'Se cadiamo, cadiamo tutti': una giornata in una casa occupata di Milano
L'ingresso dello Spazio 20092. Tutte le foto dell'autore

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Italia

'Se cadiamo, cadiamo tutti': una giornata in una casa occupata di Milano

Lo Spazio 20092 è un ex stabilimento farmaceutico a Cinisello in cui ora vivono 18 famiglie. Ci ho passato una giornata.

L'estate del 2017 è stata caratterizzata dalla lotta alle occupazioni abusive: a Milano sono stati sgomberati due centri sociali, LUMe e Soy Mendel, a Bologna il Laboratorio Crash e Labàs, ma le immagini che hanno riempito i media e i social network—tra presunte carezze, getti d'idranti e polizia che incita a "spezzare le braccia" di chi resiste—sono quelle dello sgombero di uno spazio abitativo, il palazzo di via Curtatone a Roma, occupato da circa un migliaio di rifugiati, per la maggior parte eritrei.

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A circa un mese da quell'evento ho voluto passare una giornata in una occupazione abitativa per vedere coi miei occhi quale fosse la realtà della vita quotidiana dei suoi abitanti. Ho scelto lo Spazio 20092 a Cinisello Balsamo, un ex stabilimento della OGNA Pharmaceuticals, abbandonato da anni prima che nel 2015 un collettivo decidesse di renderlo "un luogo politico" dove "sperimentare un nuovo modello di convivenza abitativa."

Ho sentito i ragazzi del collettivo, che si sono accordati con le famiglie residenti per la mia visita. Così ho preso la mia macchina fotografica, imboccato la tangenziale e mi sono diretto verso Cinisello.

Il cancello dello Spazio 20092.

ORE 11:30

Arrivo allo Spazio 20092 in tarda mattinata. Il cielo è grigio, come il cemento delle basse costruzioni industriali d'intorno, e fa freddo. I muri di via Tranquillo Cremona sono tappezzati da murales, sticker e striscioni. Dentro il cancello sono parcheggiati due furgoni e una macchina ma sembra non esserci nessuno. Il citofono ovviamente non funziona, così aspetto fuori; dopo dieci minuti decido di entrare da solo.

Il cortile dello Spazio.

Attraverso un giardino e arrivo all'ingresso dello spazio. Dentro, tra i pannelli di vetro e plastica che dividono i vari appartamenti—tutti ricavati da ex uffici della ditta farmaceutica—è piuttosto buio. Giro per un po' prima di incontrare una donna italiana di mezz'età, Francesca, che sta pulendo il pavimento di un corridoio. Mi dice che al momento sono tutti al lavoro, "forse c'è qualche egiziana."

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Così mi dirigo verso la "zona egiziana." Qui ci sono delle stanze, alcune ricavate tirando su dei muri di cartongesso nello spazio del magazzino, dove vivono quattro famiglie. Non vedo nessuno, c'è solo un forte profumo di spezie e una pentola che borbotta in un angolo.

ORE 12:30

Mi siedo a un tavolino in mezzo al salone. Dopo qualche minuto vedo arrivare una donna, velata, con un bambino di circa sei anni. Non parla bene l'italiano e il bambino fa da traduttore: mi spiega che abitano nelle stanze in muratura, che hanno dei fornelli privati e stanno per cucinare delle verdure per pranzo, quando arriverà anche il marito—che sa della mia presenza e mi vuole parlare. Si offrono intanto di preparami un caffè.

Poco dopo arriva un'altra donna, anche lei egiziana, che va a controllare la pentola che avevo visto prima. Anche lei non parla benissimo l'italiano ma mi sorride e mi offre una Coca-Cola. Ho appena bevuto il primo sorso che vedo tornare il bambino di prima con in mano la mia tazza di caffè: sfiorando un'overdose di caffeina aspetto l'arrivo di suo padre.

Ramadan

ORE 13:30

Ramadan, il padre, arriva nel salone in bicicletta e con in mano alcune buste della spesa. Non vuole essere fotografato in volto ma è disposto a parlarmi: mi racconta di sua moglie, disabile all'80 percento per una grave ipertensione polmonare diagnosticatale pochi anni fa, che dovrà portare per tutta la vita un impianto i cui cateteri vanno spostati e cambiati due volte alla settimana da un infermiere. Lo scorso inverno ha avuto due polmoniti di fila. Mi spiega che la malattia non le permette di lavorare—a volte non riesce nemmeno ad alzarsi dal letto. "Tante volte è arrivata un'ambulanza qua per mia moglie. La portano a Pavia o al Monzino, a San Donato: qui non capiscono il suo problema."

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Nel magazzino dove vivono non c'è il riscaldamento e c'è un solo bagno condiviso tra tutte e quattro le famiglie. "Per mia moglie, con le polmoniti, così non si può," mi spiega Ramadan. "Ho fatto domanda per le case popolari: adesso il numero per me è 48. Va bene 48, per me, per i due bambini, va bene: ma c'è un problema grave, quello di mia moglie, per sempre." Adesso Ramadan lavora in un centro di giardinaggio dov'è pagato a prestazione. Prima faceva le pulizie nel palazzo del Comune, ma ha dovuto lasciare il lavoro perché l'orario fisso non gli permetteva di badare alla moglie e alla famiglia.

Ramadan mi racconta che è in Italia da 16 anni e che prima abitava in una casa in affitto. Sul contratto c'era scritto 250 euro mensili ma ne pagava 600 in nero. Quando ha cambiato lavoro non è riuscito più a pagare, non ha ottenuto l'aiuto per l'affitto dal Comune e così è stato sfrattato. È arrivato allo Spazio nell'ottobre del 2016. Da allora va ogni giorno in Comune a far presente la sua situazione, ma è ancora qui. "Gli farò avere il numero in cimitero di mia moglie, a quelli del Comune."

ORE 14:00

Lascio Ramadan e famiglia al loro pranzo e vado in giardino a mangiarmi una pizza portata da casa. Il tempo è ancora freddo e grigio, ma lì si sta abbastanza bene.

ORE 15:00

Finito di mangiare mi metto a leggere un libro ma smetto subito perché vedo arrivare dei ragazzini. Tra loro c'è il figlio di Ramadan, che sta mangiando un hamburger e mi chiede se può provare la mia macchina fotografica. Mi presenta altri due bambini: uno, di 12 anni, è suo fratello; l'altro è molto piccolo e non parla, ha i capelli biondi ed è figlio di un'altra famiglia dello Spazio.

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Francesca, una dei pochi italiani che vivono nello Spazio 20092.

Poco dopo esce a fumare anche Francesca, la signora italiana che avevo incontrato al mio arrivo, e ci fermiamo a parlare. Mi racconta che è disoccupata e ha due figlie che vivono con lei: la più grande fa le pulizie in giro per 250 euro al mese. Prima avevano una casa, ma poi sono finite in difficoltà, la casa è stata messa all'asta e loro sono state sfrattate. Per un mese hanno dormito in macchina e in tenda in giro per Cinisello, prima di trovare una sistemazione nello Spazio.

"Ci sono pregi e difetti nella vita qui," mi dice Francesca. "Non siamo in mezzo a una strada, ma vivere in una comunità non è facile per nessuno. Almeno non si sta soli, anche se con i bambini è un gridare tutto il giorno, 'non fare quello, non fare quello!' Ma è brava gente, ci aiutiamo uno con l'altro." Le chiedo qual è il rapporto con gli stranieri—che tra nordafricani, sudamericani ed esteuropei costituiscono la maggioranza degli abitanti dello Spazio. "Mi trovo benissimo," mi risponde. "Siamo nella stessa barca, tutti. Se cadiamo, cadiamo tutti."

Un graffito su un muro dello Spazio 20092.

ORE 16:00

Sono ancora in giardino con i bambini—il cui numero, insieme a quello delle madri, aumenta costantemente man mano che tornano da scuola—quando arrivano un ragazzo e una ragazza sui vent'anni, con delle borse da palestra, dei bastoni e una spada a tracolla. Mi spiegano che è l'attrezzatura per il Vovinam Việt Võ Ðạo, l'arte marziale vietnamita che praticano. All'ultima assemblea dello Spazio hanno ottenuto il permesso di usare il salone del magazzino come palestra. I bambini li circondano subito per brandire la spada e chiedere lezioni di arti marziali.

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Non faccio tempo ad andare in salone che la loro esercitazione diventa una vera e propria lezione. Alcuni bambini seguono piuttosto ordinatamente gli esercizi, dal riscaldamento e lo stretching alle prime posizioni di combattimento. Altri guardano, mentre i più piccoli corrono e girano in triciclo per il salone. Alcune delle madri li stanno a guardare, altre cominciano già a cucinare—dato che molte famiglie non hanno un fornello personale, bisogna fare i turni.

ORE 17:00

Carlo, residente dello Spazio 20092.

Verso quest'ora tornano anche molti degli abitanti maschi dello Spazio, che durante il giorno vanno a lavoro, lo cercano o sono in giro a fare commissioni. Così incontro Carlo: "Mi hanno sfrattato il 7 novembre 2014," mi racconta. "Vivevo a Milano, a Niguarda, da dieci anni. All'inizio sono stato ospitato da un amico. Lavoravo come fotografo in uno studio, poi con la crisi non c'era più lavoro e non sono riuscito a pagare l'affitto."

Gli chiedo come è arrivato a Cinisello. "Alla Panetteria Occupata, a Lambrate, ho conosciuto delle persone che si occupano del diritto alla casa. Loro mi hanno indirizzato qui, sono arrivato all'inizio di giugno del 2015."

Per quanto riguarda la vita quotidiana nello Spazio, Carlo mi spiega che è una situazione sempre un po' precaria. "Lo Spazio non è certo abitativo, bisogna arrangiarsi. Quando sono arrivato non c'era neanche una doccia funzionante, adesso ce ne sono tre e in qualche modo ci si può lavare. Si cerca di vivere il più normalmente possibile, anche se ci sono comunque diversi problemi. Anche per cucinare, ad esempio, con cucine comuni e turni."

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Anche il rapporto con gli altri inquilini non è sempre facile. "Nel mio caso ci sono sicuramente rapporti difficili, legati più che altro a un problema di impegno," mi spiega. "Non sempre tutti collaborano e si impegnano allo stesso modo. Poi io vivo da solo quindi di tempo libero quando non lavoro ne ho più degli altri, ma penso che in generale la partecipazione dovrebbe essere maggiore, anche alle lotte che si fanno."

I turni tra gli inquilini per usare la lavatrice.

Secondo Carlo, la scarsa voglia di partecipare alla lotta politica è un grosso problema di molti abitanti dello Spazio. In molti, soprattutto gli stranieri che vengono da paesi dove il rapporto con la legalità è diverso, hanno meno coscienza dei loro diritti e più paura della legge, e di conseguenza anche più paura a esporsi facendo picchetti anti-sfratto e iniziative simili. "Oggi per esempio stavo lavorando e sono andato via dal lavoro un'ora prima per aiutare una ragazza della Panetteria Occupata che stava venendo sfrattata, le sono arrivati a casa sei vigili e due impiegati di MM [Metropolitana Milanese, l'azienda che gestisce le case popolari di Milano]. Alla fine siamo andati lì in un po' e e siamo riusciti a impedire lo sfratto. Ma quest'estate è stata molto calda per quanto riguarda gli sgomberi, forse per un tornaconto elettorale."

Carlo mi dice di essersi iscritto alle graduatorie per le case popolari talmente tanti anni fa che non sa più nemmeno se è ancora dentro. "Se i criteri di assegnazione sono rimasti gli stessi, non ho speranze dato che sono da solo. Quindici anni fa, quando mi sono iscritto, l'impiegato del Comune mi ha detto, 'Ma che vieni a fare, te l'assegneranno per ultimo'."

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ORE 18:00

Giorgiana, una ragazza romena che vive nello Spazio con il compagno e la figlia.

A quest'ora quasi tutti gli abitanti sono tornati: mentre le donne cucinano gli uomini si riposano in giardino.

Parlo con Giorgiana, una ragazza romena che vive qui con il compagno e la figlia di sette anni avuta dal primo matrimonio di lei. Giorgiana abitava qui a Cinisello, in affitto dal capo del compagno, che faceva l'imbianchino. Pagavano 800 euro al mese e dividevano la casa con altri inquilini, che poi se n'erano andati. "Dovevamo pagare tutto noi, anche se il padrone di casa aveva smesso di pagare il mio compagno voleva che pagassimo tutto. Io lavoravo in un albergo e solo col mio stipendio non ce la facevamo. Poi ho perso il lavoro anch'io e siamo stati sfrattati il 22 gennaio di quest'anno, il giorno del mio compleanno."

Adesso Giorgiana ha trovato di nuovo lavoro, ancora in un albergo, mentre il compagno è ancora disoccupato. Dopo lo sfratto hanno dormito per un po' in via Filzi, sempre a Cinisello—in uno stabile occupato nel marzo 2017 da un gruppo di otto famiglie per cui non c'era più posto nello Spazio. Dopo una decina di giorni sono stati sgomberati e sono tornati qui, dove in qualche modo gli hanno trovato una sistemazione. "Senza luce e gas era dura. Ma anche qui non è una vita facile, con tante persone. Però io non ho problemi: sto bene con tutti, anche con i bambini, c'è grande sincerità e si parla di tutto, anche delle cose che non ci piacciono."

"La cosa più brutta è lavare i panni," prosegue Giorgiana. "C'è una lavatrice ma è fuori, al freddo, e non mi va di usarla. Quindi pulisco il lavandino del bagno e poi faccio il bucato lì. Un'altra cosa bruttissima è lavarsi, perché in tutti e tre i bagni non va la luce, c'è solo una doccia comune e quando arriva l'inverno l'acqua calda finisce subito."

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"Noi proviamo a sistemare le cose da soli ma è inutile se lo facciamo solo in uno o due, devono farlo tutti," mi dice, prima di raccontarmi del periodo passato con le altre famiglie nell'occupazione di via Filzi. "Di là a dormire eravamo in pochi, mentre bisogna essere sempre in tanti fare i picchetti ed evitare gli sgomberi. Certo per me è più facile: essendo europea non rischio di perdere il permesso di soggiorno, la mia unica paura è che i servizi sociali mi prendano la bambina."

Radwane, che vive nello Spazio con la moglie e i tre figli.

ORE 19:00

Nelle ultime ore è piovuto e ora in cielo c'è l'arcobaleno: mentre il sole tramonta esco in giardino a vederlo e lì incontro Radwane, che viene dal Marocco. Vive qui con la moglie e i tre figli ed è arrivato nell'ottobre 2016, dopo essere stato sfrattato e aver passato una settimana a casa di suo fratello. "Il Comune niente," mi dice, "ci sono andato mille volte, dicono che la casa non c'è. Erano dieci anni che abitavo in quella casa, ho sempre pagato l'affitto, poi ho perso il lavoro e ho perso anche la casa. Faccio il muratore ma con la crisi non mi pagano più come prima." Mi racconta che adesso trova solo lavori a chiamata per qualche mese e che è disoccupato dallo scorso luglio.

"Qui la vita è dura," prosegue," siamo in cinque in una stanza, il bagno è in comune con le altre famiglie, la cucina pure. Per me non è un problema, mi preoccupo per i miei figli: mia figlia più grande si vergogna quando a scuola le chiedono dove abita o cosa fa suo padre."

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Un bambino scrive un cartello con uno slogan pro-occupazioni.

Mentre parliamo, sopra di noi il sole tramonta. Nel cortile dello Spazio gli abitanti, i loro figli e i membri del collettivo per il diritto alla casa di Cinisello stanno preparando cartelli e striscioni per esprimere il loro diritto a occupare e ad avere un tetto sulla testa.

Nonostante la vita qui sia difficile, molti di loro sono preoccupati per l'asta bandita dal tribunale per la vendita dello stabile che ospita lo Spazio, prevista per il 29 settembre. Radwane mi sintetizza le loro preoccupazioni: "Speriamo che il Comune ci ripensi. Se non abbiamo questo posto dove andiamo? Non ho neanche la macchina dove andare a dormire, finiamo sotto un ponte. Nella graduatoria per la casa popolare sono il numero 84."

ORE 20:00

Ormai è ora di cena e una signora egiziana mi accompagna nella sua cucina, dove pesce, verdure e altri piatti stanno finendo la cottura. L'odore è buono e la stanza è una delle poche ad avere il riscaldamento: nonostante tutte le difficoltà si percepiscono i risultati dello sforzo fatto dagli abitanti per rendere questi ex uffici e magazzini delle vere case, dignitose e accoglienti.

Poi mi mostra la sua stanza, dove vive con il marito e il figlio di pochi mesi. È piccola ma lo spazio è ben sfruttato: ci sono un televisore, un ampio letto matrimoniale, una culla, vari mobili con dei cassetti. Sui muri ci sono una khamsa, un'icona della Ka'ba, e degli adesivi a tema femminista e antisessista che mi mostra con orgoglio.

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A questo punto ho fame ma non voglio pesare sulle spalle degli abitanti dello Spazio, che hanno già mille difficoltà. Accetto solo un muffin fatto da lei, che mi fa da antipasto, e poi mi ordino un'altra pizza che vado a mangiare in cortile.

ORE 22:00

Noureddine, marocchino, vive nello spazio con la moglie, italiana, e le due figlie.

Dopo cena viene a chiamarmi una bambina e mi dice che suo padre vuole parlarmi. Mi accompagna nella sua stanza, dove vive con la sorella e i genitori. La madre è un'italiana di religione musulmana, il padre è marocchino: si chiama Noureddine e vuole essere intervistato e fotografato per far conoscere la loro storia, la vita che fanno e il perché.

"Qui siamo in 18 famiglie, tutti senza casa, abbiamo perso tutto quello che avevamo," mi racconta. "Dobbiamo ringraziare questo posto perché almeno qui abbiamo un tetto sulla testa e i bambini sono contenti: il Comune non riesce a dare case a nessuno. I funzionari dicono che le case non ci sono ma sappiamo che non è vero. Io è da dieci anni che faccio domanda, ho perso il lavoro tre anni fa."

ORE 23:00

Dopo essermi fermato a parlare con Noureddine esco in giardino. È buio ormai e molti stanno già andando a letto, mentre alcuni abitanti dello Spazio sono ancora fuori a fumare e fare due chiacchiere. Due ragazzini stanno appoggiati allo stipite della porta, scherzando, ridono e si prendono a pizzicotti. Io decido di andare a dormire.

La sensazione che si ha passando anche solo una giornata in un'occupazione di questo tipo è piuttosto intensa. Allo Spazio hanno un tetto sopra la testa, ma gli spazi personali sono quasi inesistenti. Avere un minimo di privacy o di tranquillità è impossibile e in più c'è un'atmosfera di rabbia, frustrazione e disperazione pronte a esplodere alla prima scintilla—scintilla che potrebbe arrivare dall'asta per la vendita dello stabile.

Ma allo stesso tempo è difficile non notare la serenità che deriva dall'avere una quotidianità. Tra tutte le difficoltà, in molti sentono questo posto come una casa: lo si sente dalle chiacchiere, dalle liti tra i residenti, dalle urla dei bambini. Nonostante l'emergenza, qui si riesce a riprodurre la realtà di una vita dignitosa anche se magari ancora imperfetta sotto alcuni aspetti. Non si soffre tanto per la mancanza di privacy quanto per la mancanza materiale di stanze, letti, bagni e altre strutture di prima necessità. Anzi, la vita in comune sembra essere un fattore di coesione.

Il problema, insomma, non è la vita che si riesce a portare avanti, tra mille difficoltà in uno spazio occupato. Non è nemmeno il "degrado", la delinquenza o i comportamenti antisociali, che anzi occupazioni di questo tipo tendono a contrastare. Il problema, se mai, è sociale e strutturale, non di ordine pubblico: sta nel disinteresse totale di chi in quella condizione non ci si ritrova e mai ci si ritroverà.

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