Il personale inferno di chi è affetto da fobie alimentari

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Cibo

Il personale inferno di chi è affetto da fobie alimentari

La vita è una merda, ed è anche peggio se le uniche cose che non ti disgustano sono gli hot dog e gli spaghetti con polpette.

Durante l’infanzia e l’adolescenza trangugiavo, ogni sera, spaghetti e polpette confezionate della Chef Boyardee. Solo a ricordare quei pasti mi sale l’acquolina in bocca. Ed è con questo senso di colpa persistente che ammetto di sentire ancora la mancanza di tutti quegli spaghetti scotti e di quelle polpette troppo salate e innaturalmente arancioni, per non parlare della salsa simil-ketchup che mi ha dato conforto per tutti gli anni della mia giovinezza. Ogni lattina di quella roba è piena zeppa di grassi e di sodio e, lasciatemelo dire serenamente, è proprio deliziosa.

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A volte mia madre cercava di ingannarmi, mischiando delle ‘vere’ polpette al sugo preconfezionato, sperando non me ne accorgessi. Però io lo sento subito se ho a che fare con un impostore. Nonostante i suoi sforzi, quindi, le mie papille gustative e il mio olfatto riuscivano sempre a scovare le più piccole variazioni culinarie, soprattutto quelle che rendevano piatti in realtà simili poco appetibili per il mio palato.

Oltre alle lattine della Chef Boyardee (che mi portavo dietro, vergognosamente, persino alle cene o quando rimanevo a dormire in casa d’altri), ero disposta a mangiare i noodles della Campbell’s (quelli senza il pollo – per carità!), e il würstel dell’hot dog. Il pane e i dolci erano ok, divoravo pure quelli, ma la frutta e la verdura proprio no, non riuscivo a mangiarle.

Insomma, ero una schizzinosa. E lo sono ancora, sebbene io sia abbia compiuto passi da gigante e non sia lontanamente comparabile (o almeno, così penso), a quei poveri diavoli di Freaky Eaters, il programma targato TLC dove si possono trovare individui che si cibano solo di sciroppo d’acero o di carne cruda.

L'unico “alimento sano” che mi piaceva erano le mele (però solo quelle già sbucciate), e le pannocchie. Pochissimi altri cibi superavano l’esame delle mie papille gustative. Amavo la pizza, ma solo quella senza aggiunte. Mi piaceva il formaggio, ma solo quello speciale che mia madre ordinava da un casaro del Michigan. Mi piaceva il pane, ma anche in questo caso si trattava di uno specifico tipo di pane di segale, trovato per caso durante un viaggio di famiglia in Florida e che ora i miei nonni ci spediscono ogni tanto a New York.

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Ovviamente tutto quello che comprendeva semini, noccioline varie o qualsiasi altro tipo d’ingrediente misterioso, era fuori discussione. I cibi che necessitavano di sputare fuori qualcosa, tipo le ciliegie, così come la frutta dalla consistenza succosa e melmosa, mi inorridivano e turbavano il mio animo sensibile. L’uva era la mia personalissima kryptonite. C’era qualcosa nella consistenza degli acini, nella vite che penzolava giù in grappoli, nel suo dover cadere per forza a terra ed essere calpestata dalle scarpe di chissà chi, che la rendeva davvero disgustosa ai miei occhi.

"Credo che gli schizzinosi e gli affetti da fobie alimentari si vergognino della propria condizione ora più che mai, soprattutto a causa della costante pressione esterna a mangiare cibo sano e “clean.”

Il tema dei bambini schizzinosi o affetti da vere e proprie fobie alimentari è soggetto a ricerche di vario tipo. Sappiamo tutti che molti pargoletti non amino mangiare i broccoli, ma che poi, comunque, finiranno per mangiarli da grandi. Per gli adulti affetti da fobie alimentari, però, si figura un altro tipo di destino, che li ignora, ridicolizza e riempie di “vedi di crescere” e di “sii più forte.”
Il fatto è che non è vero che non siamo avventurosi, come amano sostenere i buongustai compiaciuti, è che c’è un buon numero di cibi che ha un sapore, un odore o persino un aspetto poco invitante (almeno per noi), che ci rende difficile il superamento della nostra comfort zone.

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Le tematiche relative a chi è affetto da fobie alimentari sono diventate particolarmente popolari negli ultimi anni, soprattutto a livello mediatico. Conosciuto dalla comunità medica con il nome di Disturbo Evitante/Restrittivo dell'assunzione di cibo (o ARFID, seguendo l’acronimi inglese), quello delle fobie alimentari è formalmente un disturbo alimentare vero e proprio. L’ARFID può scaturire da una serie di altre sindromi, che spaziano da quella Asperger alle tendenze ossessivo-compulsive. Anche una particolare sensibilità verso gli stimoli olfattivi e gustativi può causare l’ARFID. Chiunque ne può essere affetto, come la star Anderson Cooper, e ormai sempre più ristoranti si stanno mostrando sensibili alla causa. Programmi come Parts Unknown di Anthony Bourdain, che trasformano le scoperte di sapori “esotici” in quest coraggiose verso il mondo della mondanità, e programmi come Chopped, che prediligono l’uso d'ingredienti insoliti, sono amati dalle grandi masse. Di conseguenza, e posso tranquillamente azzardarmi a dirlo, credo che gli schizzinosi e gli affetti da fobie alimentari si vergognino della propria condizione ora più che mai, soprattutto a causa della costante pressione esterna a mangiare cibo sano e “clean.”

Alla generazione dei Millennials dovrebbe piacere andare alla ricerca d'ingredienti freschi e di nuove sperimentazioni culinarie, quindi i ventenni e i trentenni schizzinosi di adesso (me compresa) preferiscono non rivelare troppo delle proprie abitudini alimentari, per timore di essere bollati come difficilotti, cocciuti o pigri. Deludiamo i nostri amici di continuo, soprattutto quelli che vogliono tantissimo andare a provare il nuovo locale vietnamita, e anche i nostri partner che non vedono l’ora di farsi viziare con qualche nostro manicaretto cucinato a casa. Ecco, per rimanere in tema, cucinare non ci interessa poi così tanto. Io, personalmente, ho difficoltà a toccare prodotti crudi, quindi l’idea di faticare su di un qualcosa che magari nemmeno mi piacerà, non mi entusiasma molto. Cucino sempre gli stessi identici piatti, ripetutamente. Ok, forse per conquistare un uomo bisognerà passare per lo stomaco, ma nel mio caso non è mai stato un sentiero percorribile.

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La dottoressa Nancy Zucker, fondatrice e direttrice del Duke Center per i disordini alimentari, ha trattato pubblicamente l’ARFID. Al New York Times ha rivelato che chi ne soffre mostra un’innata e amplificata sensibilità agli stimoli esterni, una sorta di “esperienza sensoriale… più intensa quando si tratta di sapori, consistenze e stimoli visivi.” Io, da persona dall’animo sensibile e figlia unica di due genitori che non andavano d’accordo (e questo rendeva i classici “pasti tranquilli in famiglia” un miraggio), ho deciso di chiedere alla dottoressa se i conflitti o le tensioni vissute in casa possano aiutare i disturbi restrittivi a perdurare fino all’età adulta.

“L’assunzione di cibo è, a livello comportamentale, complicato e ricco di varianti. Impariamo le cose per associazione. Non è difficile immaginare che i bambini associno il mangiare a un qualcosa di positivo se, durante la fase di crescita, hanno avuto l’opportunità di vedere i propri modelli comportamentali relazionarsi con il cibo in modo tranquillo e pacifico.”

Zucker vuole anche a scoraggiare tutti quei genitori che pensano sia meglio instillare sentimenti di colpa, vergogna o di “vedi di finire tutto quello che hai nel piatto,” ai propri figli, perché obbligare i bambini a provare per forza un determinato alimento potrebbe solo peggiorare le cose (i miei genitori mi lasciavano mangiare quello che volevo, però sicuramente pensavano io fossi una piaga insopportabile).

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Stephanie Lucianovic, autrice del libro Suffering Succotash: A Picky Eater's Quest to Understand Why We Hate the Foods We Hate così ricorda i giorni della sua infanzia, tra cibi mangiucchiati di nascosto e bulli:

Ero brava a nascondere questa mia condizione. Non volevo che le persone lo scoprissero. Mi era stato insegnato che il mio fosse un comportamento immaturo. Da bambina non mi interessava molto risultare gentile. Da adulta, tuttavia, non vuoi offendere nessuno o comunque creare disturbo. Sono diventata brava a mangiare cose che non mi piacevano.”

E, tra tutti i ricordi, uno in particolare è riaffiorato subito alla mente di Stephanie. Si trovava a casa di un amico, dove un’ignota madre l’aveva obbligata a rimanere seduta in una sala da pranzo fredda a mangiare la purea di zucca che tutti avevano già finito. “Mi sono sentita uno schifo,” racconta Stephanie. “Questa donna è un’ambasciatrice. È stato davvero cattivo da parte sua, un gesto per nulla empatico.” A sentirla così, sembra quasi la scena di Matilda di Roald Dahl in cui Bruce Bogtrotter si spazzola un’intera torta di cioccolato solo per calmare Miss Trunchbull.

Il libro di Stephanie racconta il proprio percorso da persona affetta da fobie alimentari a diplomata in una scuola di cucina e food writer. Il suo interesse per il cibo è nato grazie alla serie Jacques and Julia Cooking at Home sull’emittente PBS Food, e più esattamente nella puntata in cui Jacques e Julia si sono inventati una loro personalissima vinaigrette; lì Stephanie si è resa conto di poter riprodurre da sola i condimenti che trovava nei ristoranti, anziché comprarli, ritrovando così il controllo delle
proprie azioni grazie alla cucina.

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Sconsiglia inoltre di affidarsi al presupposto secondo cui esista un unico modo giusto di preparare determinati cibi. “Secondo me, quasi nessuna verdura dovrebbe essere cotta al vapore se si vuole mantenere un buon sapore.”

Le verdure in casa Lucianovic erano cotte al vapore e senza sapore, quindi imparare a saltarle in padella bene è stato un po’ come riuscire a liberarsi dalla Caverna di Platone dopo la prigionia.

"Il disgusto aiuta ad avvertire la presenza di potenziali contaminazioni, sia esso scaturito da consistenze melmose, odori particolari o stimoli visivi."

Per quanto mi riguarda, ho recentemente iniziato a descrivere le mie fobie alimentari paragonandole al mangiare carcasse di animali morti. Gran parte dei cibi che la gente impiatta e poi porta alla bocca si trasforma, nella mia mente, in una scena in cui un procione sanguinante è stato trasportato direttamente dalla strada alla tavola per essere divorato. È disgustoso. Ancora adesso devo voltarmi per non guardare tutte quelle scene dei film in cui i protagonisti si lanciano addosso il cibo o si spalmano “in modo sexy” del cioccolato addosso, leccandoselo via. Secondo Zucker, però, ho dei superpoteri. La dottoressa attribuisce la colpa di tutto ciò al disgusto (che, stando a Inside Out, è una delle reazioni più forti e fondamentali del corpo umano).

“Il disgusto è un’emozione creata appositamente per proteggerci dagli agenti patogeni, per impedirci di ricevere infezioni,” mi dice. “Proviamo disgusto dalle feci, dall’urina e dal vomito perché potrebbero essere contaminati. Il disgusto aiuta ad avvertire la presenza di potenziali contaminazioni, sia esso scaturito da consistenze melmose, odori particolari o stimoli visivi. Un sacco di persone schizzinose, in realtà, presentano solo un sistema del disgusto molto elevato. Forse, in un’altra vita, eri l’assaggiatrice ufficiale di qualche re.”

Stranamente, molti cibi mi disgustano più di qualsiasi fluido corporeo. Però credo terrò buona la mia inclinazione per gli ambienti regali. La dottoressa, quando deve trattare chi è affetto da fobie alimentari, si focalizza per prima cosa sugli effetti sociali, perché l’ARFID può influire negativamente sulla gestione degli affetti e sul lavoro. Tutte quelle cene imbarazzanti e le ore passate a spiegare la propria condizione possono essere stancanti, e chi è soggetto ad ARFID spesso si sente solo.

Siamo esperti nel padroneggiare il disgusto, mi ricorda Zucker. Basti pensare ai pannolini: cambiarli è una necessità, ma farlo non lo rende meno rivoltante, e alla fine lo facciamo comunque. “Devi pensare a come affronti le cose. Lascia perdere il piacere. Devi avere a che fare con il cibo per un fine superiore, qualsiasi esso sia. Per esempio, per essere in grado di uscire a cena con il partner, o ancora per raggiungere una migliore forza fisica.”

Lo stadio peggiore della mia fobia alimentare è durato fedelmente fino all’inizio del liceo. Lì ho, un po’ a tentoni, iniziato a mangiare di più. Ricordo di aver assaggiato il mio primo hamburger e di essermene innamorata. Ho provato amore anche per il pollo (un amore un po’ più sano, con meno grassi saturi). Sempre al liceo mi sono resa conto che l’insalata Caesar fosse buonissima e facilmente reperibile. Persino un po’ di verdure avevano iniziato a piacermi, ed ero riuscita a trovare un buon compromesso con la frutta, preparandomi dei frappè per evitarne la consistenza nauseabonda.

Nell’ultimo anno ho aggiunto alla mia dieta le uova (solo quelle strapazzate però), ma devo ancora assaggiare i frutti di mare, il tofu e l’avocado (sono pessima ma comunque vicina al raggiungimento del mio status da Millennial benestante). Ci sono cose che non proverò mai ma, più cresco, più mi sento a mio agio con il cibo. Provo ad aggiungere qualcosa di nuovo al menù anno dopo anno.

Non provo più imbarazzo e sono disposta a spiegare quali siano le mie preferenze. La parte migliore di tutta questa faccenda è che, adesso, c’è chi è disponibile ad ascoltarmi.