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Ci mancherai, Jack Nicholson

Elogio alla carriera dell'attore più oscuro e più affascinante di Hollywood.

Jack Nicholson in una scena del film La piccola bottega degli orrori. (Foto via)

Sono poche le persone ancora in vita che sembrano trascendere la propria esistenza. Quelli che sono stati ben altro che la propria sola carne e il proprio sangue, per diventare invece i rappresentanti di periodi storici, idee e movimenti. Muhammad Ali è molto più di un peso massimo, Madonna è più di una pop star, Tony Blair è più di un politico. Sono persone che, vi piacciano o no, sono venute a incarnare qualcosa, a definire o inseguire qualcosa.

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John Joseph "Jack" Nicholson è, senza dubbio, uno di loro.

Ma la scorsa settimana sembra sia giunto al termine il suo regno di potente e caotica divinità hollywoodiana; le notizie—contrastanti, peraltro—suggeriscono che si ritirerà dalla recitazione, presumibilmente a causa della perdita di memoria, probabilmente dovuta a una vita di dissolutezze.

Anche se non ha recitato così tanto negli ultimi dieci anni, il suo "pensionamento" rappresenta la fine di qualcosa. In primo luogo, avere un uomo come lui non solo ancora in vita, ma ancora al lavoro, stabilisce un collegamento a una sorta di vecchia scuola della Hollywood tenebrosa tanto amata da artisti del calibro di James Ellroy, Kenneth Anger e Billy Wilder. Una scuola iniziata con l'omicidio della Dalia Nera, che ha raggiunto il punto di non ritorno con la famiglia Manson e ora volge alla fine col pensionamento di Nicholson. Tutto quello che ci è rimasto è Ryan Reynolds che fa jogging.

Il secondo motivo di tristezza è che, per anni, Nicholson è sembrato una sorta di Superman cocainomane—un faro di virilità e di abusi, un uomo che sembrava deciso a raccontare al mondo che forse i medici si sbagliano e che si può fare esattamente il cazzo che si vuole. Ma eccolo ora, apparentemente incapace di ricordare le sue battute, forse, nei momenti più tranquilli, preso a rimuginare che—certo, 76 anni è una bella età per fare quello che fa, ma forse la sua vita professionale avrebbe potuto essere più lunga se non ci avesse dato così dentro.

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Detto questo, il fatto che Nicholson resterà un mito è più che certo. Icona è una parola largamente abusata, ma Jack lo è nel suo significato più vero. Non ha raggiunto questo stato per avere recitato in pochi film, ma buoni, e perché ha una bella faccia. Harrison Ford ha fatto entrambe le cose, infatti non ci interessa un granchè. Sebbene sia un grande attore, la faccia di Ford ci ricorda solo i suoi film, mentre il selvaggio sguardo ghignante di Nicholson—il suo volto, a voler essere onesti, che sembra quello di Satana—ci dice qualcosa di più.

Ci racconta di quel periodo in cui l'America ha acceso la miccia della propria polveriera e ha completamente fatto esplodere tutta la merda che aveva in corpo—l'epoca di Charles Manson, Roman Polanski, Brian Wilson, del Watergate e del Vietnam.

Come icona, Nicholson riassume un tempo e un luogo. Come attore, la sua presenza è impareggiabile. Più simpatico di De Niro, meno incline all’essere imbarazzante di Pacino, non così talora svenevole come Hoffman, meno pretenzioso di Brando, più affascinante di Walken. Le sue performance in Easy Rider, Cinque pezzi facili, L'ultima corvè, Chinatown, Qualcuno volò sul nido del cuculo e Shining—realizzate in un arco di appena 11 anni—contengono più capolavori rispetto a molte intere filmografie dei suoi contemporanei.

Molti attori possono recitare la parte del duro, del romantico, del pauroso, del divertente o del saggio. Ma il genio di Nicholson stava nel poterle fare tutte allo stesso tempo. Anche in un dramma giudiziario come Codice d’onore fa un lavoro incredibile. Ma a mio parere (e non solo mio immagino), Chinatown rimarrà il suo capolavoro. Non solo perché è un film incredibile e lui è superbo, ma perché è un racconto sul lato oscuro e caotico della California, così come la storia di Jack Nicholson è un delle facce oscure e caotiche della California.

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Perché è un genio che tutti noi amiamo, ma le sue descrizioni si baseranno equamente sull'uomo e sui suoi ruoli cinematografici. Nicholson non è solo un attore, ma una delle forze più durature del tardo Ventesimo secolo di creatività buia e vischiosa, un soggetto costante di disagio, intrigo ed eccesso. Viveva ai margini della nostra cultura, in quelle tenebre di Hollywood Hills dove Mark Robson ha girato La valle delle bambole, dove David Lynch ha fatto Mulholland Drive, dove Paris Hilton e Britney Spears sfrecciavano attraverso le strade tortuose in Hummer rivestite Louis Vuitton e dove la starlette degli anni Venti Peg Entwistle fu la prima a suicidarsi lanciandosi dall'insegna più famosa del mondo.

Quando sono nato, non era già più il migliore come negli anni Settanta, ma prima che si ritirasse era ancora in grado di catturare l'immaginazione del pubblico. Strisciava negli occhi della coscienza popolare con scatti del suo ben nutrito fisico circondato da playmate su mega yacht, distruzioni di auto con mazze da golf, diventando addirittura una specie di padrino di Lindsay Lohan, facendo il marpione con Jennifer Lawrence agli Oscar e facendosi beccare a tirare di coca anche a sessant'anni suonati.

Per molti, questo tipo di comportamento potrebbe essere imbarazzante—un vezzo di voler apparire giovane. Ma fatto da Nicholson, mi sembrava naturale. Era fatto così. Per tutto il tempo che ha trascorso in compagnia di donne, l'unico matrimonio della sua vita è durato sei anni, è stato uno che ha respinto lo yoga e aveva scelto il caos. Ed è un personaggio ancora oggi, come una sorta di Peter Pan pazzo e sempre più calvo, nel decennio senza nome nel quale attualmente viviamo.

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Non ci dovrebbe essere una lettura addolcita di Nicholson da parte dei biografi, a posteriori, nessun arrotondamento dei suoi spigoli. Dopo tutto, era la sua oscurità ciò che attraeva i registi. Se Robin Williams avesse ottenuto il ruolo di Joker in Batman, sarebbe stato uno sciocco, una creazione pantomimica—Patch Adams con una mitragliatrice. Ma con Nicholson è diventato strano, inquietante, violento, sessualizzato. Quando prendeva Kim Basinger in ostaggio alla fine del film, si aveva la sensazione che avrebbe potuto farle qualcosa di orribile, che ne fosse davvero in grado. Ti chiedevi se, forse, lei glielo avrebbe lasciato fare.

È questo che ha reso così grande Nicholson—il fatto che potesse rappresentare tutti i nostri istinti più oscuri, più bassi, con un sorriso, semplicità umana e talento, tanto talento. Questa era—e resta—una combinazione assolutamente affascinante quando necessaria, ma anche terrificante quando non lo è.

Ma ora, sembra che abbia chiuso, che non potrà più crogiolarsi in quello che sa fare meglio, sa che non si dovrà più svegliare per andare sul set e ricordarsi se la battuta è, "Fottuto stronzo", o "Vaffanculo, stronzo", mai più.

Anche se da molti anni non è più attore protagonista, gli imitatori con cui siamo stati lasciati sono pallidi fino a essere trasparenti al suo confronto—non ci provano neppure a tentare quello che Nicholson faceva ai suoi bei tempi. Muovono solo le mascelle per lo schermo, sembrano confusi, ricordando le loro battute e si attaccano alle loro certezze.

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Con il ritiro dalle scene di Jack Nicholson, il cinema ha perso una delle cose più grandi che possedeva. Non era solo un collegamento con la vecchia scuola, ma uno che ha mantenuto vivo il senso di pericolo, di "non si può mai dire" in ogni momento—un attore che non aveva intenzione di dare messaggi espliciti e costruttivi in qualunque momento.

Jack Nicholson, ci mancherai.

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