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Demented parla da solo

L'opera italiana è un teatrino

Forse la crisi dell’opera di Roma non è altro che un bluff e a parte i licenziamenti tutto tornerà come prima. Ad ogni modo, se anche Giusto Pio è diventato un rocker, gli strumentisti del teatro dell’Opera devono davvero emanciparsi.

Illustrazione di Simone Tso.

Non so quanti fra di voi siano melomani, amanti del bel canto o dei virtuosismi vocali. Immagino molto pochi: in un’era in cui per cantare è necessario l’autotune forse parlare di bel canto è come parlare dell’età della pietra. D’altronde il pop ha da un bel pezzo spazzato via il problema della tecnica vocale di un tempo e anche l’esistenza stessa delle arie d’opera, che una volta erano la musica leggera per antonomasia.

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Non che la lirica sia stata estirpata del tutto. Al contrario. Nina Hagen, Diane Dufresne, Klaus Nomi (che riproponeva il cantato “castrato”), i Queen, i Laibach, Bennato, Giuni Russo, Matia Bazar, Diamanda Galas—per fare dei nomi—sono tutti personaggi che hanno fuso la lirica con altri generi più o meno leggeri e più o meno dissonanti, dal punk al synthpop: la stessa Callas era un’icona pop, il cui canto personalissimo non era precisamente nei canoni classici. Insomma, c’è stata un’evoluzione e uno strabordare verso altri generi molto prima della conversione di Pavarotti al mondo di Bono e compagnia bella.

Vi chiederete quindi perché sto ritornando sulla materia: è dovuto a un fatto di attualità. L’opera di Roma è a rischio chiusura. Licenziamento in tronco di ben 182 persone fra orchestrali e coristi, dopo una serie di scioperi (il corpo di ballo non è stato toccato perché in pratica non esiste già più) e addirittura le dimissioni del maestro Muti (di cui ho già espresso qui le mie “simpatie”), il quale con una lettera poco chiara getta la spugna per passare definitivamente al dominio americano della Chicago Symphony Orchestra, che dirigeva—guarda caso—in contemporanea. Pare che i soldi a Roma non ci siano e soprattutto non ci sia l’interesse nell’investirli, cosa che farà pendere l’ago della bilancia verso l’impresariato come ai vecchi tempi, in uno stato di cose che diventa automaticamente limitativo e decisamente avverso alla qualità dell’insieme.

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Certo è una brutta notizia per il mondo dei melomani, ma d’altronde a Roma non abbiamo neanche un vero sindaco, c’era da aspettarselo. Di chiunque siano le responsabilità mi dispiace che stia andando così e il motivo lo trovate scritto qua sotto nero su bianco.

Tuo nonno Salvatore era uno dei due medici che assistevano il personale del teatro dell’opera di Roma. Naturalmente erano più richiesti per i cantanti e in particolare per le celebrità. Doveva essere presente alle prime e a turno per tutte le rappresentazioni. Aveva riservato un palco speciale che era l’ultimo del girone a destra entrando e il primo dei gironi sopra la platea. Iospesse volte ho trascorso delle serate nel palco con lui, che per la stanchezza più volte si addormentava durante le esecuzioni per poi svegliarsi negli intervalli per andare a controllare le condizioni degli attori. 

Erano gli anni Cinquanta. Durante quel periodo ha conosciuto i più grandi soprano e tenori della musica teatrale d‘Italia. Ad esempio mi ricordo la Callas, Mario del Monaco (tenore), forse la voce più bella chiara e potente di tutti, Tito Schipa (baritono), Caruso, Beniamino Gigli (tenore), Renata Tebaldi (soprano) e altri che ora non ricordo. Mi ricordo che mi diceva che nell’intervallo i cantanti facevano dei colluttori per la voce e dei fomenti preparati prima di cantare e tenuti ben caldi.

Questi i ricordi di mio padre sulle serate all’ opera passate al fianco di mio nonno e mia nonna, che tra l’altro adorava suonare il piano e cantare arie nei momenti liberi. Quindi la mia storia personale è, volente o nolente, direttamente intrecciata con il mondo della lirica. Mio zio ancora oggi quando guida la macchina ascolta cd d’opera sparando tutto a cannone, perché è sordo: forse per lui, in fondo, è come ascoltare dei dischi noise.

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Ma torniamo a noi: a mio modesto parere uno dei motivi della fine del teatro dell’opera è forse da rintracciare nella mancanza di star in campo lirico, di cui probabilmente Pavarotti era l’ultimo esemplare. Anche perché i talenti oramai emigrano, in Italia hanno la mente cementata (vedi il caso Cecilia Bartoli, tanto amata negli USA quanto letteralmente disprezzata qui) e Pavarotti rappresenta per gli addetti ai lavori un punto di arrivo probabilmente anche troppo scomodo, quindi figuriamoci…

A me lui non faceva impazzire, però è legato ai miei pochi ricordi del teatro dell’opera perché—ragazzi—confesso di averlo frequentato anche io. Per tre volte in verità, e dico tre volte dall’anno della mia nascita, il 1975. Papà e mamma in queste sporadiche occasioni decidevano di fare la” mattana” e andare a vedere l’opera collegandosi alla tradizione di famiglia (anche il mio bisnonno materno era un accanito melomane). Con loro ho visto appunto una Bohème con Pavarotti e regia di Zeffirelli: era abbastanza imbarazzante osservare Pavarotti fare il bohèmien con quella pancia, però dai alla fine magari il protagonista mangiava cibo scadente, si imbottiva di alcol o rovistava nella spazzatura per cui l’eccesso di grassi dannosi faceva quell’effetto…

I più affezionati sostenitori della causa operistica sono i Queen, che gli dedicarono il titolo

(a sua volta fregato dai fratelli Marx)

di un intero lp: A night at the Opera, appunto.

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La seconda volta vidi il Giulietta e Romeo di Prokofiev, balletto che a me personalmente piace una cifra e che un mio amico ora residente a Londra usava spesso per svegliarmi la mattina e farmi venire gli attacchi di cuore. Ricordo che mi fissai sul suonatore di triangolo, poiché dalla mia postazione si vedeva chiaramente che suonava un secondo e mezzo ogni tre ore, poi parlottava con il percussionista e poi se ne andava via, probabilmente al cesso o ad ubriacarsi, per poi ritornare praticamente l’indomani (chissà se ora ha partecipato agli scioperi…).

Insomma ero rimasto stregato più da questa figura, apparentemente anarchica e malamente tollerata dall’ensemble, che dalla messa in scena. Perché ovviamente quest’ultima era abbastanza vetusta, conservatrice. Il che è anche normale trattandosi di un opera scritta nel ‘35. In realtà “potrebbe” essere normale, azzarderei… in fondo l’autore era uno che guardava lontano e forse una rappresentazione più in linea con quello che avrebbe voluto lasciare ai posteri sarebbe stata migliore. Avete presente “L’inno alla gioia” rifatto da Walter Carlos? Be' è più vicina all’idea originale quella che la versione di Beethoven, il quale purtroppo non aveva ancora a disposizione i synth modulari di oggi. Ad ogni modo ci tornai una terza volta, e in questo caso potei permettermelo da solo in quanto si trattava dell’Hamlet suite di Carmelo Bene e costava veramente poco in confronto alla media (un biglietto dell’opera costa minimo 50 euro).

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E qui è sceso giù il teatro ed era gremito di giovanotti, non solo di vecchi scoreggioni o maturi checchini del bel canto. Subito dopo incrociammo il Maestro a Campo de’ Fiori che si intratteneva con due mignottoni, gli offrimmo del vino scadente da lontano ma ci guardò perplesso come si guardano dei barboni coperti di bava.

L’opera ha anche il suo fascino malvagio, esplorato con risultati traballanti in questo film di Dario Argento. Vista la situazione attuale possiamo togliere l’”anche”.

Dopo queste occasioni, più niente. Mi limitavo a passare davanti al teatro quando giravo in zona via Nazionale con una certa nostalgia per quelle giornate. In effetti il teatro dell’opera ha il suo fascino, sembra di tornare indietro nel tempo, però appunto: la suggestione in qualche modo supera la proposta musicale. A un ragazzetto degli anni Duemila come fai a far piacere ‘na roba simile, se a malapena sopporta il rock anni Settanta? Sì, perché per quanto mi ricordi il teatro dell’opera non ha mai espresso un potenziale innovatore. Si tratta sempre di rappresentazioni vecchie come il cucco, come se si trattasse di un museo del bel canto.

Se vado in Germania mi fanno almeno il Wozzeck di Berg (che neanche è così nuovo), se vado da un’altra parte mi fanno quantomeno le opere di Bob Wilson e annessi. A Roma rimaniamo sempre o quasi impelagati in un immaginario che raramente si distacca dall’Aida, dal Rigoletto, ecc ecc. Quando vogliono fare i moderni tirano fuori dei curatori più o meno inusitati. Bregovic, Greenaway, Herzog, addirittura Elio (!): ma bene o male costringono anche i più avanguardisti a misurarsi con la “muffa”. Hanno insomma “poche idee però confuse” e messe in atto solo per fare cassa: quindi non sarà forse che l’assenza di coraggiose scelte abbia intorbidito le acque della lirica romana?

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Perché non è che la lirica si ferma agli anni di Verdi, cazzo: abbiamo delle opere liriche recentissime, visionarie e attuali. Ma dove le vedete a Roma? Io praticamente da nessuna parte, escluse rarissime occasioni (non certo al teatro dell’opera). Appunto, è tanta l’assenza di cultura in materia che ti ritrovi ai mercatini delle pulci la letteratura in merito scontata da 60 a 5 euro, intere enciclopedie dell’opera tirate in faccia come è capitato a me tempo fa. Però almeno a tutti è concesso informarsi sulla faccenda, per capire che in Italia non c’è solo la Traviata. A questo proposito citerei almeno un'opera lirica che mi ha tenuto incollato su YouTube a guardare i suoi atti manco fosse una serie tv, ovvero Nixon in China. È un’opera del 1987 di John Adams, un seguace di Glass: assolutamente delirante, narra della visita del premier americano a Mao. Vederlo tutto di un fiato ti fa uscire dalle orecchie il cervello. Controllate voi stessi, sempre che riusciate ad arrivare alla fine.

Vero è che la crisi della lirica colpisce tutto il mondo: sembra esclusivamente mirata a conservare il passato, qualche volta danno il belletto alle scenografie, ma è tutto fumo negli occhi. Boulez è uno di quelli che ci ha sempre messo in guardia sull’importanza di rinnovare la musica lirica, ma anche se viene rinnovata non c’è un cazzo da fare, la difficoltà a farla passare è grandissima. Ricordiamo a questo proposito Stockhausen, che con la sua Licht ha probabilmente scritto una delle pagine d’opera più importanti di sempre per farci ripartire di slancio. Mi rendo conto che mettere in scena una cosa del genere al teatro dell’opera di Roma farebbe impazzire tutti i melomani incipriati, visto che ci sono anche partiture di rutti nelle parti maggiormente sulfuree… ma le cose stanno così. Se non ci mettiamo ancora le parrucche in testa e non usiamo più il monocolo un motivo ci sarà, per la miseria.

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Uno potrebbe obiettare che in Italia non si combina un cazzo, e invece spiacenti, ma così non è. Come già citato sopra abbiamo cantanti che all’estero vincono bene e qua sono trattati invece come merda di cane. Abbiamo esempi di egregi compositori, come Claudio Ambrosini che fa abbastanza caciara avendo studiato musica elettronica con Alvise Vidolin. Ma se è difficile trovare una qualsiasi sua opera su YouTube figuratevi se riesce a imporre il suo lavoro: giusto quando riesce a smontare i grandi classici a suo piacimento riesce a farla franca e a passare le maglie della “censura”.

Poi vabe', ci sono dei casi estremi come quelli di Battiato o di Morricone che sono riusciti in qualche modo a fare breccia, ma di certo non campano di opere liriche. I più severi estimatori d’opera poi a volte li accomunano ad operazioni tipo l’opera lirica di Roger Waters o quella di Paul McCartney, penalizzati dal loro stesso nome “commerciale”: si sa, chi viene dal pop o dal rock viene considerato un coglione. Morricone poi proprio ora sta completando un’opera dedicata alla Fallaci, cosa che in qualche modo ci inquieta, ma meglio lui dei soliti rifacimenti di Puccini, Rossini e compagnia bella. Ultimamente ci si è messo anche Mogol e Gianni Bella a farne una però che vi devo dire, almeno ci provano. Che poi tra l’altro tutti quanti pensano che cantare lirica sia qualcosa di superiore all’effetto di usare una voce incolta, o che sia un cantare completo valido per tutti i generi. Ebbene no: vorrei appunto riportare le testimonianze di Eleonora Amianto, studente di lirica, che ha molto da dire in merito.

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La prima volta che ho sentito una cantante lirica dal vivo ho avuto la sensazione di essere investita da un treno di suono, e studio proprio per ottenere questo. Ma non ha a che fare con le emozioni. Ci sono cantanti liriche che cantano correttamente ma non ti trasmettono nulla. Devi avere una padronanza assoluta di tanti aspetti che hanno a che fare con il canto e la recitazione. Il talento vocale non basta: serve una perfetta intonazione, lo studio maniacale dello spartito, l’interpretazione e il continuo allenamento con la giusta tecnica come se si facesse atletica. La tecnica è il vero scoglio, anche per alcuni cantanti affermati. Con la lirica si parla di anni e non è detto che poi uno ci riesca. Il corpo deve abituarsi a fare qualcosa di innaturale: alzare il palato molle ma non troppo altrimenti ingoi, avere il giusto appoggio del fiato altrimenti non si producono buoni suoni, avere il collo rilassato ecc. 

Certo anche per cantare pop serve tecnica ma non è paragonabile. Nel pop hai il microfono davanti alla bocca nella lirica no e devi farti sentire da un intero teatro. Serve una vita ipersana (il fumo, l’alcol ecc sono banditi) ma soprattutto bravi insegnanti. Io ho fatto due anni di logopedia più altri due di silenzio perché a 21 anni un maestro non aveva capito nulla della mia voce e mi è venuto un nodulo alle corde. Poi ho passato anni di horror vacui, cantando tutt'altro genere in vari gruppetti, prima di cominciare a trovare la mia strada grazie a un paio di brave insegnanti. E’ difficilissimo trovare bravi insegnanti perché la voce è prodotta internamente, quindi non è come un altro strumento dove è immediatamente chiaro se stai mettendo male le mani e se vai incontro a una tendinite. Devi avere la fortuna di trovare chi capisce che voce hai (se sei soprano, mezzo soprano ecc) e se stai facendo suoni giusti. Un foniatra una volta mi fece vedere le laringoscopie dei cantanti growl e quelle dei cantanti lirici. Paradossalmente c’erano molte più corde disastrate tra i lirici rispetto ai metallari.

La storia che la lirica è una base per il canto è abbastanza complessa. La tecnica lirica serve se non vuoi rovinarti le corde vocali ed è la base anche per altri stili ma non è così scontato che un cantante lirico sappia cantare bene il rock o il pop. Il punto è che si tende a considerare la lirica come qualcosa di puro mentre ha raggiunto questi livelli dopo vari passaggi e esperimenti. Ora sarebbe bello contaminarla. Sarebbe bello cioè che magari un cantante lirico in un conservatorio imparasse la diplofonia o a grattare la voce per creare altre possibilità sonore. Certo è che se ci si ferma all'ottocento è un po' dura fare questi discorsi. Ad esempio sul finale di Lulu di Berg c'è un urlo ed è scritto.

Che poi avete mai visto un’opera lirica femminile al teatro? Se vi è capitato fatemelo sapere, probabilmente quel giorno pioveva a dirotto oppure nevicava. E dire che invece c’è un nutrito numero di compositrici che attendono la loro opera proposta alle masse. Anche qui siamo in ritardo e non si tratta di una gravidanza di idee. Tipo che ne so, non chiedo mica Missy Mazzoli e la sua osannata (ovviamente non qui in Italia, che scherzate?) Songs From the Uproar, ma almeno Antonia Bembo… Ha proprio ragione Chaterine Clement, la lirica è un genere consacrato alla sconfitta della donna.

Forse a questo punto ci meritiamo Bocelli e i suoi annessi. Forse la crisi del teatro dell’opera di Roma non è altro che un bluff e a parte i licenziamenti e il polverone tutto tornerà come prima. Ad ogni modo, se anche Giusto Pio ha mollato tutto ed è diventato un rocker, è il momento per gli strumentisti del teatro dell’Opera di emanciparsi: in un certo senso è per questo che dovrebbero suonare no? Per non avere padroni, come insegna anche Mozart.

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