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Ho passato un anno a farmi sfruttare in uno squallido call center canadese

Quando hai 21 anni e sei senza un soldo, puoi fare delle scelte infelici. Come finire a lavorare 12 ore al giorno in un call center di pianificazione finanziaria per ottenere un visto lavorativo (e guadagnare quasi niente).

Illustrazioni di  Alex Schubert

Nessuno vuole trascorrere 12 ore al giorno a chiamare gente a caso nella speranza di farsi dare dei soldi. O almeno, io non volevo. Ma stavo cercando un modo per rimanere in Québec dopo essermi laureata, nel 2004, e per ottenere il premesso di lavoro di un anno avrei dovuto trovare un impiego in un settore legato ai miei studi entro 90 giorni. Mi sono laureata in cinema, e trovare lavoro in un settore così competitivo in così poco tempo, soprattutto in una provincia francofona, sembrava un'impresa impossibile. Così ho deciso di sfruttare la mia laurea triennale in marketing e ho trovato subito un’azienda di pianificazione finanziaria desiderosa di assumermi come “consulente finanziaria junior.” Loro avrebbero inviato una lettera al Dipartimento Cittadinanza e Immigrazione, io sarei stata assunta e avrei avuto la possibilità di restare a Montreal col mio ragazzo. Non sembrava terribile.

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La mia capa (che chiamerò Karen) era una “consulente senior” e in una stanza gigante dirigeva me e altre 60 persone—per lo più altri giovani immigrati appena usciti dall'università la cui situazione era probabilmente simile alla mia. Ci era stato detto di effettuare telefonate dalle nove di mattina alle nove di sera, dal lunedì al sabato, per 60 ore a settimana. Saremmo stati pagati esclusivamente a percentuale. Naturalmente quasi tutti riagganciavano; quelli che non lo facevano venivano invitati a venire in ufficio per un colloquio non vincolante. L’obiettivo era convincere la gente ad investire dei soldi nella compagnia; se ci fossimo riusciti, avremmo ottenuto una percentuale.

Ci insegnavano ad essere aggressivi e infaticabili. Il capo aveva tolto il microonde dalla cucina dicendo che portarsi il cibo da casa era da sfigati. Eravamo incoraggiati a mangiare fuori e spendere soldi, perché se ci fossimo comportati da ricchi, un giorno lo saremmo diventati. Se la cosa vi sembra folle, non avete mai trascorso le giornate a farvi riattaccare il telefono in faccia da degli sconosciuti infastiditi. Non tornavo mai a casa prima delle 11 di sera, e a quel punto, troppo distrutta per mangiar fuori, mi abbuffavo degli avanzi di cibo del mio ragazzo. Pensavo che in un anno mi sarei comprata una Porsche come i miei capi—dovevo solo lavorare sodo e mi sarei tolta tutti i debiti, e forse avrei persino saldato in anticipo il prestito studentesco.

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Mia madre era morta l’anno prima, mio padre era stato licenziato quasi nello stesso periodo e mio fratello si stava preparando per l'ammissione all'università, quindi la situazione finanziaria della mia famiglia era piuttosto difficile. Nonostante mi stessi dando da fare, mio padre era scettico sul mio nuovo lavoretto e le sue prospettive (com’era giusto che fosse). Mi diceva che sembrava una cosa instabile e losca. Non riusciva a capire perché non me ne tornassi semplicemente nel Vermont, dove sono cresciuta, e non mi trovassi un lavoro “vero”. Quanto a me, credevo che sarei riuscita non solo a mantenermi ma anche ad aiutare la mia famiglia.

Ehab, un ragazzo egiziano che lavorava lì con me, ricorda come me la stessa cultura logorante e consumista dell'azienda. “Ai nuovi assunti veniva regalato un sogno, che includeva la visita al garage per dare un’occhiata alle auto di lusso (ma prese a noleggio) dei colleghi più vecchi," mi ha detto. “Quando sei l'ultimo arrivato vieni sfruttato in ogni modo, con la giustificazione dell' 'inesperienza'.” Anche per Ehab quella è stata l’esperienza lavorativa più agghiacciante della sua vita, “un vero esempio di struttura piramidale, in cui ogni anello della catena aveva il suo ruolo. Chiunque se ne andava via veniva deriso e considerato un incapace.” Ma la fine degli incapaci l'abbiamo fatta tutti, ovviamente—il call center è un incubo in cui fallisci, sempre e comunque, nel vendere qualsiasi cosa. A volte fai 300 telefonate e ti vanno tutte male.

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Secondo Ehab, quell'ambiente era una specie “versione reale del film 1 chilometro da Wall Street.” Ci sentivamo proprio come se fossimo alla base di un sistema piramidale. E lavoravamo letteralmente in un edificio a piramide. L’unica differenza era che nel nostro lavoro non c'era niente di illegale: i titoli e le obbligazioni che vendevamo erano veri (in effetti erano un tipo di investimento abbastanza stabile e sicuro). Non stavamo fregando nessuno.

D’altra parte, però, ci stavamo fregando da soli. In 1 chilometro da Wall Street i protagonisti diventano ricchi; io quell’anno ho guadagnato 6.500 dollari, che è più o meno quello che guadagnavano tutti. Maggie, una mia collega cinese, ha guadagnato anche meno. Quando mi sono rimessa in contatto con lei, mi ha detto che quel lavoro è stato “il momento peggiore della mia vita. Tanto tempo, zero soldi, zero soddisfazioni.” Anche lei, come me, l'aveva fatto perché aveva bisogno del visto lavorativo per rimanere in Canada.

Devo dire che nel mio lavoro non ero poi così male. Durante le prime settimane, un tizio a cui avevo telefonato ha trasferito una grande somma di titoli alla compagnia, e io ho ricevuto una bella commissione. In seguito non è più successo, ma allora non potevo saperlo. Ho speso almeno la metà dei soldi per comprare un laptop e degli abiti eleganti richiesti per fare quel lavoro; ho anche sprecato 300 dollari per un taglio di capelli che mi desse un aspetto “professionale”. Credevo che quegli assegni sarebbero stati la normalità anche nei mesi a venire.

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Spesso accalappiavo clienti che sembravano interessati a investire. Ma quando succedeva, prima del meeting in cui avrei dovuto chiudere l’affare, Karen mi diceva che non ci sarei dovuta andare. Sembravo troppo giovane, diceva, sarei stata solo una distrazione. Ogni volta che venivo esclusa da questi meeting, Karen tornava dicendomi che la persona non aveva firmato, quindi niente percentuale per me. Ho iniziato a sospettare che Karen mi mentisse e trattenessero la mia parte.

Nel frattempo, le giornate lavorative da 12 ore (che alla fine erano più da 14 e mezzo, visto che facevo la pendolare) stavano logorando la relazione col mio ragazzo—lui si comportava male, e una notte una discussione è sfociata in violenza fisica. Era una di quelle cose che mi ero ripromessa di non tollerare mai in una relazione, ma malgrado tutto sono rimasta con lui e ho continuato col mio lavoro per restare in Canada. Ero molto infelice, ma nessuno mi costringeva a restare in quella situazione. Tutto quello che dovevo fare era mollare lavoro e ragazzo e prendere un autobus per il Vermont, dove mi sarebbe stato più semplice trovare un lavoro che mi pagasse con veri soldi e non con vaghe promesse di percentuali. Ma non l’ho fatto. Ripensandoci, credo pensassi di meritare quel trattamento.

Sono rimasta nella compagnia di pianificazione finanziaria fino allo scadere del mio permesso di lavoro, dopodiché sono tornata nel Vermont, come avrei dovuto fare molto prima. Qualche anno dopo ho ricevuto una email da Karen che mi scriveva di aver ricevuto un controllo finanziario e voleva che firmassi un documento in cui dichiaravo di aver ricevuto 30.000 dollari. L’ho mandata a quel paese.

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Mentre scrivevo questo pezzo e ripensavo a quell’episodio assurdo della mia vita, comunque, mi è sembrato che l'azienda stesse facendo qualcosa di seriamente illegale. Ho chiamato Julie Taub, avvocato dell’Ontario specializzata in immigrazione, che mi ha detto che la cosa “aveva l'aspetto di una truffa,” visto che Karen dichiarava allo stato di pagare uno stipendio ai dipendenti, mentre in realtà li pagava a commissione. Taub ha aggiunto che era sospetto anche il fatto che la compagnia sembrasse preferire immigrati e giovani che non si rendevano conto di essere sfruttati.

Ho anche telefonato all'azienda per cui lavoravo e ho detto che volevo avere qualche informazione in più riguardo al periodo in cui ero stata loro dipendente. L’ufficio amministrativo mi ha detto che io, tecnicamente, non avevo mai davvero lavorato lì. Ero una specie di sottoposta di Karen, che, dicevano, non aveva agito in modo corretto ed era stata licenziata. Ho chiamato Karen al suo nuovo lavoro e le ho lasciato un messaggio. Suo marito mi ha richiamata per contraddire quanto detto dall'azienda: stando a lui, tecnicamente non avevo lavorato per Karen. Tra l’altro, ha sostenuto che fossi stata pagata 30.000 dollari e che mi fossi dimenticata di aver ricevuto quei soldi (perché avessi dovuto mentire, non era chiaro). Ha aggiunto che se avessi scritto qualcosa di negativo su sua moglie mi avrebbe “fatta a pezzi.”

Ma io non voglio accusare nessuno di nessun crimine specifico—ne è passata di acqua sotto i ponti, e non voglio essere coinvolta in nessuna battaglia legale con una come Karen. Questa non è un’arringa, è un pezzo che racconta un'esperienza personale. E se proprio in questo momento state lavorando in un call center in qualche ufficio miserabile, state attenti.

Gina Tron è feature editor per la rivista Ladygunn. Sta scrivendo un libro. Seguila su Twitter: @_GinaTron.

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