorato di ricerca all'estero, presentando un progetto in diritto penale comparato su tematiche mi avevano sempre appassionato. Il mio progetto è stato selezionato, così ho fatto la valigia e me ne sono andata.

Ogni tanto mi viene da pensare alla mia "vita precedente," soprattutto quando mi capita di comparare la mia esperienza con quella degli attuali colleghi ricercatori che vengono da tutta Europa. Ogni volta mi ripeto che sono davvero contenta che sia finita. L'avvocato resta per me una professione incredibilmente affascinante, ma in queste condizioni si rischia di viverla come se si fosse un'ombra tra le tante, e ancor prima di iniziarla già si finisce quasi inevitabilmente per detestarla.