Ritardi, burocrazia e incertezza: il primo anno di un migrante in Italia

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Ritardi, burocrazia e incertezza: il primo anno di un migrante in Italia

Abbiamo cercato di capire come funziona il sistema di accoglienza in Italia, e cosa ogni sua fase prevede per un migrante.

Per quanto ancora in molti sembrano far fatica ad accettarlo, nel 2017 dovrebbe essere ormai piuttosto chiaro: i flussi migratori esistono e sono inarrestabili, e l'unica cosa che possiamo fare è gestirli. L'unico mezzo che abbiamo a disposizione per farlo è il sistema di accoglienza—anche se quasi mai ci si concentra sul suo funzionamento.

In occasione della Giornata internazionale del rifugiato—con la quale si commemora l'approvazione della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati all'Assemblea generale delle Nazioni Unite—ho contattato Anna Brambilla, avvocato che da anni lavora a fianco dei richiedenti asilo e membro dell'Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione.

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Con lei ho percorso le tappe di un migrante all'interno del sistema di accoglienza in Italia, cercando di capire dove la pratica differisce dalla realtà e quali sono i problemi che questa discrepanza comporta.

GIORNO 1

Prima di cominciare a descrivere il percorso nel sistema di accoglienza italiano di un migrante sono necessarie tre premesse.

La prima è che chiunque voglia vedersi riconosciuto il proprio status di profugo deve verbalizzare e vedersi accettata la richiesta di protezione internazionale (chiamata anche richiesta d'asilo). Nel caso in cui la domanda di protezione internazionale venga respinta in modo definitivo, la persona riceve un decreto di espulsione e, nel caso in cui non venga rimpatriata, resta in Italia ma senza documenti e accoglienza.

La seconda è che l'accoglienza si divide in due fasi: prima e seconda accoglienza. La prima è gestita dalle Prefetture ed è ciò che segue immediatamente il soccorso, la seconda dovrebbe invece segnare l'ingresso nel Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e i Rifugiati (SPRAR) e coincidere con la fase in cui la domanda di protezione viene esaminata.

Per ultimo, i migranti possono arrivare in modi diversi: via mare e via aerea o via terra. Dato che la figura del migrante in Italia è associata inevitabilmente ai barconi dal Nord Africa, è esclusivamente su questa categoria che ho deciso di concentrarmi.

Secondo l'ultimo dossier a riguardo, nel 2017, con dati aggiornati al 6 aprile, in Italia sono arrivate via mare circa 37mila persone—un numero sensibilmente in crescita rispetto all'anno precedente. Oltre a questi, nello stesso lasso temporale, hanno perso la vita nel Mediterraneo circa mille persone, e altre mille solo nel Canale di Sicilia.

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Ma cosa succede dal momento in cui i migranti arrivano sulle coste italiane?

Prima di tutto, i luoghi in cui vengono portati sono i centri di primo soccorso e accoglienza o i discussi hotspot. Nonostante, mi dice Brambilla, non ci siano leggi che indichino con precisione quanto tempo una persona dovrebbe permanere in questi luoghi, per prassi si dovrebbe cercare di non superare le 48 ore.

"Il tempo di permanenza dovrebbe essere esclusivamente quello necessario per uno screen sanitario, e con questo una specie di pre-identificazione, in cui si prendono le generalità e si fa compilare loro un verbale," mi spiega.

È già a questo punto, a poche ore all'arrivo, che si incontrano potenzialmente i primi problemi. Non si tratta semplicemente di una questione di tempi, che come immaginabile variano a seconda della quantità di persone sbarcate e del personale a disposizione, ma di trattamento e pratiche.

"In questa primissima fase, assieme al resto, viene fatto compilare alle persone un foglio in cui indicare il motivo del loro arrivo in Italia: tra le varie risposte, c'è 'lavoro'," mi spiega Brambilla. "Nonostante di fatto l'Italia ad oggi non disponga nel proprio ordinamento di una lista di paesi considerati sicuri, e quindi tutte le persone hanno diritto a presentare richiesta di protezione internazionale, di fatto questa risposta prevede automaticamente un provvedimento di espulsione o di respingimento differito, o il trasferimento in un centro di identificazione e espulsione. Si deve considerare che sono le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale che devono decidere se riconoscere o meno la protezione," continua.

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Al giorno uno sul territorio italiano, dunque, nella teoria il migrante che non ha barrato la casella 'lavoro' si trova ad aver risposto a una pre-identificazione che dovrebbe dargli accesso al sistema di accoglienza e vicino a essere spostato in un altro luogo. Nella pratica, i tempi di sosta variano molto di caso in caso e i ritardi già cominciano ad accumularsi.

GIORNO 3 Nonostante Brambilla evidenzi che in alcuni casi la permanenza nei centri di primo soccorso può protrarsi anche oltre i 30 giorni, seguendo la prassi in un sistema efficiente al terzo giorno dal suo arrivo il migrante è già stato trasferito in un altro luogo. Nello specifico un centro di prima accoglienza o tuttalpiù, in assenza di posti, un centro di accoglienza straordinario.

Il terzo giorno, il caso, una costante in tutte le tappe del viaggio di un migrante nel sistema di accoglienza italiano, comincia a diventare una variabile essenziale. Tempi e mezzi a disposizione per capire come procedere, mi dice Brambilla, variano enormemente da centro a centro, e con essi varia il proprio futuro all'interno del sistema d'accoglienza e nel paese.

Per i centri di prima accoglienza ancora una volta non ci sono numeri precisi, ma sul sito del Ministero dell'Interno si parla di una permanenza "per il tempo necessario alla sua identificazione e all'accertamento della sua permanenza in Italia" —ovvero, mi spiega Brambilla, il tempo per l'identificazione nel caso questa non sia stata fatta, e per la verbalizzazione della domanda di protezione internazionale.

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GIORNO 9

Al nono giorno in Italia, il migrante si dovrebbe trovare in un centro di prima accoglienza, identificato e avendo già dichiarato il desiderio di voler fare domanda di protezione internazionale.

Sempre in teoria, mi spiega Brambilla, si sta avvicinando un termine molto impronte: i dieci giorni che, secondo la legge, dovrebbero rappresentare il limite massimo dalla manifestazione di volontà per chiedere asilo alla compilazione del modello con cui questo viene verbalizzato—il modello C3, necessario a far partire ufficialmente la richiesta. In realtà, nella maggior parte dei casi le cose vanno diversamente.

"Nei fatti si tratta di un termine aleatorio," mi spiega Brambilla. "È infatti ordinatorio e non perentorio: questo significa che in caso non venga rispettato, non si possono presentare diffide o azioni. Sono piuttosto delle specie di linee guida." Le domande, continua Brambilla, vengono verbalizzate anche a due o tre mesi dall'arrivo. La causa di questo ritardo è facilmente intuibile: questure oberate e ritardi che si accumulano.

GIORNO 27

A questo punto ci sono buone possibilità che la verbalizzazione sia stata effettuata e il migrante dovrebbe trovarsi di fronte a uno step che a detta di Brambilla rappresenta un problema enorme nel funzionamento del sistema di accoglienza italiano: la richiesta del passaggio in un centro di seconda accoglienza, o in un centro SPRAR, destinato all'attesa della decisione della commissione per il riconoscimento della protezione.

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Di regola, a dover fare domanda per essere ammessi a un centro di seconda accoglienza, e ad avere il diritto di esservi ammessi, sono tutti coloro che non dispongono dei mezzi economici per potersi sostenere. Sostanzialmente tutti, ma questo non vuol dire che tutte le richieste vengano accettate.

"Si tratta di un altro passaggio molto confuso: moltissime persone, infatti, non vengono informate della necessità di dover fare domanda per un centro di seconda accoglienza. Inoltre, in molti casi la richiesta non viene valutata in quanto i posti sono molto ridotti rispetto a quelli di prima accoglienza. In questi casi, le alternative sono due: si resta in un centro di prima accoglienza in attesa, nonostante non sia questa la loro funzione, o si viene trasferiti in un centro di accoglienza straordinaria su disposizione del prefetto. Il centro in cui si viene trasferiti dipende dalla quota che spetta a ogni territorio e dai posti che questo ha a disposizione."

GIORNO 81

Il migrante si trova in un centro di seconda accoglienza, sempre in attesa che la sua domanda di protezione ottenga risposta.

In questa fase ci sono dei cambiamenti potenzialmente importanti. Dopo 60 giorni dalla verbalizzazione della richiesta, c'è infatti legalmente la possibilità di aver accesso al mondo lavorativo. Oltre alla possibilità di lavorare, che Brambilla mi dice non trovare attuazione molto facilmente, in caso si trovi in un centro adibito a svolgere queste funzioni il migrante può partecipare a varie attività di inserimento (quali corsi di specializzazione e di italiano) mirate a facilitare l'inserimento nella società a conclusione del percorso di accoglienza.

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Il migrante può di fatto solo aspettare, e stare attento che non intervenga un altro fattore: il rischio di perdere il diritto di accoglienza. "Se ti allontani in modo ingiustificato dal centro, o anche solo in caso di violazioni più o meno gravi delle sue regole, il rischio è quello di perdere il diritto di accoglienza," mi dice Brambilla.

GIORNO 243

Sono passati otto mesi dall'arrivo, e una media di sette dalla richiesta di verbalizzazione. Con tutta probabilità, il migrante sta ancora aspettando di essere convocato della commissione. Fare un calcolo preciso della discrepanza tra realtà e pratica non è cosa semplice. Sul sito del Governo, si dice che dal momento della verbalizzazione il migrante viene chiamato in commissione entro 30 giorni.

Con circa 200 giorni di ritardo, a questo punto Brambilla mi dice che il migrante può cominciare ad aspettarsi di essere chiamato in commissione. "Di media, dall'arrivo alla commissione, per i casi che seguo calcolo un periodo che va dai nove mesi a un anno. Nel caso in cui la decisione della Commissione sia negativa si hanno 30 giorni di tempo per presentare ricorso davanti al Tribunale. Il giudice ha sei mesi di tempo per decidere, ma dopo agosto per la effetto della legge Orlando-Minniti diventeranno quattro mesi," commenta.

Anche in questo caso, la parola d'ordine è dipende: mentre alcuni tribunali come quello di Milano, mi dice Brambilla, cercano effettivamente di rispettare i tempi, con altri l'attesa può durare anche un anno.

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DOPO UN ANNO

A regola, anche considerando un ritardo molto netto che sembra essere la prassi, a un anno la commissione si è espressa, e il migrante ha la risposta alla richiesta.

Nel caso questa venga accettata, mi spiega Brambilla, il migrante si ritrova con in mano un permesso di soggiorno che può durare due anni in caso di protezione umanitaria, cinque in caso di status di rifugiato o protezione sussidiaria. Con questo, la persona ha diritto a lavorare, ha diritto a viaggiare in Europa se dispone di un titolo di viaggio (ma per un periodo massimo di tre mesi e senza poter lavorare in regola), e si trova nella posizione di dover abbandonare il sistema di accoglienza.

"In un sistema di seconda accoglienza, le linee guida dicono che puoi stare in accoglienza ancora sei mesi," mi dice Brambilla. "Ma nel caso in cui tu ti trovi in un centro straordinario con una risposta positiva alcune prefetture dichiarano finita l'accoglienza, e quindi la tua permanenza del centro, dopo cinque giorni. Altre applicano, per analogia, le linee standard dei centri di seconda accoglienza," conclude.

Nel caso in cui il Tribunale si pronunci in modo negativo ad oggi si ha possibilità di proporre appello—possibilità che per effetto della legge Minniti non sarà più in vigore a partire da agosto. In questo caso, mi spiega Brambilla, sono i territori e la corte d'appello a decidere se sospendere o meno l'accoglienza.

In caso il diniego sia definitivo, poi, al migrante si aprono diverse strade. "In alcuni casi viene portato in un centro di identificazione ed espulsione, in altri c'è un provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale," mi dice Brambilla. "E c'è chi rimange sul territorio nazionale con permesso di soggiorno irregolare, rischiando in questo modo l'espulsione in un eventuale futuro controllo."

Secondo i dati diffusi dal Ministero degli interni (che non tengono conto dei casi in cui si è fatto ricorso in tribunale) ad aprile del 2017 i dinieghi sono stati il 59 percento, in sostanziale coerenza con il trend che vige da inizio 2017.

Benché sia difficile tener traccia di cosa scelgano di fare quanti ricevono il no dalla commissione, questo dato può bastare almeno in parte a far comprendere come si possano creare, in alcune città, situazioni sensibili e percepite come di degrado. Al contrario, rende incomprensibile il fatto che si pensi di poter risolvere con blitz sporadici un problema così palesemente strutturale. Sulla stessa linea, un sistema d'accoglienza così lento e intasato spiega almeno in parte perché in Italia l'immigrazione venga vissuta in un costante stato di emergenza. Quello che si spiega meno, è chi nonostante i numeri continua a parlare di invasione, o si ostina a voler scambiare questo iter infinito di attesa, impotenza e puro caso in una vacanza in hotel a 5 stelle.

Thumb via Flickr. Segui Flavia su Twitter