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Cibo

Il comfort food di Gaza è la salsa piccante shatta

Nonostante i conflitti e i razionamenti, la shatta mantiene alto il suo status di comfort food identitario.
Tutte le foto sono dell'autrice.

Vi basterà chiedere a un qualsiasi palestinese di Gaza cosa definisca l’essenza di un abitante della città per sentire in tutta risposta “(anche) l’amore per i cibi speziati.” Quella per la piccantezza è una passione squisitamente tipica di Gaza, raramente condivisa (o almeno, non così fortemente) dal resto delle comunità di questa zona del Mediterraneo. Chiunque abbia la fortuna di poter sperimentare la cucina tipica della città, comunque, capisce subito perché l’amore per le spezie sia così incondizionato.

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E qui bisogna però anteporre una premessa alla premessa: il punto focale dell’amore per le spezie e il piccante di Gaza gira attorno a uno specifico peperoncino in polvere trasformato in salsa, in arabo shatta, le cui radici sono intrinsecamente radicate alla storia del commercio fra il Medio Oriente e l’Africa. Vie commerciali a parte, la shatta riflette la propria influenza anche nella contemporaneità del Paese, ergendosi a portavoce di un’identità culinaria reclamata a gran voce soprattutto dopo la nascita dello Stato d’Israele nel 1948 (un avvenimento conosciuto dai palestinesi come “Nakba”, che letteralmente significa “disastro”). Negli ultimi dieci anni, complici i blocchi e i razionamenti causati dalle tensioni fra Israele ed Egitto, pochi beni alimentari possono entrare o uscire da Gaza, a eccezione della shatta, che ora riveste persino il compito di “ricordo dei tempi migliori”.

“Si tratta di una costante nelle nostre tavole,” rivela Joudie Kalla, chef palestinese ora residente a Londra e autrice di un libro di cucina. “Ogni famiglia ha la propria ricetta, e ogni ricetta si basa su ingredienti tipici della nostra terra. Io ad esempio in casa ho sempre della shatta, non sto mai senza. Ne ho bisogno per tutto!”.

Secondo Kalla la shatta è “l’equivalente palestinese della sriracha,” la salsa chili thailandese ormai conosciutissima ovunque. La Shatta, un po’ come Gaza, “è fresca, speziata e ‘vivace’,” continua Kalla.

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cucina palestinese

Nonostante la vivacità descritta dalla chef, la situazione a Gaza, al momento, non è delle più rosee. Anzi, potremmo proprio definirla come un “incubo senza fine” per i suoi residenti. L'organizzazione terroristica di Hamas esercita su Gaza il suo governo di natura repressiva dal 2007, a seguito della cosiddetta Battaglia di Gaza. Le tensioni, per tutta quella fascia di terra, si sono inasprite con le campagne militari iniziate nel 2014 dalle forze di Difesa Israeliane, che da allora hanno mantenuto un controllo serrato sul territorio.

Come se non bastasse, Hamas e le Autorità Palestinesi sono nel mezzo di ulteriori scontri, esplosi ancora di più l’estate scorsa quando, grazie anche al supporto d’Israele, le ultime hanno cercato di cacciare via Hamas tagliando qualsiasi tipo di fondi. Le conseguenze, come facilmente immaginabile, si sono riversate su di una popolazione già debilitata da carestie e penurie generali d’acqua potabile, medicinali ed elettricità. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata recentemente versata dal Presidente Donald Trump, la cui decisione di tagliare i fondi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Profughi Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) ha ulteriormente indebolito gli abitanti della città (1,3 su 1,9 milioni di residenti a Gaza facevano affidamento all’agenzia per il soccorso per i rifornimenti di cibo).

L'azienda agricola in cui Hesham Zakaria, trentatreenne, si occupa di peperoncini, è avvolta in una sorta di caos calmo (per quanto tranquilla la fattoria, gli echi della guerra non cessano mai di farsi sentire). Padre di sei bambini, Zakaria lavora a Beit Hanoun, lungo la zona cuscinetto settentrionale di Gaza. Lì i terreni sono di proprietà di tre famiglie, e i contadini come lui conoscono ogni angolo di quei campi a menadito. La chiave dei raccolti, mi spiega Zakaria, è da ritrovarsi nella pazienza che ogni singolo contadino e agricoltore ripone nella coltivazione delle proprie piante, e che ripaga le fatiche regalando a tutti varietà di peperoncino uniche e inimitabili. Mentre la maggior parte dei contadini raccoglie i peperoncini quando sono ancora relativamente piccoli, a Gaza aspettano siano belli maturi e rossi prima di poter anche solo pensare di farlo.

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Zakaria mi racconta poi di come, sempre in quella zona e prima dei bombardamenti israeliani del 2008, i campi fossero destinati alla coltivazione di agrumi, ora messi da parte in favore di verdure (peperoncini inclusi). Oltre alle coltivazioni, quel terreno racconta la storia della guerra, perché basta scavare un po’ in un qualsiasi punto per trovare i vecchi tunnel sotterranei utilizzati dai palestinesi per comprare semi e fertilizzanti (che ora devono necessariamente acquistare da Israele, che ha cercato di distruggere i tunnel durante l’ultimo conflitto), e da Hamas per svolgere attività di contrabbando con l’Egitto. Zakaria stesso porta su di sé i segni delle guerre, soprattutto dopo essere stato ferito da una bomba precipitata su casa sua. “Siamo qui, intrappolati nel mezzo di tutto,” ricorda.

peperoncino

Di tutti questi anni di guerra, chiaramente, a pagare le conseguenze è stata la popolazione palestinese, anche in termini di cucina. Nonostante tutto, comunque, le spezie e la piccantezza sono rimaste parte fondate dell’identità gastronomica della popolazione, seppur dovendosi adattare alle circostanze. L’olio d’oliva e il latte fresco, per esempio, sono due ingredienti difficili da reperire adesso, ma gli abitanti di Gaza sono riusciti a sostituirli con dei più economici olio di soia e latte in polvere, ricevuti grazie agli aiuti umanitari dell’UNRWA (come annota Laila El Haddad nel suo libro The Gaza Kitchen).

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E sebbene le difficoltà si sentano quotidianamente, la richiesta di cibi speziati e piccanti non è calata, come rivela Mohamed Omar Abul Haleema, dipendente di un’azienda che distribuisce semi e fertilizzanti nel nord di Gaza.

“Per capire se qualcuno è originario di Gaza [e quindi non un rifugiato] è necessario capire se gli piaccia o meno la shatta,” continua Abdul. La sua famiglia è originaria della città ma lui, paradossalmente, ha ammesso di non amare alla follia questa salsa, sebbene in molti ne decantino i benefici per la salute. Comunque sia, il giovane ventenne è troppo impegnato a creare una sua versione geneticamente modificata dei semi, così da non doverne comprare annualmente da Israele. Per ora i suoi esperimenti riguardano pomodori e patate, prossimamente cercherà di mescolare insieme le proprietà di anguria e peperoncino. Nel frattempo il mercato storico di Gaza, lo Al-Zawiya, è pieno di contenitori di salsa piccante. C’è chi la compra già fatta, ma c’è anche chi compra i peperoncini e la prepara a casa. Dopotutto la ricetta è semplice: basta macinare dei peperoncini e poi condirli con un sacco di sale. Infine si aggiunge un po’ di limone, dell’aglio o dell’olio, si lascia riposare il tutto per 10 giorni et voilà, la shatta è pronta.

Ed è qui per restare.

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Quest'articolo è originariamente apparso su US.