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Demented parla da solo

La mia estate è dark

Non è vero che i dark non vanno al mare, basta seguire un po' di regole per rimanere coerenti.

Illustrazione di Simone Tso.

“Andare in vacanza è più facile che tornare”: questa la massima della mia amica Mari, che mi faceva notare di non aver sottolineato quest’aspetto nel precedente articolo. In effetti la frase si adatta perfettamente a questo momento: dopo due giorni di fancazzismo rieccomi qui chino sulla tastiera a sognare spiagge e lune, come direbbe Fiorello. C’è solo un modo per affrontare questa idiosincrasia, ovvero approcciarmi  alla materia come se fossi un dark. No sole, no divertimento, no spiagge. Solo un intensissimo rifiuto del momento ludico, solo pensare a festival autunnali con gente vestita di nero in posti tipo Praga o Transilvania, oppure—meglio—attendere l’inverno e nel frattempo lavorare sodo come Kafka su un romanzo. Eh sì, il movimento sta tornando alla grande. Già da un po’, la strada sembrava spianata dagli ossi duri della scena che non hanno mai gettato la spugna (vedi i Depeche Mode con le dovute misure di genere o i Bauhaus): ci si chiede come sia possibile nel 2013 un ritorno di fiamma così intenso, e soprattutto me lo chiedo io, che considero il movimento finito nel 1993 con i Cranes. Dev’essere la nostalgia, che è la colonna portante del genere. E appunto, nostalgia per nostalgia: riecco le vacanze dark.

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Facciamo un salto autobiografico: in gioventù fui dark, almeno diciamo dal 1987, dai 12 anni in poi. Mi sentivo i Cure, Siouxsie, Joy Division, Mission e compagnia cantante. Ero orgoglioso di essere “diverso”, mi sentivo pure sfigato, ma con orgoglio; non mi piaceva la discoteca né mischiarmi con la gente di quel tipo. Ero più da cameretta romantica e da “che schifo 'sto mondo”. Insomma, preferivo traccheggiare con chitarre e tastiere e leggere libri leggerissimi tipo La peste di Camus piuttosto che fare altro.

Poi però l’estate: siamo sicuri che per il dark sia solo “no a questo no a quello tristezza dolore”? Qui scatta il cortocircuito. Nelle cuffie avevo Nocturne, certo, ma me ne andavo al mare eccome. Mi facevo giri in bicicletta a rullo, mi piaceva spizzare le ragazzette e provarci. A volte con il figlio della mia tata—molto più grande di me, e con una golf decappottabile—sfrecciavamo come due coatti con A MAZZETTA “A strange day”, manco fosse “Gangnam style”. Sulle spiagge lo stabilimento è il luogo giusto per il dark, si mantiene una certa classe: in quelle libere i bambini napoletani ti tirano i palloni. Vuoi mettere invece una situazione in cui—occhiali da sole addosso  e pallore scenico—ti fai giudice del bene e del male? Non ha prezzo, e poi tanto mica paghi te, c’hai ancora 12 anni.

In sostanza sì, ok, siamo dark ma fino ad un certo punto. Le regole per rimanere “coerenti” erano:

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1 – stare sotto l’ombrellone tutto il tempo o scendere in spiaggia quando il sole scende pure lui, quindi per le sei di pomeriggio;

2 – socialità sì ma col contagocce, solo previa selezione e principalmente col gatto, che spulciavo praticamente 24 ore su 24. Se fossi stato punk avrei avuto un topo e non sarebbe cambiata l’attitudine;

3 – mantenere comunque un approccio critico e criptico con qualsiasi cosa, al limite del cacacazzismo, al limite del “so tutto io voi non potete capire.” Ti diverti? E no allora sei ‘na merda, devi essere triste come me. Insomma ci si fa una corazza fasulla quando invece alla fine ti piace divertirti ma detesti ammetterlo;

4 – indossare il più possibile magliette nere, tanto da sembrare “un pezzo di liquirizia ciucciato” (per citare un famoso sketch di Enzo Braschi in Drive In);

5 – essere tristi per non riuscire a socializzare ma allo stesso tempo esserne fieri: diciamo “Happiness in slavery” per citare i primi NIN.

Anche con le ragazze appunto: l’istanza neoromantica e autolesionista impediva un approccio normale, e infatti non a caso molti dark si ammazzavano e ancora si ammazzano di pippe. Nel mio caso il problema era mio fratellino, che mandavano sempre a rompere le uova nel paniere nel momento dell’approccio. Poi vabe’ ero minorenne, la tizia ancor più di me, mi cacavo pure in mano, e oltre la limonata e il petting spinto non si andava. Ma era estate, gli ormoni non hanno moda. Attenzione però, gli approcci erano con ragazze non dark: spesso le darkettone nascondevano delle sorpresine. Trucchi bistrati e poi una volta giù di latte detergente lo spavento: se vogliamo la finzione pura. E poi trovarle mica era facile—stavano tutte nel mood come il tuo, difficile che uscissero dai rubinetti del lavandino per farti visita.

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E infatti poi, per saturazione di questo atteggiamento, arrivò l’industrial: lì se poteva scopà, ubriacarsi e fare diciamo lo schifo. Era una sorta di autodistruzione dark ma col piglio del caciarone, sicuramente una cosa più reattiva. Inutile dire che ci siamo subito spostati verso quella zona là. Meno male. E poi il noise con la sua corporalità massiccia ha fatto il resto.

Devo dire che però ho sempre seguito la corrente dark psichedelica, nello specifico quella riassunta dai The Glove—genere che ancora non ha grossi eredi e sul quale probabilmente torneremo in futuro—per cui in qualche modo ero salvo da estremismi (infatti ho sempre ascoltato di tutto). Anzi, per un po’ non facevo altro che indossare camicie colorate paisley o roba da cazzotto in faccia: però per me era comunque vestirsi dark, e poi d’estate ci stava benissimo.

Tanti pensano che il dark sia di destra, e in effetti in molti casi lo era. Se ci pensate all’epoca d’oro i punk andavano nelle discoteche dark per menare le mani. C’era tutta ‘sta faccenda del nero che in alcuni casi creava equivoci, poi appunto il piglio triste del dark cozzava col punk operaio in maniera indiscutibile. Per capirsi: il luogo comune era che i punk andavano al mare a Ostia, i dark a Capri. In queste ideali località si andava in discoteche rock, poi però se il pezzo in arrivo non era dark o almeno new wave saliva il mutismo e la presa a male e quindi lo stare all’angoletto. Certe volte in piazza si vedevano concerti wave di giovanotti coraggiosi in cui il totale degli spettatori era tre ma si diceva “GRANDI, SIAMO IN TRE. GRANDE SUCCESSO.” La mentalità del dark è un po’ strana, si creano dei miti a caso. Poi c’è questa grande confusione a livello di termini, sottogeneri ecc. ecc., una ramificazione che in un certo senso nasce dal secchionismo tipico del darkwaver medio: usare trecento termini per indicare una cosa sola. Per paragonarlo al discorso estivo, immaginate un dark alle prese con un gelataio, che cerca i gusti cioccolato in maniera maniacale invece di accontentarsi del classico. A costoro consiglio il Nutella Ice, che più dark non si può e che indubbiamente è la sintesi di ogni sottogenere.

In effetti tutto ‘sto successo delle varie Zola Jesus, le ultime uscite su Sacred Bones (i Var), le nuove band italiane in odor di  filologia mi fanno un po’ specie: voglio dire, siamo in un’epoca in cui il dark è stato oramai mangiucchiato dai vari sottogeneri—vedi lo shoegaze, l’horror punk, la witchouse e via dicendo. Ritirarlo fuori dalla tomba sembra come la risurrezione della mummia egizia in Bubba ho tep.

Ma alla fine oh, se l’estate 2013 deve essere nera, che sia. Almeno c’è un po’ di coerenza emotiva: ora non ci stanno i soldi e non si va da nessuna parte, mentre agli albori del dark eravamo in pieno boom craxiano e incredibilmente non ci andava bene uguale. Ora non c’è futuro, le città di mare in pieno luglio sono inspiegabilmente deserte e spettrali, allora viva il passato. Però ecco, non credete alle fregnacce di NME quando recensisce certi dischi: molti giornalisti hanno tutti meno di trent’anni e probabilmente, nonostante ciò, vanno al mare con il costume intero dannunziano.

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Settimana scorsa: Le vacanze dementi