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Abbiamo chiesto a un esperto quanto è seria la minaccia del jihadismo in Italia

Nell'ultimo periodo il dibattito sul pericolo jihadista in Italia è tornato al centro dell'attenzione. Ho chiamato il ricercatore Lorenzo Vidino per capire quanto la minaccia sia effettivamente concreta e come sia cambiato il jihadismo in Italia.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Un'immagine dal nostro documentario Lo Stato Islamico.

Dopo la strage al Charlie Hebdo, il dibattito sul pericolo jihadista in Italia è aumentato notevolmente d'intensità—non senza punte di islamofobia, strumentalizzazioni politiche e isteria di massa.

In questi giorni si è tornato a parlare del tema principalmente per la diffusione online di alcuni "manuali" di propaganda. Tra quest'ultimi, ad esempio, c'è il documento "Black Flags from Rome "—che Il Giornale ha descritto come una specie di "vademecum dello jihadista" in cui si chiede un improbabile aiuto "agli antagonisti e alle nuove BR" per conquistare Roma—e un altro intitolato "Lupi Solitari ".

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Il 5 febbraio 2015 la Questura di Varese ha emesso un comunicato in cui dice di aver espulso dall'Italia un marocchino di 30 anni, Oussama Khachia, perché "ha espresso idee radicali" su Internet. Il provvedimento di espulsione, continua il comunicato, "si è basato sulla pericolosità dello stesso in ragione di una sua potenziale strumentalizzazione da parte di soggetti intenzionati ad arrecare pericolo per lo Stato Italiano."

Secondo le valutazioni delle autorità, il trentenne avrebbe potuto diventare pericoloso in futuro. In un'intervista a VareseNews, la sorella ha definito un'ingiustizia la sua espulsione, dicendo che Khachia è un "italiano di seconda generazione" che "lavora da quando aveva 15 anni, paga le tasse e ha pagato i contributi." E fino all'espulsione, in effetti, l'uomo si era limitato a simpatizzare per l'Isis sui social network, principalmente attraverso tweet contro i curdi ed elogi della produzione di tartufi nello Stato Islamico.

Il tartufo della città di Al Qaīm nella terra del Califfato. Farà concorrenza al tartufo di Alba? — Oussama أبو مصعب (@K19_84)January 19, 2015

Il caso di Khacia, tuttavia, si aggiunge ad altri. Da dicembre, stando a quello che ha dichiarato il ministro dell'Interno Angelino Alfano, una decina di soggetti sono stati espulsi dall'Italia per la loro supposta vicinanza al jihadismo. "Saremo durissimi," ha detto Alfano. "Noi ci troviamo di fronte ad una minaccia immanente che può attuarsi in qualsiasi parte del nostro continente e che è sostanzialmente imprevedibile."

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Qualche settimana fa, inoltre, è emersa la circostanza che il CIE di Torino (che doveva chiudere) diventerà l'"ultima meta prima del rimpatrio definitivo" di "fiancheggiatori, propagandisti, arruolatori, 'foreign fighters' in partenza o di ritorno dai fronti di guerra del Califfato dell'Isis"—una scelta che ha spinto qualcuno a parlare di "una piccola Guantanamo." Ed è proprio dentro al CIE di Torino che lo scorso gennaio è stato rinchiuso, prima di essere espulso, un operaio pakistano di 26 anni che aveva esultato su Facebook "per la sanguinosa catena di esecuzioni dell'Isis."

Quello che puntualmente si perde tra i vari casi di cronaca e l'allarmismo generalizzato, tuttavia, è un riquadro più generale del fenomeno jihadista in Italia. Qualche mese fa è uscito un ebook—intitolato Il jihadismo autoctono in Italia e scritto dal ricercatore dell'Ispi Lorenzo Vidino—in cui si cerca di fare il punto della situazione.

Alla luce dei casi più recenti, dunque, ho chiamato Vidino per capire quanto la minaccia sia effettivamente concreta e come sia cambiato il jihadismo in Italia in questi ultimi tempi.

VICE: Partiamo dal caso di Oussama Khachia. Khachia è descritto come una persona perfettamente integrata, che lavorava e che fondamentale esprimeva solo opinioni su internet. Eppure, è stato espulso perché "avrebbe potuto diventare pericoloso in futuro."
Lorenzo Vidino: È sempre molto complicato stabilire il limite tra la libertà di parola e la propaganda jihadista. Il decreto che dà il potere di espellere per motivi di sicurezza nazionale è del 2005, e generalmente non è abusato. Sono una ventina di casi all'anno e c'è tutta una procedura da seguire.

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Viene formulato un giudizio che è complesso, basato su elementi e valutazioni nei confronti di un soggetto che, pur non avendo commesso azioni criminose, viene ritenuto pericoloso. Tuttavia, non viene usato indiscriminatamente contro chiunque esprima un'idea che non piace all'autorità.

È chiaro che comunque esiste una tensione tra la libertà di parola e la sicurezza. L'esperienza degli ultimi mesi ci mostra diversi casi di soggetti che passano dall'essere "jihadisti da tastiera" a compiere azioni violente. Ad esempio ci sono i due attentatori in Canada—uno ha attaccato il Parlamento, l'altro ha investito e ucciso un soldato canadese—che prima di passare all'azione non avevano mai fatto nulla, a parte scrivere cose abbastanza radicali su Facebook.

Alle autorità quindi è demandato un ruolo difficilissimo, che è quello di decidere se un soggetto debba solo essere monitorato, oppure se si reputa che possa passare alla fase successiva.

La storia di Oussama, pur con tutte le differenze del caso, può lontanamente ricordare quelle di Mohamed Jarmoune e Anas el-Abboubi.
Questi sono stati i primi casi, perlomeno a livello giudiziario, di soggetti che appartengono alla nuova generazione del jihadismo autoctono italiano. Sono ragazzi cresciuti in Italia, considerati "sociologicamente" italiani, e che si sono radicalizzati qui.

Mohamed Jarmoune in una foto segnaletica.

Sono casi diversi dalla scena del passato, che era caratterizzata da immigrati di prima generazione, che spesso vivevano ai margini della società e che facevano parte di gruppi, cellule e network più strutturate. Qui invece si tratta di ragazzi italiani che si radicalizzano in modo indipendente—e spesso internet gioca un ruolo molto importante—e che cercano in un modo o nell'altro di fare qualcosa , di mobilitarsi. In certi casi può essere l'andare in Siria a combattere, o può essere il cercare di compiere un attentato in Italia. Ci sono poi quelli che si limitano, come dicevo prima, a fare i "jihadisti da tastiera."

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Da quante persone, indicativamente, è formata questa scena jihadista in Italia?
È difficile quantificare, ma indicativamente si tratta di qualche centinaio di soggetti molto attivi su Internet, spesso lontani dalle moschee, e che interagiscono quasi tutti sui social network, si scambiano informazioni, si parlano in pubblico e in privato.

È una scena decisamente più piccola rispetto a quella di altri paesi. Non ci sono grossi centri di aggregazione come ad esempio a Londra o in alcune città del Belgio, della Germania e della Francia. Qui si parla più di individualità sparse per il territorio, c'è un numero significante di convertiti. È comunque una scena molto eterogenea: alcuni si accontentano delle interazioni online; altri invece cercano di tradurre questo fervore in qualcosa di concreto.

Che differenze ci sono con le reti jihadiste di altri paesi europei?
Principalmente mancano le filiere di arruolamento; o meglio, esistono, ma sono embrionali, di dimensioni minori. Più o meno ci sono le dinamiche degli altri paesi, ma avvengono su scala più ridotta.

Parlando del processo di radicalizzazione dei jihadisti autoctoni, in Francia ad esempio questo avviene principalmente in carcere, com'è successo nel caso dei fratelli Kouachi. In Italia, invece?
I rapporti pubblici dei servizi italiani parlano della radicalizzazione in carcere. Chiaramente, però, il fenomeno in Italia ha una portata diversa. Sotto questo punto di vista, ci "salva" un po' il fatto che non diamo la cittadinanza, e quindi abbiamo pochi terroristi nelle carceri. Nei casi di Kouachi e Coulibaly, invece, c'era Djamel Bhegal, cioè la figura del "radicalizzatore." In Italia ci sono stati degli equivalenti di Bhegal, ma sono stati sempre sempre cacciati.

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Ogni processo di radicalizzazione, comunque, è diverso. Ci sono quelli che avvengono in prigione, su internet, nella moschea, in famiglia—ogni storia è diversa dall'altra, è impossibile generalizzare.

Jarmoune e Anas, ad esempio, sono un po' dei misteri. Che si sappia, i due all'inizio del loro processo non entrano mai in contatto con nessuno, e la loro sembra essere una radicalizzazione totalmente indipendente, che parte da loro stessi.

Anas el-Abboubi in Siria. Foto via Facebook.

Giuliano Delnevo [ il genovese convertitosi all'Islam e morto in combattimento in Siria nell'estate del 2013 ], invece, è un'altra storia. La sua radicalizzazione è avvenuta a tappe, in un certo senso. Prima c'è la conversione con un gruppo abbastanza conservatore, poi Delnevo è sempre alla spasmodica ricerca di una guida spirituale.

Sempre nel processo di radicalizzione, quanto contano la discriminazione e la mancanza d'integrazione socio-economica?
Sono due fattori che nessuno può escludere; ma isolare un singolo motivo che avrebbe causato la radicalizzazione è fare un'analisi politicamente motivata, in un modo e in un altro.

In certi casi, comunque, sono indubbiamente parte del fenomeno, in altri non hanno niente a che farci. Per quanto riguarda la discriminazione, se uno va a vedersi i video di Anas prima che diventasse jihadista e poi quelli dalla Siria, lui parla della Lega Nord e del razzismo.

Oppure, leggendosi le carte del processo a Mohamed Game—l'uomo di origine libica che nel 2009 aveva cercato di farsi esplodere alla caserma Santa Barbara a Milano—si vede che parla di Lega Nord e di discriminazione contro i musulmani. Insomma, è chiaramente un fattore.

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Tuttavia, se ci fosse un rapporto così stretto e causale tra discriminazione e radicalizzazione, perché solo una ventina di musulmani in Italia hanno fanno questo passaggio? E inoltre, come lo si spiega per i convertiti italiani?

Per quanto riguarda la mancanza d'integrazione socio-economica, lì sono ancora più scettico. Se si guarda il profilo dei soggetti noti che si sono radicalizzati in Italia, Jarmoune a 21 anni aveva un contratto a tempo indeterminato; Anas faceva l'istituto tecnico e viveva in una famiglia integrata, e pur non sguazzando nell'oro non si può dire che stesse male. In altri casi, come ad esempio quello di Mohamed Game, i problemi economici ci sono. Game viveva in una casa occupata a San Siro, aveva una piccola impresa che poi è fallita.

Insomma, sono fattori che fanno parte di un processo di radicalizzazione. Non si possono escludere, ma si tratta sempre e comunque di un processo molto complicato in cui intervengono molti altri fattori—è un insieme di fattori che interagiscono tra loro.

Prima si è citato il caso di Giuliano Ibrahim Delnevo, e questo introduce un tema di cui si parla molto in questo momento, cioè quello dei foreign fighters. Stando a quanto ha detto Alfano, 59 persone sarebbero partite dall'Italia per combattere in Siria. Qual è il profilo del foreign fighter italiano?
In realtà si sa molto poco su questo tema, anche perché i numeri italiani sono molto bassi rispetto ad altri paesi europei. Tra l'altro, di quei pochi che partono dall'Italia quasi nessuno di loro parla, mentre i foreign fighters di altri paesi sono molto attivi sui social.

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Giuliano Ibrahim Delnevo.

È difficile tracciare un profilo, perché da quel poco che si sa il panorama è molto eterogeneo: ci sono i siriani (che non considererei nemmeno foreign, visto che tornano); i convertiti, tra cui c'è anche una donna [ è il caso di Maria Giulia Sergio]; poi c'è un numero abbastanza importante di cittadini originari dei Balcani, di cui due si sa che sono morti in Siria.

Il Ministro dell'Interno Alfano ha annunciato un "pacchetto anti-terrorismo" che dovrebbe essere presentato questo giovedì. Pensi che servirà a qualcosa, oppure le norme per contrastare il terrorismo ci sono già?
In Italia le norme sostanzialmente ci sono già. Da quello che si capisce, questo pacchetto fa un lavoro più che altro di "scalpello", ci sono dei cambiamenti più di fino che altro—come ad esempio l'aumento delle pene, l'introduzione di reati più specifici, eccetera. La legislazione italiana è comunque abbastanza all'avanguardia in Europa.

La radicalizzazione d'ispirazione jihadista in Italia riguarda, come hai scritto nel tuo ebook, "una frazione statisticamente insignificante della popolazione di fede musulmana." Insomma, è un fenomeno sotto controllo e il cui impatto sui media andrebbe ridimensionato?
Sicuramente come fenomeno in Italia è ridotto. E di altrettanto sicuro c'è l'attenzione da parte di chi di dovere, che precede la scoperta dell'Isis da parte dei media e che non è mai scesa dagli anni Novanta ad oggi.

Certo, c'è più probabilità di morire colpito da un fulmine che da un atto di terrorismo, ma la realtà è che qualsiasi tipo di violenza politica attrae maggiore attenzione rispetto ad altri tipi di fenomeni. È chiaro, poi, che se un attentato di tipo jihadista avvenisse in Italia, questo ingenererebbe delle fortissime dinamiche politiche e sociali. Immagina che tipo di impatto potrebbe avere un fatto del genere su integrazione, immigrazione e Islam.

Per il resto, solo avendo la conoscenza del fenomeno si riesce a dargli la giusta dimensione, e probabilmente è l'unico modo per avere un dibattitto serio.

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