Le parole di un condannato a morte a 20 giorni dalla sua esecuzione

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Le parole di un condannato a morte a 20 giorni dalla sua esecuzione

"Dopo che hanno fissato la data sono cominciate ad arrivare le lettere. E quante ne sono arrivate! Sono tutti in pensiero per la mia anima."

Questo articolo è stato pubblicato da VICE US in collaborazione col Marshall Project. Kenneth Williams è uno degli otto detenuti dell'Arkansas che nel corso di aprile subiranno un'esecuzione.


Un ordine di esecuzione non è una cosa che capita tutti i giorni, figuriamoci essere il destinatario di quell'ordine.

Ricordo che il direttore ha intimato agli agenti della sicurezza di scortarci in manette, uno alla volta, dalle nostre celle a un piccolo ufficio. Nell'ufficio c'erano molti agenti. Il direttore del carcere ha letto gli ordini di esecuzione, completi dei nostri nomi, i nostri reati e il verdetto della giuria.

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Poi è calato il silenzio. La mia mente è rimasta pressoché inalterata. Avevo già passato un momento simile, e quella volta l'esecuzione era stata sospesa. Ero in un certo qual modo calmo, perché sapevo che non ero solo, che c'erano altre sette persone—anche se, visto il bene che voglio agli altri ragazzi, avrei preferito essere da solo.

Mi hanno consegnato l'ordine di esecuzione, un foglio di carta insolitamente lungo con su il sigillo dello Stato dell'Arkansas. In fondo portava la firma del governatore Asa Hutchinson.

La morte era un passo più vicina. Tic, tac.


Quando ti viene assegnato un ordine di esecuzione vorresti essere il primo a dirlo alla tua famiglia. Ma a volte la stampa ci arriva prima. Mentre il giorno X si avvicina, in quanto detenuto sai che la parte più difficile è sapere di aver condannato i tuoi cari a un destino piuttosto amaro. Tu te ne vai; loro resteranno e dovranno tirare avanti.

Devo riuscire a perdonare me stesso. Solo allora potrò scrivere a mia figlia, mia figlia di 21 anni, per darle la notizia. Presto raggiungerò sua madre nell'aldilà, lasciandola orfana. Il solo scrivere la lettera mi crea abbastanza dolore da voler fare qualcosa al boia prima che sia lui a farlo a me. Al tempo stesso, la pace interiore che ho trovato attraverso il mio rapporto con Gesù Cristo mi sostiene.


Dopo che hanno fissato la data dell'esecuzione sono cominciate ad arrivare le lettere. E quante ne sono arrivate! Non ne avevo mai ricevute così tante, sono tutti in pensiero per la mia anima. Hai trovato Dio? Hai accettato Gesù come Signore tuo? Senza pentimento andrai all'inferno.

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Sono lettere di tutti i tipi: scritte a mano, col computer, cartoline, libri.

Finiscono quasi tutte nel cestino. Dove sono stati in tutti questi anni, quando ero un condannato a morte, quando avrei potuto aprirmi a ciò che offrivano? Per me, sono tutti opportunisti a cui importa soltanto potersi vantare di aver provato a salvare la mia anima.

Arrivato a questo punto uno ha già fatto pace con Dio, o non la farà mai.


Alcuni detenuti hanno scelto di non chiedere la grazia, consapevoli che di solito il consiglio non ne concede. Hanno preferito risparmiarsi la delusione.

Io invece ci ho visto un barlume di possibilità. Volevo comparire davanti al consiglio e dimostrare che non sono più l'uomo di prima. Dio mi ha cambiato; anche il peggiore di tutti può essere corretto e riformato. Arrivare a queste considerazioni è stato più significativo che ricevere la grazia. Morirò lo stesso—ma farlo per Dio, quella la considero una mia vittoria.

Alle famiglie delle mie vittime, a cui ho arrecato dolore, privazione e sofferenze, per quanto possa suonare superficiale "mi spiace avervi privati della persona che amavate" preferisco dirlo, e dirlo sinceramente, che non dire nulla.


Mi è stato chiesto se ho mai avuto intenzione di farmi del male da solo.

L'ho trovata un'offesa—l'idea è di braccare eventuali persone che vorrebbero togliersi la vita prima che sia lo stato a farlo. Non vogliono farsi soffiare il posto.

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Una volta che la data è ufficiale, i prigionieri diventati tuoi amici iniziano a fare le loro richieste: Lascia a me le tue scarpe da tennis. Lascia a me l'orologio. Lascia a me la radio. Il malcapitato si sente tirato per i vestiti e spogliato. Le cose che non vuole lasciare agli altri prigionieri, cose come foto di famiglia o vecchie lettere, possono essere spedite a casa in una scatola poco prima che lui stesso sia spedito a casa in una scatola.


Oggi un agente si è presentato all'ingresso della cella e mi ha chiesto, "Kenneth, allora? Come va?" Poi mi ha chiesto, "Che taglia porti? Che numero hai di piede? Quanto sei alto? Quanto pesi?"

Come l'agnello soppesato prima di essere sacrificato. Ho pensato: Si sono dimenticati che sono un essere umano, o non gli interessa? Poi ho pensato: Non è stato forse il mio disprezzo per la vita umana ad avermi fatto finire qui?


So che il midazolam, che è uno dei farmaci usati nell'esecuzione, non riesce sempre ad anestetizzarti completamente. Sarò uno degli ultimi a essere eseguito, e ci sono persone convinte che se una delle prime esecuzioni dovesse andare male io potrei beneficiarne. Ma non voglio sopravvivere perché qualcun altro soffre fino a quel punto. L'idea di qualcuno che soffre per farmi vivere una certa quantità di tempo in più… non regge, non se ho imparato a dare valore alle vite altrui.

Kenneth Williams è stato condannato a morte per l'omicidio di Cecil Boren, avvenuto durante un tentativo di fuga dalla prigione di massima sicurezza di Grady, in Arkansas, dove Williams stava scontando l'ergastolo per l'omicidio della studentessa universitaria Dominique Hurd. Williams ha successivamente confessato un terzo omicidio, e ne ha causato un quarto nel corso di un incidente durante la sua fuga.

I passaggi qui riportati sono frutto della corrispondenza tra Williams e Deborah Robinson, che sta lavorando a un libro su questi otto condannati a morte dell'Arkansas.