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A9N1: Sangue al cervello

Le nozze di Shiva

Amore (e matrimonio) sull’Himalaya.

Illustrazioni di Jim Klewson

Prima parte - La fantasia di Amie

Sono buddista. Ne ho già scritto su VICE, un anno fa. La storia era incentrata sul mio viaggio a Bali per fare un’offerta a Shiva con l’obiettivo di chiedere un uomo, sulla spinta del consiglio che il mio maestro aveva rivolto a una signora cinese durante un incontro informale in California.

In quello stesso periodo, il maestro mi aveva consigliato per via diretta di “scrivere cazzate”. Le sue parole erano state: “Persino Wong Kar-wai si occupa di pubblicità. E poi ha soldi a sufficienza per fare cose come In the Mood for Love.”

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Accolsi il suo suggerimento e proposi una rubrica per VICE. com in cui avrei svolto interviste nella forma di lettura dei tarocchi. Non pensavo fossero vere e proprie cazzate—in precedenza l’avevo spesso pensata come una rubrica divertente—ma la proposi comunque e iniziai a scriverla (non senza un frequente imbarazzo, dato che non ho niente della medium e riesco a essere una terribile intervistatrice, quando mi trovo davanti sconosciuti o persone a cui avverto di non piacere). Inoltre il formato era strano, e alla fine VICE l’aveva ragionevolmente soppressa.

Ma in un modo o nell’altro, a rubrica finita rimasi in contatto via mail con una persona che avevo intervistato: Clancy Martin. L’avevo intervistato perché pensavo che, attraverso il personaggio del padre, nel suo romanzo Come si vende, fosse riuscito a catturare la vertigine dell’autentica pratica spirituale. È impossibile tradurla in parole. Eppure lui ci era riuscito. Anzi, ci era quasi riuscito; immagino che la maggior parte dei lettori consideri la figura del padre—un mistico che comunica sul piano astrale, un attento studente di Sri Satya Sai Baba, e uno schizofrenico che tratta gli ospedali psichiatrici come alberghi—niente più che un folle. Ma io non la vedevo così. Io vedevo un uomo inconsapevole del fatto che non si possa parlare della propria vita spirituale. La gente lo fa, ma passa per stupida e pazza e—per chi ha avuto vere e proprie esperienze—ammattisce, o finisce anche peggio.

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Per l’intervista, Clancy e io avevamo parlato per telefono. All’epoca frequentavo un bell’uomo che viveva a Seattle e aveva una strana psicologia che non afferravo del tutto. A dirlo così sembrerà anche semplice, ma voleva vedermi solo una volta ogni due settimane. Se c’era qualcosa che voleva fare con me era messaggiare. Spessissimo. In stile Tiny Furniture.

Prima delle interviste bevevo sempre, perché sono timida e i tarocchi mi rendono nervosa. Inoltre, il 60 percento delle volte le carte mi cadevano e davano risultati insensati. Agli esordi della rubrica avevo cambiato mazzo, passando da un Crowley a un Rider-Waite con l’idea che le carte fossero fondamentalmente le stesse. Ma non era così; ce n’erano circa 30 che non conoscevo affatto.

Eppure, la lettura di Clancy aveva senso. Mi disse che la sua relazione lo aveva consumato, e che voleva qualcosa di più. La carta del “qualcosa di più” era di tipo spirituale, ma non volevo dirglielo, così minimizzai quell’aspetto insistendo sul lavoro. Le carte dicevano anche che aveva problemi a chiudere il rapporto perché amava quella donna e il sesso era fantastico. Ma spiegarglielo in quei termini mi metteva a disagio, perciò la feci più semplice. In pratica, le carte gli comunicavano di non intrattenere una relazione e di lavorare, lavorare, e ancora lavorare.

Uscito il pezzo ci scambiammo qualche mail, e una volta mi scrisse che fino a quel momento la lettura si era rivelata corretta; lui e la fidanzata si erano lasciati. Gli dissi che avevo fatto lo stesso, ma la situazione era molto diversa. Io gli scrissi dopo che Harper’s affossò un saggio per il quale avevo viaggiato per il mondo e lavorato due anni. Poi iniziammo a inviarci degli SMS. A volte mi scriveva la mattina, “Che fai?” e io “Mantra.” In quel periodo mia madre e io dedicavamo alla meditazione due o tre ore, al mattino, insieme alla nostra amica Patience. Mi chiese quale fosse il mio mantra, e io risposi che sarebbe stato meglio non dirlo. Mi rivelò il suo, spiegando che significava “Dio è al centro del tuo essere.” Poi aggiunse che non credeva fosse il suo reale significato: pensava si riferisse a qualcosa che non si può realmente spiegare.

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Per farla breve, cinque mesi dopo l’intervista ci vedemmo a Kansas City. A quel punto eravamo già innamorati. Terminata la mia settimana a KC lui si spostò a Seattle, dove si fermò per cinque giorni, in albergo. Poi a mia madre fu offerto un ritiro spirituale gratuito a Whistler, in Canada, e lui venne da me un paio di giorni. In seguito tornammo a Kansas City per dieci giorni o giù di lì, poi fece di nuovo tappa a Seattle e per cinque notti restò con me e mia madre in un piccolo appartamento.

Prima che prosegua, c’è una cosa che devo chiarire: a un certo punto, prima di questi spostamenti, Clancy mi aveva chiesto di andare a stare da lui: era al Carlyle di New York per quattro notti. Ebbi l’impressione (sbagliata) che fosse benestante.

La prima volta che venne da me mi chiese cosa avrei voluto per il mio compleanno. Ci conoscevamo di persona da dieci giorni. C’era qualcosa che desideravo ardentemente—un bracciale di Pamela Love che avevo visto da Barneys—e dopo qualche scambio di battute senza senso (“Allora, con che lettera inizia?”) Clancy era riuscito a strapparmelo di bocca. Alla fine andammo da Barneys, e col sudore che gli impregnava la fronte me lo comprò. Non lo tolgo mai.

Eravamo di sopra, nel reparto CO-OP. Clancy stava progettando di scrivere un pezzo su jewelry designer donne emergenti, e mi chiese di accompagnarlo al piano inferiore per dare un’occhiata alla sezione lusso. Accettai. In realtà lui è molto più interessato di me al settore, e mentre mi allontanavo dal bancone di Monique Pean disse, “Amie.”

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Non so perché, ma non mi fermai, continuando a camminare verso Kiehl’s. Mi piace spruzzarmi sul viso il loro astringente all’acai. Ripeté, “Amie.” E poi, “Amie Barrodale.”

All’epoca sapevo già che l’avrei sposato, e così anche lui, ma non ne avevamo ancora parlato, e ci immaginavamo semplicemente che ci saremmo arrivati in un anno o due.

“Puoi provarti questo anello per me?”

Era in zanna di cinghiale, circondato da piccolissimi diamanti. Vedendolo in esposizione mi era sembrato semplice, ma sulla mia mano—Clancy ha davvero buon occhio—aveva un che di magico.

Ovviamente non poteva comprarlo così, sul momento, ma nel restituirlo al commesso percepivo che qualcosa era cambiato. Clancy si era proposto sul marciapiede fuori dal negozio, e io avevo accettato. Successivamente, a Kansas City, mi chiese di nuovo la mano, e con un anello. Un anello temporaneo, un bellissimo gioiello appartenuto alla mia bisnonna. Avrebbe potuto comprare il Monique Plan—voleva farlo—ma dal momento che il fratello lavorava nel settore, gli avevo chiesto di fare la persona pratica e di piantarla. Per qualche coincidenza, un mio cugino piuttosto folle era appena mancato e tra le cose da lui lasciate—una pistola che aveva comprato per uccidersi e un set da dieci posate Gorham in argento sterling—c’era un pezzo di zanna d’avorio. Sulla superficie era inciso un volto sorridente.

La cosa potrebbe andare per le lunghe, quindi mi limiterò a dire che Clancy aveva erroneamente pensato l’avessi invitato a seguirmi per un mese in un abhisheka sul confine col Tibet. (Non riesco a spiegare cosa sia un abhisheka. Se volete scoprirlo, intraprendetene uno). Questo era accaduto ancora prima che ci incontrassimo di persona, e lui aveva accettato immediatamente. Visto con la consapevolezza di oggi, sembrava un, “Ok, chiederò al Rinpoche di sposarci.”

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Per raccogliere i soldi necessari al viaggio, Clancy vendette un pezzo a Men’s Journal a proposito dell’altro lato di suo padre. Aveva scritto del punto di vista convenzionale; quell’articolo si concentrava sul punto di vista non convenzionale, ovvero la possibilità che suo padre fosse un uomo spirituale. Avrebbe esplorato l’eventualità che in vita avesse goduto di autentiche esperienze spirituali.

Inizialmente, per l’articolo, Clancy voleva soddisfare le ultime volontà del padre gettando le sue ceneri nel Gange. Ma le aveva perse. Prima del viaggio parlai con alcuni lama e mi diedero il loro benestare: avrebbe potuto usare qualsiasi oggetto personale appartenuto al defunto. Scelse qualcosa di molto prezioso, ma sta a lui decidere se raccontare o meno questa storia.

Andammo a Benares per la cerimonia, ottenendo che fosse Drubgyud Tenzin Rinpoche a celebrarla. Successivamente, quando il Rinpoche andò a lezione (stava imparando la lingua pali), la nostra guida ci spiegò che il Gange è consacrato a Shiva. Prese a raccontare la storia: il corso d’acqua avrebbe potuto inondare il mondo, ma qualcuno si era rivolto a Shiva perché lo fermasse. Così Shiva lo aveva arginato con la sua testa, o si era annodato i capelli in una crocchia. Non riuscii a capire tutto, ma una piccola parte di me—con Bali in mente—iniziò a riflettere.

Poi la guida ci comunicò che saremmo andati al più importante santuario dedicato a Shiva. Lo chiamò “il numero uno” e disse, “Avete i passaporti, vero?”

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Erano rimasti in albergo.

“Oh, va bene,” continuò. “Possiamo andare al numero due.” Gli risposi che volevo tornare in albergo a recuperarli, ma

sia Clancy che la guida si opposero. Posso essere un tantino testarda, e puntai i piedi. Cambiammo i nostri programmi e andammo a Sarnath, dove Buddha aveva insegnato le Quattro nobili verità. Saltammo il negozio delle sete e tornammo in albergo per quattro ore, dopodiché la guida passò a prenderci.

“Mi spiace domandarlo,” ci disse, “avete i passaporti?”

Penso che la maniera appropriata di fare offerte a un tempio consista nel portare un fiore e deporlo, semplicemente. Ma sono cresciuta in Texas. Mia madre e io non eravamo ricche né povere, ma mio nonno si era arricchito col petrolio e adorava spendere i soldi, sventolarli, entrare nel più costoso negozio dello stato e urlare alle dieci donne del suo gruppetto, “Se vedete qualcosa che vi piace COMPRATELO. Siamo qui per fare spese!”

Allora la cosa mi umiliava, ma vent’anni dopo, nell’entrare in un santuario, ho la stessa identica mentalità alla Donald Trump. Crea imbarazzo, ma non posso farci niente. Sono un po’ come il proprietario di un ristorante cinese in quel senso, e mentre ci avvicinavamo al tempio sussurrai a Clancy, “Ti va di fare una cosa per me?”

“Qualsiasi cosa.”

“Potresti aiutarmi a raccogliere molte offerte, anche se la cosa li disturba o ti mette in imbarazzo?”

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“Sì.”

“Promesso?”

Annuì. “Ma solo fiori, ok? Niente frutta, incenso, lumini e cose del genere.”

Acconsentii.

In quel tempio, il numero uno, dev’essere un pandit ad accompagnarti, e non una guida, perché “non è aperto ai turisti.” In più, ci spiegò la nostra guida, avremmo dovuto mentire. Alla domanda, “Credete nell’Induismo?” la risposta avrebbe dovuto essere affermativa.

In realtà non ci fu bisogno, ma come previsto riuscimmo a irritare il nostro pandit. Ci aveva comprato un semplice cesto da offerte, e quando Clancy spese 20 dollari in ghirlande e fiori di loto rimproverò tanto noi quando il venditore.

Dentro il tempio c’era un linga di Shiva. Era posto dietro un cancello, e un pandit lo pregava mentre file di fedeli offrivano acqua biancastra (sotto il linga c’era una piscina contenente quest’acqua, tanta quanta diverse vasche da bagno, secondo una rapida stima) e fiori. C’erano moltissime persone, ma la fila scorreva rapidamente. Clancy e io facemmo scivolare i fiori dal cestino nell’acqua, contemporaneamente.

Una persona era felice: il pandit. Sorrise e ci fermò, mettendoci al collo una ghirlanda. Due a Clancy, una a me.

Ogni sera, al tramonto, gli indù si radunano sui ghat del Gange e sette bramini recitano preghiere. Rimanemmo per gran parte del rituale. Era meraviglioso, ma le temperature erano elevate (40 gradi, forse) e avevamo avuto una giornata faticosa. Ci togliemmo le ghirlande per immergerle nel Gange. Risalendo i gradini, la guida ci indicò una piccola costruzione.

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“Anche quello là è un importante tempio di Shiva. Il suo linga ha mille anni.”

Clancy non aveva banconote di piccolo taglio per le offerte. Cambiarle è impossibile, e sapevo che non avrei potuto farla franca due volte con la mia spiritualità da Donald Trump. Ma volevo visitarlo. La nostra guida comprese la situazione e ci andò a comprare un’offerta da dieci rupie ognuno. Entrammo.

Penso che andare in India per farsi sposare da un maestro a una persona conosciuta un mese prima sia la cosa più folle che uno possa fare. Ma c’è di meglio. Clancy e io facemmo le nostre offerte. Io andai per prima, ma un pandit intercettò Clancy all’entrata, gli lavò le mani, lo portò al linga, gli disse di toccarlo e poi lo fece sedere e gli diede una lunga benedizione. Con eleganza, gli legò al polso destro un braccialetto rosso e zafferano. Nel tempio c’erano altri due o tre fedeli, e mi chiesero di me con un’espressione indulgente motivata dal mio non aver ricevuto alcuna attenzione da quell’uomo. Dalla loro devozione e dal suo aspetto capivo che era autentico. E avvertivo il suo carattere speciale. Quando Clancy tornò da me notò la mia faccia e mi fece rapidamente un braccialetto perché non mi sentissi esclusa. Mi sedetti di fianco a Clancy e dissi, “Dovremmo farci sposare da lui?”

Clancy rispose affermativamente. Si inginocchiò davanti all’uomo e gli chiese, “Ci può sposare?”

“Perché no?”

Ci accomodammo entrambi, pronunciò una breve preghiera in inglese e uscimmo dal tempio frastornati—erano passati 15 minuti, e il rituale sul Gange si era concluso—percorrendo tra la folla il chilometro e mezzo che ci separava dalla macchina, stupefatti.

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Clancy disse, “Mi sento come sotto l’effetto di droghe.” “Già. Cosa è successo?”

Ero andata fino in India per farmi sposare dal mio maestro, e… Un attimo, pensai, potevo ancora farlo. Smisi di pensarci. Il giorno successivo restammo in albergo. Andammo a mangiare, ordinammo una Diet Coke e Clancy chiese al cameriere il significato del suo nome.

Non parlava granché bene inglese, ma rispose che era il nome dell’uomo che aveva pregato Shiva perché fermasse il Gange. Clancy gli domandò del tatuaggio sulla fronte, e lui glielo spiegò. Compreso che il nostro era un interesse genuino, ci disse, “Potete pronunciare il mantra di Shiva: Om Namah Shivaya.”

Clancy si girò verso di me: “È il mio mantra. L’ho ripetuto allo sfinimento.”

“Perché non me l’hai mai detto?”

“Te l’ho detto—ti ricordi, il professore mi aveva chiesto di tradurlo.”

“Ma avevi detto che significa, ‘Che Dio faccia andare tutto bene.’”

“Cosa vuol dire?”

“Non so. Ma per noi, Namah significa ‘mi arrendo a.’ Mi arrendo a Shiva.”

Clancy—che ha sopportato in molte occasioni la mia teoria su suo padre, una persona che non ho mai conosciuto, ovviamente—disse, “Forse non dovresti scriverne.”

Continua nella pagina successiva.

Seconda parte - I fatti di Clancy

Iniziammo a parlare delle fedi nel retro di un furgone, lungo una stretta stradina sullo strapiombo da Kalpa a Kaza. Il fiume Spiti scorreva metri e metri sotto di noi. Oltrepassammo un enorme scavo per la costruzione di una diga.

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“Vedi?” dissi. “Un giorno tutto questo sarà coperto dal fiume.

Anche questa strada.”

“Come fai a saperlo?”

“Dalla roccia. Guarda com’è incisa. Vedi tutti quei buchi?” Non lo sapevo, e più tardi scoprii che mi sbagliavo: eravamo sulla strada nuova. Un giorno quella vecchia sarebbe stata inghiottita, ma la strada nuova era stata scavata sopra il livello idrico previsto. L’autista non parlava una parola di inglese, quindi non dovevo preoccuparmi di essere corretto.

Amie non riusciva a smettere di fissare le nostre mani. Teneva la mia tra le sue, e poi ne scostò una. Dopo la poggiò vicino alla mia, allungando l’anulare e osservando il mio. Infine strinse tra loro le dita della sua mano.

“Mi piacciono i tuoi anelli,” fece. “A te piace il mio?”

“Ne vorresti anche tu uno d’argento?”

Eravamo stati due volte dall’orafo di Kalpa. La prima volta ce ne aveva fatti due d’oro, che Amie aveva cercato di farsi piacere senza riuscirci. Il giorno successivo lo chiamammo dall’albergo, e nella sala da pranzo il proprietario spiegò cosa volevamo. Dall’espressione sul volto dell’orafo e dal modo in cui accennava col capo avevo capito che i profitti erano in calo. Ma non mi ero sentito a disagio, perché sapevo che ci aveva fatto pagare più del dovuto. Erano semplici fedi d’oro coi bordi arrotondati, appiattite e saldate alle estremità. Avrebbe potuto farle qualsiasi orafo nel giro di un’ora.

Arrivati a casa sua per ritirare il secondo set di fedi—gli avevo chiesto di farmene anche una d’argento, così da avere un anello per le mie figlie e la madre di Amie da indossare vicino alla fede nuziale—ci sedemmo per terra, nell’unica stanza a disposizione, e contrattammo. Secondo il piano precedentemente stabilito da Amie, lei avrebbe finto di essere insoddisfatta del risultato. Non riuscivamo a comunicare, quindi lui digitava i numeri su una piccola calcolatrice e me li mostrava. Io facevo lo stesso, e alla fine ci accordammo per una somma di gran lunga migliore rispetto a quella del giorno prima.

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Una volta usciti chiesi ad Amie se i nuovi anelli completamente arrotondati fossero di suo gradimento. Avevano un peso maggiore rispetto ai primi e sembravano lavorati a mano. Inoltre, il colore era più intenso. (Costavano il doppio, ma il guadagno per l’orafo sarebbe stato inferiore). Gli anelli di prima erano del tipo che si trova in qualunque gioielleria degli Stati Uniti.

“Li adoro,” rispose. La sincerità le si leggeva in volto. Era emozionata e continuava ad ammirare l’anello.

“Indossiamoli, mettiamoceli al dito.” “Vuoi?”

Fece di sì con la testa. Capì che mi stava accontentando. Per tutto il viaggio c’era stata un’intesa riguardo al fatto che desiderassi il matrimonio più di lei. Era uno di quei taciti accordi di coppia. Avevamo deciso che non avremmo indossato gli anelli finché il suo maestro non ci avesse sposati, sebbene in realtà ci fosse già stata una cerimonia improvvisata, in un tempo di Shiva sulle rive del Gange, a Benares.

In macchina, la mattina successiva, i miei anelli le piacevano. Ma lo stesso non valeva per il suo.

Avevamo entrambi preso del Valium per il viaggio—è ottimo per il mal d’auto, e io lo assumo quotidianamente per l’alcolismo—ma i nostri stomaci erano ancora un po’ nauseati. Ci trovavamo nella catena dell’Himalaya, sopra il livello della vegetazione, tra le rocce e la polvere, e l’autista faceva avanti e indietro e su e giù lungo la strada sconnessa.

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Eravamo in India per un pellegrinaggio buddista da circa due settimane, e stavamo andando al monastero in cui, se le cose fossero andate come previsto, il suo maestro ci avrebbe sposati una seconda volta.

Come me, anche Amie ha una grande passione per gli oggetti costosi. La prima volta mi ero dichiarato per via dell’anello di Barneys—aveva un aspetto così naturale sulla sua mano, ed entrambi vedendolo ci eravamo resi conto di aver capito qualcosa sul nostro futuro insieme—e anche in questo caso c’erano di mezzo gli anelli. Eravamo sposati ma al tempo stesso non lo eravamo, così come eravamo stati fidanzati senza esserci fidanzati, perché non potevo permettermi di comprare l’anello di quella prima volta fuori dal negozio.

La mia seconda proposta era arrivata a un ristorante messicano a Seattle, nella veranda, mentre osservavo il bancone per capire se avrei potuto rimediare qualcosa da bere. Volevo convincerla a prendere dei margarita.

La terza volta mi ero messo in ginocchio sul Broadway Boulevard, a Kansas City, fuori dalla gioielleria dove le avevamo fatto sistemare l’anello della bisnonna. Amie era in imbarazzo e mi aveva intimato di alzarmi. Aveva detto sì tutte e tre le volte, quindi non so perché mi ostinassi a farle la proposta. Penso fosse perché non ero ancora riuscito a procurarmi un vero e proprio anello di fidanzamento.

Amie si addormentò con la testa sul mio grembo. Ci eravamo fermati a mangiare in uno spiazzo a lato della strada. Il bagno era sul retro di una tenda con un letto, un comodino e una lampada—una bellissima tenda, avremmo capito più tardi. Amie insisteva perché cercassimo un antico monastero di Nako famoso per le pitture buddiste, thangka, realizzate al suo interno mille anni prima. Pur senza parlare, l’autista e io avevamo capito che con la tappa al tempio arrivare a Kaza prima del calare della notte sarebbe stato impossibile. Ed era il tipo di strada che nessuno di noi avrebbe voluto affrontare col buio. Così, lui non si girò per capire in quale direzione cercare il tempio, e io non gli picchiettai sulla spalla per ricordargli che avremmo dovuto farlo.

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L’autista suonò il clacson—in montagna lo si fa prima di ogni tornante—e nel percorrere la curva sterzò per schivare un furgone. Amie si tirò su. Batté le ciglia e prese un sorso d’acqua.

“Hai dormito per buona parte del viaggio. Quassù è fantastico.”

C’erano cascate, calotte di ghiaccio e strane formazioni di roccia dalla forma torreggiante simili a cripte per giganti.

“Ero stanca.”

Sia lei che io eravamo esausti, anche dopo la pausa a Shimla e Kalpa. Avevamo continuato a viaggiare e viaggiare, in auto. In più stavamo scrivendo, e non ci eravamo fermati un attimo fin dal nostro arrivo in India. Eravamo freschi di fidanzamento, ed entrambi avevamo smesso di bere un paio di settimane prima. Un problema che ci accomunava era la tendenza a fare tutto in una volta, contemporaneamente. Siamo persone impazienti, impulsive.

“Mi piacciono i tuoi anelli,” disse.

Pensai che il secondo paio di anelli non fosse di suo gradimento. “Non è che il mio non mi piaccia, anzi. Ma i tuoi mi piacciono

moltissimo. Pensi che mi stia bene?”

Distese nuovamente la mano,

“È elegantissimo, Amie. Fa una gran figura sul tuo dito. È per via delle tue dita lunghe e sottili. Guarda.”

“Hai ragione. Oh, non so.”

Credeva stessi cercando di persuaderla.

Non è per gli anelli, pensai. O almeno, per lei lo era, ma non del tutto. Nella sua testa, l’anello e il matrimonio erano legati l’uno all’altro. Nel dodicesimo secolo, molti mistici e intellettuali consideravano il mondo come una completa allegoria. Il messaggio di Dio. Amie può rientrare nella categoria.

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Alla fine riuscimmo quantomeno ad arrivare a Kaza. Avevo proposto di restare qualche giorno più del previsto a Kalpa, dove la nostra stanza d’hotel da chalet svizzero aveva finestre a tutta parete e una vista mozzafiato sulle montagne. Eravamo in ritardo di due giorni, e la nostra camera al Parasol di Kaza era stata occupata da altri. Il Parasol mi aveva colpito per la sua atmosfera amichevole. Ne avevamo bisogno. Kaza era polverosa e metteva paura. I cani giravano per strada abbaiando, e la città era desolata. Sul crinale di una montagna qualcuno aveva scritto Om mani padme hum nella forma di graffiti, con lettere alte più di 30 metri. Era un posto isolato, in semplice cemento, e avevo l’impressione che se mi fossi ammalato mi avrebbero sistemato su un lettino e trasferito in un altro hotel. Quello a cui ci accompagnarono era essenziale e lercio. Persi la pazienza. Era stata Amie a portarmi in India. Era sua, l’idea. Persino il matrimonio a cui aveva acconsentito con riluttanza e che non si era ancora celebrato.

A letto dissi, “Senti. Se mi perdoni per non essere andati a vedere i thangka, io ti perdono il fatto di non apprezzare l’anello.” “Cosa? Non ho mai detto niente sul non apprezzare il mio anello.” “Eh?”

“Hai sentito.”

Bussarono alla porta. Entrò un ragazzo coi quattro tè che avevo ordinato. Gli chiesi se c’era della limonata.

“Col sale, signore?” domandò.

Continuammo a discutere finché non arrivarono le nostre bevande.

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“Dici sempre che non voglio sposarti. Io voglio sposarti, eccome. Ho l’anello. O no?”

“Ce l’hai, ma non ti piace.”

“Non ho mai detto che non mi piace. Sei stato tu a dirlo. Mi piace. Mi ci sto abituando.”

“Oh, bene, sono contento ti ci stia abituando. Ovviamente lo adori.”

Le limonate sapevano di uova marce.

“Nel sale di qui c’è il solfuro,” disse Amie.

“Lo so,” risposi pur non avendone idea. Bevvi rapidamente.

“Cosa vuoi fare?”

“Controllare la mia mail,” rispose. Non lo facevamo da più di una settimana.

Era notte. “Ma ormai sarà chiuso,” continuai.

“Lo dici come se lo sapessi, ma non lo sai. Vado a letto. Faccio una doccia e poi vado a letto.”

“Va bene, ottimo. Buona doccia, Amie.”

Durante la notte ci girammo l’uno verso l’altra e la mattina facemmo pace.

Continua nella pagina successiva.

Il giorno successivo riuscimmo a raggiungere l’area campeggio sottostante il monastero. Ci eravamo arrivati in jeep, di fianco a una donna molto abbronzata con indosso una sorta di toga, i capelli raccolti in lunghe trecce, una borsa di tela e decine di cristalli al collo. Salutava con la mano tutti i tibetani che sorpassavamo lungo la stradina di montagna, sorridendo con una punta di isteria. Sarebbe potuta venire da qualsiasi posto del mondo—se fosse stata un cane avrebbe incarnato il perfetto bastardino—ma Amie pensava fosse francese. Era molto truccata.

“La classica aum-aum,” sussurrai ad Amie. La signora dei cristalli abbassò il finestrino sgolandosi in saluti in tibetano. “È in estasi,” continuai. “È così che mio padre descriveva le persone del genere. Che Dio ce ne scampi. Dimmi che non saranno tutti così.”

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Amie scrollò le spalle. Quando non ha niente di carino da dire tende a non pronunciarsi, a meno che non si tratti di insulti. Perché allora, nella maggior parte dei casi, sputa fuori qualsiasi cosa le giri per la mente. L’ho vista scagliare una sedia contro una donna che l’aveva irritata.

Arrivati, le cose andarono di male in peggio. La nostra tenda deluxe se ne stava in un angolo, ricoperta di polvere. La catena dell’Himalaya si sviluppava tutta intorno a noi; roccia nuda, sabbia e ghiaccio. Il campeggio versava in condizioni critiche, e le strutture stavano a malapena in piedi. Avvicinammo i letti all’interno della tenda e impilammo i bagagli da una parte. Amie era impaziente di andare al tempio, il gomba. Chiedemmo come arrivarci al basso, bello e muscoloso Bishan, la guardia di montagna tibetana. Gli altri occidentali erano già arrivati e saliti al tempio.

“Potreste aspettare domani,” spiegò. “Vi preparo qualcosa da mangiare.”

“No,” rispondemmo.

“Dovreste mangiare qualcosa.” Poi indicò il sentiero per il monastero. “O prendere la strada. Sotto al monastero c’è una scorciatoia, ma è ripida.”

“Preferiamo camminare,” dissi. Amie aveva comprato degli scarponi da trekking da REI, e io avevo trovato degli stivali in offerta da APC. Caddi quattro volte e più di una persona mi disse: “Avresti dovuto comprare degli scarponi come quelli di Amie.”

Dopo mezzora arrivammo al monastero. Ci arrampicammo su un muro per trovarci davanti centinaia di tibetani seduti a terra sotto il sole. Gli altoparlanti diffondevano una voce che leggeva rapidamente testi in tibetano o dzongkha.

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“È il Rinpoche,” disse Amie. (È un titolo onorifico, pronunciato “Rín-po-ce”). Il Rinpoche era colui che dovevamo incontrare. L’unica ragione della nostra presenza in quel luogo. Non saremmo andati fino in India, se il Rinpoche non avesse tenuto un insegnamento di tre settimane al tempio.

“Entriamo, o…?” La porta del tempio era chiusa.

“No. Non so,” rispose Amie. “Perché non restiamo qui?” Ci sedemmo sotto il sole. Un australiano alto di mezza età che

indossava degli aviator con schermi di protezione in pelle ai lati si avvicinò, “Il sole qui può essere letale, sapete. In montagna.” Ero piuttosto irritato. Ci spostammo, e io mi premurai che il sole mi arrivasse in faccia. Avevo bisogno dei raggi sul volto.

Poi la lettura si concluse, e Amie propose, “Vediamo se riusciamo a entrare.” Rimanemmo sugli scalini mentre le porte si aprivano. Mi misi dietro di lei e congiunsi i palmi chinando il capo. Amie fece lo stesso. Notai che guardava oltre le mani. C’era un uomo alto più o meno come me, calvo, sulla cinquantina, di una bellezza insolita. I suoi occhi sembravano vedere qualsiasi cosa su cui li posasse—in quel caso, il sottoscritto—in contrasto col solito osservare mentre il pensiero va ad altro, Sono qui e guardo questo e Dopo mangio un fagottino e I wanna rock your gypsy soul/ Just like way back in the days of old. Era avvolto in una tunica scarlatta, e ci passò accanto sulle scale. Guardò incuriosito prima Amie, poi me, e poi di nuovo Amie, e infine aggrottò le sopracciglia.

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“Era il Rinpoche,” disse dopo che se ne fu andato. “Che voleva dire?” Amie sorrideva, perché era la prima volta che vedeva il suo maestro dopo un anno—era profondamente legata a quell’uomo sin dai suoi 11 anni, come una specie di padre—ma sotto quell’espressione si celavano delusione, sospetto o sollievo. Non capivo quale delle tre. Forse tutte. Si era levata d’impaccio. Ma qualsiasi cosa lui le avesse detto di me, non era positivo.

Qualche notte dopo il nostro arrivo feci un sogno. Chiedevo a un monaco di poter parlare con Rinpoche, e lui rispondeva “Desolato, ma il Rinpoche è molto occupato.” Ripetevo la domanda, ma la risposta era sempre negativa. Chiedendolo una terza volta, spiegavo che mi servivano due minuti soltanto. Poi il Rinpoche era arrivato.

“Vuoi sapere perché non sposerò te e Amie.” Avevo annuito, e lui, “È difficile da spiegare.”

A quel punto avevo detto, “Ok,” facendo per andarmene, ma lui mi aveva fermato. Rivoltosi al suo aiutante gli aveva chiesto se vedeva la sua collana. Parlava della stessa collana della donna in estasi con cui avevamo fatto l’ultima parte del viaggio.

L’aiutante aveva risposto, “Posso andare a prenderla.”

“Non c’è bisogno,” aveva detto il Rinpoche posando lo sguardo sul braccialetto che avevo regalato ad Amie per il suo compleanno, diversi mesi prima. Dal bordo, come denti, sporgevano 14 cristalli di quarzo.

Il Rinpoche aveva spiegato che le persone erano un po’ come il braccialetto. Indicatolo, aveva continuato, “La mia Amie è così.” Si erano illuminati tutti i cristalli, tranne due. “Tu hai acceso soltanto quelli,” aveva detto osservandomi con uno sguardo tranquillo. Se ne era illuminato soltanto qualcuno. “Sto cercando di capire se non sarà troppo difficile per lei.”

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La mattina dopo, quando lo raccontai ad Amie, lei pianse, e poi disse che era soltanto un sogno.

Passarono diversi giorni. Era l’ora di pranzo, e stavamo seduti fuori dal tempio, in un giardino, con le gambe a penzoloni da un grosso muro in pietra. Mangiavamo delle verdure al curry da tazze in ceramica. La donna dalla collana di cristallo, quella che aveva abbassato il finestrino per salutare i tibetani, stava al nostro fianco. Non la vedevamo dal primo giorno. Amie le disse che l’avevo sognata. La donna chiese di sapere i dettagli. Quando glielo raccontai ci disse, “Darò a entrambi un cristallo,” e iniziò a sfilarli dalla sua collana.

Volevamo offrirle qualcosa in cambio. Dopo che se ne fu andata, Amie disse, “Avrei dovuto darle il mio gao.” Il suo gao era un medaglione d’argento della grandezza di un piccolo orologio da tasca, e da quando ci eravamo incontrati non l’avevo mai vista senza. Era pieno di reliquie. Esclamai, “Il tuo GAO? Non puoi darglielo.” Ma, curiosamente, desideravo che lo facesse. Lei esitò, poi insistette. Se lo levò dal collo, io corsi e lo portai alla donna.

Il giorno successivo, il nostro nuovo amico Jimmy, un piacevole biochimico taiwanese con dei jeans costosi, ci chiese di pranzare insieme. Stava al campeggio e si era presentato la prima notte.

“Non riesco più a sopportare di vedervi mangiare dalle tazze,” disse. Ci piaceva perché era divertente, gentile, intelligente e semplice, quindi gli spiegammo che avevamo chiesto al Rinpoche di sposarci. Domandò se poteva darci un regalo. “Me lo porto in tasca da qualche anno ormai.” Era un gao d’oro, punteggiato di diamanti, con cabochon di smeraldo, rubino e zaffiro. Una volta facevo il gioielliere, perciò avevo idea del valore approssimativo, circa 10.000 dollari. Lo misi al collo di Amie.

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Più tardi, nella nostra tenda, incominciammo a litigare.

“Guarda, non sono io ad aver chiesto a Lama Jowo e Lama Godi se dovevamo sposarci,” disse lei. “Siete stati tu e mia madre.” Litigammo anche nella cittadina fuori dal monastero, l’unico luogo in cui facevano da mangiare.

“Credevo ne avessi la certezza. Se nessuno dei due è sicuro, perché lo stiamo facendo?”

Litigammo sul crinale della montagna.

“Non posso credere che il mio destino sia controllato da un uomo che non ho mai incontrato.”

Litigammo nel gompa, tramite foglietti di carta che ci passavamo avanti e indietro.

“Hai chiesto o no a Powo”—uno degli aiutanti del Rinpoche—“di domandare di nuovo al Rinpoche di sposarci?”

Amie aveva scritto una mail al Rinpoche chiedendogli di sposarci, e l’aveva raggiunto attraverso altri due canali. Ma non avevo avuto modo di leggere cosa avesse scritto, e non sapevo quali riserve avesse potuto esprimere. A mio avviso, il fatto che non insistesse come avrei voluto facesse sembrava un’ulteriore prova della sua mancanza di dedizione nei confronti dell’intero progetto. Sapevamo che quello di Benares era stato un finto matrimonio.

Eravamo in India quasi da un mese, e avevo l’impressione che il matrimonio non si sarebbe tenuto. Fatto di maggiore importanza, mi appariva sempre più ovvio come soltanto uno di noi lo volesse. Nei miei due precedenti matrimoni le spose erano entusiaste—insistenti, perfino. Sia la sposa che lo sposo dovrebbero essere entusiasti e insistenti. L’idea era quella. Ora mi sarei sposato per la terza volta, con una donna che non mi voleva sposare, e tramite un lama buddista tibetano che mi ignorava. Anzi, non mi sarei sposato.

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In preghiera nel tempio, raggiunsi un accordo col Rinpoche. Stava seduto su un sedile posto su un rialzo, tra cuscini rossi, intento a leggere un testo buddista del Bhutan risalente al quattordicesimo secolo. Alle sue spalle c’era un’enorme statua d’oro del Buddha.

“Rinpoche,” iniziai—lo pregavo quattro ore per volta, perché non c’era altro da fare e stavamo lì dalle sei del mattino fino alle cinque o le sei di sera—“se ci sposerà, dirò ad Amie tutta la verità.”

In particolare, pensavo a una bugia particolarmente brutta: “Sai di avere una reputazione. Di essere una facile.” Ero ubriaco, quella volta. Subito prima di incontrarla, quando ci sentivamo via messaggio e per telefono, avevo ripreso a bere, e non ricordavo quella frase. Lei me l’aveva ripetuta più volte, ma non mi ero mai corretto. Avevo cercato di sminuirla con quell’atteggiamento codardo che ho nel prendere le distanze da cose che dico o faccio in momenti di blackout. Ma non avevo mai avuto le palle di dirle la verità.

Quel giorno, nel tempio, continuavo a chiedere al Rinpoche: “Cosa devo fare per poterla sposare?” E continuavo a sentire quello che già sapevo: “Non mentire. Non tradire. Non bere.”

Capivo cosa dovevo dirle. Ma non volevo. Quella sera, durante la discesa dal tempio verso il campeggio, sul crinale della montagna dove avevamo ammirato i fiori selvatici e litigato e cercato di farci strada tra il fango e i ruscelli simili a bambini spaventati e impacciati, mentre inciampavo e scivolavo in una dolorosa caduta sul sedere e le mani, sentii una voce nella mia testa, come succede ogni tanto. Cercai di negoziare con la voce, perché Amie e io avevamo ripreso a discutere.

“Non c’è momento peggiore in cui potresti dirglielo,” feci a me stesso. “Aspetta finché non è di nuovo innamorata di te. Adesso è già arrabbiata. Non rincarare la dose.”

“Dovresti dirglielo. Altrimenti non aspettarti niente.”

La bloccai e le dissi che avevo mentito. Le spiegai anche perché gliel’avessi detto. Mi perdonò e restammo lì, abbracciati. Ero ancora sorpreso della mia confessione. Il sole stava scendendo, e arrivati al campeggio era l’ora di andare a letto. Non credo cenammo, e non ricordo se facemmo l’amore.

Le prime notti e mattine nella Valle del Pin lo avevamo fatto così spesso—e impegnandoci per non disturbare—da aver suscitato le lamentele di un amico nella tenda accanto. Ma più stavamo lì, col cattivo cibo, le docce con l’acqua del secchio, gli strani insetti, la polvere e le ore trascorse nel monastero, meno avevamo energie per tutto ciò che non fosse scrivere e discutere.

Poi ci ammalammo. Prima Amie si prese un mal di gola, e in seguito arrivò la febbre. Riusciva a stento a muoversi. Gli altri buddisti del campeggio ci offrirono i loro rimedi hippie: erbe cinesi, cannella di un omeopata australiano, olio di rosmarino. Il responsabile della struttura, Bishan, mi vendette un composto di bacche dell’Himalaya. Lo pagai 20 dollari, una somma piuttosto alta per gli standard indiani.

Amie non faceva che peggiorare. Non poteva alzarsi dalla tenda e doveva urinare in un secchio. Non riusciva a mangiare e andava avanti ad acqua in bottiglia, leggeri antidolorifici indiani e il succo di mela prodotto localmente. Poi mi ammalai anche io. Una notte mi disse, “La tua pelle brucia.” Le chiesi di accompagnarmi al fiume per rinfrescarmi. Andò avanti così per giorni. Gli altri occupanti erano ormai partiti, e noi barcollavamo per il campeggio chiedendo ai dipendenti di Bishan zuppa d’aglio (disponibile), brodo di pollo (non disponibile) e riso (disponibile in abbondanza).

Alla fine Amie ne aveva avuto abbastanza. Mandammo Jimmy dal Rinpoche con un biglietto. Lo scrisse Amie. Diceva: “Rinpoche. Clancy e io siamo malati. Dovremmo restare o andare a Bir? – Amie.” (Bir, nelle alture pedemontane dell’Himalaya, era una delle residenze del Rinpoche, dove lo stesso avrebbe incontrato gli stranieri per impartire loro qualche giorno di lezione in inglese una volta completata la preparazione presso il monastero).

La mattina successiva Jimmy ci chiamò da fuori la tenda. Abbassò la cerniera.

“Come state?”

“Oh, sai, come al solito.” A quel punto tutti credevano avessimo una qualche malattia infettiva. L’omeopata australiano era arrivato alla conclusione si trattasse di malaria.

“Avete risposta dal Rinpoche. Credo siano buone notizie. Dice che dovreste andare a Bir.”

Jimmy ci osservò con timore. Capivo che si aspettava saremmo stati devastati. Amie era rammaricata, ma io mi sentivo estremamente sollevato. A Bir c’erano alberghi. C’erano ristoranti. C’erano internet, minimarket, e caffè. C’era un dottore. Era una cittadina di poche centinaia di persone, ma si trattava pur sempre di civiltà.

Poi Jimmy aggiunse, “Oh, il Rinpoche ha detto anche che al suo arrivo vi sposerà.”

Amie scoppiò in lacrime.

Nel giorno in cui ci sposò, a Bir, il Rinpoche parlò di Shiva (trascrivo dagli appunti di Amie): “Quando Avalokitesvara era un bodhisattva bambino, disse, ‘Che il mio nome possa ispirare le persone. Che possa liberarle.’ Ed è così. In Cina, nel mezzo di un santuario taoista, c’è una sua statua. Alcuni non sono d’accordo con me, ma una delle sue manifestazioni è Shiva.

“Shiva si sedette ai piedi di Buddha e disse, ‘Insegnami qualcosa che non hai mai insegnato ad altri.Quando mi alzerò voglio essere illuminato.’ Buddha disse, ‘Va bene,’ e fece entrare Uma”—la dea futura consorte di Shiva—“e aggiunse, ‘Prima devi innamorarti.’ Perché quando sei innamorato tutto è rosa, e allora sì, sei un veicolo perfetto per il Tantra. Così Shiva si alzò, infilò la luna nella sua crocchia di capelli, si avvolse un cobra intorno al collo e uscì a cercare il suo mercato—come vendersi. E il suo mercato è il desiderio.”

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