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E J.J. Abrams emise un lens flare

Non parliamo di Star Wars, ma di quella rielaborazione de L'Ira di Khan realizzata da secchioni affidabili. Ovvero, molto semplicemente, Star Trek Into Darkness.

Questo post appartiene alla nostra serie sul meglio del catalogo SKY Online.

La stanza pullulava di forme di vita e civiltà. Le luci colorate del karaoke rimbalzavano su tutte le superfici riflettenti. Lui lo aveva visto che entrava dall'uscita di servizio, con il berretto calcato sugli occhiali. Sembrava avere dimenticato tutta l'autostima fuori dal locale. Esitava ad avvicinarsi.

J.J. si fece avanti per primo.

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“L'ho letta, sai?”

“Uh, eh?” Ridacchiò Damon, mescolando un finto stupore a una sfumatura di sincera sorpresa.

“La tua nuova sceneggiatura.”

“Quella con…”

“Quella con l'inizio…”

“In medias res!” Risero entrambi, in maniera un po' troppo prolungata, non sapendo più cosa aggiungere. Damon arrossì.

“Voglio che tu scriva per me, Damon. Voglio dire… Di nuovo.”

“Come quando…?”

“Come quando erano tutti morti in Lost,” dissero all'unisono. Seguì un momento di silenzio.

J.J. gli prese la mano tra le sue.

“Scrivimi qualcosa come quella volta che l'Ingegnere di una specie aliena ultraavanzata beveva una sostanza pur essendo consapevole che l'avrebbe fatto morire agonizzando. Scrivimi qualcosa di caldo e rassicurante come quella scena di Brad Pitt che fa colazione con la famiglia. Scrivi, come solo tu sai fare.”

“Ok, ok!” replicò Damon, alle strette.

A quel punto J.J. sospirò, lo prese tra le braccia, ed emise un lens flare.

In foto: “Stavamo tutti aspettando l'inizio di questo articolo”

Anche: un lens flare

È semplice incolpare Damon Lindelof di tutti i peccati della sceneggiatura moderna, ed è vero che Lindelof non ha migliorato World War Z, ahimè, ha scritto Prometheus (nel suo momento più ispirato, ha scritto Cowboys & Aliens). La realtà è che, sì, nonostante prenda lavori da tutti, Lindelof sembra un omino del muto che scivola su una buccia di banana in loop, per l'eternità. Sorride sempre, nelle foto, eppure, nascosta nel suo sorriso c'è la melancolia di un persistente “Ho controllato in tutte le tasche: dove sono le chiavi della macchina?”

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Però Lindelof è salito su un—scusate: scusate—veicolo spaziale ben avviato, con Alex Kurtzman e Roberto Orci (già collaboratori di J.J. Abrams dai tempi di Alias). Il primo reboot di Star Trek funzionava benissimo perché Abrams, da fanboy ben rodato, aveva trovato una formula adattissima sia ai fan della serie sia agli appassionati di altra fantascienza/action, sia a chi volesse vedere magliette attillate riempite bene. Lo stesso discorso vale per Into Darkness: in un certo senso, lo Star Trek cominciato nel 2009 è il primo della classe di tutti i reboot, perché conosce a menadito il materiale di partenza, tanto da potercisi destreggiare dando liberamente gomitatine alla serie originale; i suoi protagonisti sono scritti e interpretati benissimo (in particolare: da Zachary Quinto, John Cho, e Chris Pine), e abbastanza fedeli all'originale da potersi permettere di essere esagerati nella propria caratterizzazione. “Per forza,” direte voi “anni di serie tv e di film sono sufficienti perché un personaggio abbia vita propria.” Vero; tuttavia gli attori si appropriano dei personaggi senza tutta quella reverenza (unita al terrore che i fan di Star Trek: TOS gli spezzino tutte le ossa che hanno in corpo) che ci si aspetterebbe.

Questo, perché hanno fatto i compiti. E perché Abrams rimescola il risultato con il proprio stile, caratterizzato in primis da bromance selvagge e riflessi nell'obiettivo.

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E ora, un intermezzo offertoci dal Capitano Kirk.

Com'è, questo Into Darkness? Into Darkness è un film con un inizio anomalo (comincia nel mezzo dell'azione, e allo spettatore viene richiesta la massima attenzione e/o un atto di fede nel ricostruire gli eventi precedenti all'inizio del film) e una seconda parte molto più ordinaria; le due parti sono divise dall'apparizione di quello che mi piace pensare sia Robin Williams criogenizzato.

Into Darkness è una rielaborazione de L'Ira di Khan realizzata da secchioni affidabili. Come ci si poteva aspettare, funziona. Funziona persino con un cattivo come Benedict Cumberbatch, in una sua consueta interpretazione di temibile britannico con l'accento britannico.

Funziona nelle interazioni Kirk-Spock più che nelle scene di azione, e funziona soprattutto quando Simon Pegg non compare sullo schermo. Funziona eccellentemente, come una macchina precisissima, e funziona così anche in virtù del fatto che il precedente Star Trek aveva già stabilito il tono della potenziale trilogia.

E per tornare a Lindelof: probabilmente è lui, il responsabile di Robin Williams. Ma se non altro si può dire che per una volta non ha scagliato una maledizione sul film.

Come si diceva.