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A9N6: Il settimo annuale di narrativa

Lupo mannaro

Un racconto di Anna Noyes estratto dal nostro annuale di narrativa.

Dipinti di Julie Adler.

Che giornata. L’uccellino batte contro la finestra. Sopra il telaio della porta c’è un nido.

Claire non vuole aprire gli occhi per il timore di ciò che potrebbe vedere—i loro vestiti sparsi per terra, sul comodino il bicchiere di succo d’arancia e acqua, con la polpa addensatasi sul fondo a formare una nuvola e l’impronta di rossetto lungo il bordo. Ha un che di accusatorio, così come i bicchieri che scarica dalla lavastoviglie, puliti se non per il suo rossetto ostinato. Deve lavarli due volte. In cucina c’è una pila di piatti sporchi, anche se quando la notte prima era tornata dalla festa insieme al marito, Hal, aveva immerso la mano nell’acqua unta per liberare lo scarico dal cibo. Si era diretta in bagno con gli avanzi di porridge nel palmo, per rimproverarlo. “Uno schifo,” gli aveva detto. “Ecco cosa succede quando non li risciacqui.” Ma la colpa era anche sua, dato che ogni mattina preparava il porridge e lasciava la pentola sporca sul fornello.

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Subito dopo avevano litigato perché lei non voleva rimanere così a lungo alla festa. Hal era ubriaco, e aveva interrotto la discussione per farsi una doccia, seguito da Claire. Mentre stava sotto il getto d’acqua calda con gli occhi chiusi e i capelli schiacciati sulla fronte lei aveva continuato a parlargli. E poi, inaspettatamente, era scoppiata in lacrime. Hal l’aveva abbracciata, con l’acqua che continuava a scorrere tra i loro corpi.

Piangendo, nel suo petto Claire avvertiva un certo dolore vero, consistente, ma c’era anche una parte fredda staccatasi da tutto per poter assistere alla scena. Quella parte sapeva che con le lacrime si era conquistata la tenerezza di Hal, e una porzione di acqua calda. Aveva vinto facendolo sentire in colpa.

La parte rimasta a guardare era priva di emozioni, così come Claire non era mai stata. Con lei qualsiasi cosa, che fosse felicità o tristezza, attecchiva senza problemi. A 28 anni era troppo giovane per i capillari rotti sotto gli occhi. Non erano semplici occhiaie, ma venuzze viola, esplose per via dello sforzo nel piangere.

E poi c’era quell’entità fredda, che stava a guardare. Un lupo mannaro, pensava Claire sconcertata. Era una parte di lei che raramente aveva riconosciuto, non perché fosse contenuta o si manifestasse di rado, ma perché era sempre presente. In passato, quando se ne era resa conto, dentro di sé  aveva iniziato a vederla come qualcosa che la avvicinava a Dio. Non l’aveva mai considerata maligna. Lupo mannaro. L’acqua aveva continuato a scorrere tra loro. Poi Claire si era voltata. Aveva pensato, E se fossi cattiva?

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A letto era salita su Hal e avevano fatto sesso nel modo in cui lo faceva quando era ubriaca. Per addormentarsi si era ripetuta un mantra per evitare di pensare a bontà e cattiveria.

È mattina, e lei non pensa più a quelle cose. Pensa ai possibili postumi della sbronza, e teme che aprire gli occhi le confermerà quel pensiero. Il braccio di Hal le circonda il corpo. A un certo punto il sonno di lui è turbato da qualcosa, e la mano si contrae strizzando il rotolino che si forma sulla pancia di Claire quando sta sdraiata sul fianco. Il gesto la coglie di sorpresa. L’improvvisa consapevolezza della sua pancia floscia la nausea, ma non dovrebbe sentirsi così. È un bel corpo, il suo.

Sono i postumi che le danno la sensazione di avere un corpo inospitale—a livello fisico ma anche, e forse soprattutto, perché è tormentata dalla colpa. È sposata, si è fatta la sua famiglia e presto, forse nel giro di un anno, spera di avere anche un figlio. Eppure dopo una sera di bevute il suo pensiero va dritto ai genitori. Pensare a loro la rattrista, come se li avesse delusi. E questo pensiero non ha alcun senso.

Vorrebbe dormire tutto il giorno, ma oggi è la sua domenica con Paul. Anche se l’idea di mettersi in macchina per andarlo a prendere, mangiare pizza da quattro soldi e infilarsi in un cinema a vedere le porcherie che gli piacciono è quasi insostenibile.

A quest’ora Paul si sarà già lavato, vestito e messo il profumo, e probabilmente è fuori ad aspettarla, così come fa persino nelle giornate più fredde, persino quando lei chiama l’assistente per dire che è in ritardo. O come quella volta in cui ha dovuto cancellare l’appuntamento, e l’assistente non è riuscita a convincere Paul a rientrare. Almeno per due ore.

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Si alza da letto, consapevole di poter sopportare la cosa. Anche il profumo di Paul (una sua iniziativa, un regalo che gli aveva preso dal cesto della merce in offerta) con cui lui si cosparge generosamente, sopporterà anche quello.

La giornata di oggi richiede un bel po’ di trucco, e Claire impiega tutto il tempo necessario a riportare in vita il suo volto. Gli occhi sono rossi per via del pianto. Hal entra in bagno e le fa scorrere le unghie sulla schiena nuda. “Quello sì che era fare l’amore,” le dice. A letto, così come quando lei piange, il loro modo di fare è confuso. Ma Claire sa che quell’ultima volta è stato diverso. Migliore, forse. Più selvaggio, in un certo senso.

Hal entra ed esce dalla doccia mentre lei sta ancora ultimando il trucco. Lo specchio continua ad appannarsi e Claire deve asciugarlo. Lui la cinge e avvicinandosi le sussurra, “Ciao, lupo mannaro.”

L’improvvisa chiarezza di quella parola, abbattutasi in un respiro contro il suo orecchio, la turba. Si sente sotto minaccia di un’arma. È folle, ma è a quello che ha pensato: a un’arma.

È come se lui l’avesse scoperta.

“Non dirmi così,” gli dice.

“Sei orgogliosa di te, eh? A prendere in giro tutti quanti.”

“Non sono orgogliosa. Odio quel gioco. Odio essere un lupo mannaro. Mi innervosisce. La mia strategia consiste nell’ignorarlo, punto.”

È vero, odia quel gioco.

Hal le accarezza le ossa dei fianchi.

“Ehi, sono io,” dice. “Tuo marito, ti ricordi? Non puoi prendere in giro me. Io ti vedo. E ora stai facendo quel gioco.”

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“Per favore,” risponde Claire, e mentre lo fa sente che piedi e mani iniziano a sudarle, come è successo quando la sera prima era stata scelta per quel ruolo. “Davvero.”

“Dai, basta con questi discorsetti da finta innocente. Non ci vede nessuno.”

“Dacci un taglio,” risponde Claire prima di mettersi il rossetto. Ha l’impressione di tremare, ma la linea che traccia è precisa. Si gira per baciare Hal. La sua barba è umida e la bocca sa di menta e dell’alcol della notte prima. Lui cerca di spingerle la lingua in bocca, ma il gesto è troppo rapido e bagnato perché apprezzi. Claire si scosta e nasconde il volto nell’incavo del suo collo, caldo e profumato di sapone.

Hal la conosce, ovviamente, e ha ragione. Sta ancora facendo quel gioco.

Poi lei pensa, ma non so come si gioca, in effetti. E la cosa mi infastidisce. E così chi sta sulla difensiva? Il lupo mannaro. Per un attimo aveva pensato di essere Claire, ma no, era ancora il lupo mannaro.

Quindi, fare quel gioco la infastidisce. La notte prima, quando il clima della festa aveva perso d’intensità e il gruppo si era riunito per giocare al Lupo Mannaro, piedi e mani avevano iniziato a sudarle. Eppure, con un tono di voce abbastanza alto perché gli altri la sentissero, aveva detto ad Hal che aveva una paura enorme di essere scelta come lupo mannaro. Chiunque fosse Dio, colui che avrebbe dovuto scegliere, l’importante era che la scelta non ricadesse su di lei. Era ingenua, e nervosa. Ma non il lupo mannaro. Manifestando ad alta voce la sua paura si era assicurata quel ruolo, e gli altri non avrebbero sospettato della dolce e inquieta Claire. Il lupo mannaro stava già mettendo in atto una strategia. Ma Claire era altro. Claire aveva paura.

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All’inizio non aveva capito del tutto il funzionamento del gioco. Almeno per quanto riguardava le componenti meno importanti, come il detective o l’angelo custode. Ma aveva capito che il suo ruolo era quello del lupo mannaro, e che chiunque avrebbe chiuso gli occhi fingendo di essere una città addormentata, e poi Dio, uno dei giocatori, si sarebbe rivolto al lupo mannaro chiedendogli di svegliarsi e “uccidere” qualcuno. Subito dopo Claire aveva sentito il volto passare dalla pace del sonno a uno stato maniacale, ferale, per poi aprire gli occhi e indicare la persona che voleva uccidere, attenta a non far rumore col vestito mentre indicava la vittima. Poi aveva riportato il suo volto alla pace del sonno, in modo da potersi risvegliare come umana e discutere con gli altri dei sospettati.

Dopo ogni uccisione, Claire cercava di essere comprensiva—difensiva nei confronti di chi veniva accusato e sospettosa di chi lanciava quelle accuse. E a ogni turno faceva domande sulle modalità del gioco, domande le cui risposte, in tutta onestà, non aveva compreso. (Ma di nuovo, che si trattasse del lupo mannaro che faceva il suo gioco, ponendosi come innocente anche nei suoi pensieri privati? Probabilmente sì, e la cosa la faceva impazzire.)

Dopo aver baciato Hal Claire applica nuovamente il rossetto.

Fare la parte del non-lupo le veniva estremamente facile. Impersonava se stessa. Non doveva far altro che spegnere la parte del suo cervello consapevole del suo essere lupo mannaro. Così non le sembrava di mentire. Non era brava a mentire (o meglio, mentire non le piaceva, e per questo aveva deciso di non esserne capace), ma al liceo e all’università era stata una brava attrice, e tra un’uccisione e l’altra non pensava al lupo mannaro.

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Alla fine del gioco, quando tutti erano stati uccisi senza che nessuno avesse votato per lei accusandola di essere il lupo, aveva rivelato la sua identità. Gli amici avevano scosso la testa increduli e divertiti, lanciandole occhiate di traverso e dicendo cose come, “Credi di conoscere qualcuno, e poi.”

Dal momento che non sarebbe riuscita a ingannare gli amici più stretti o Hal li aveva uccisi nel primo o nel secondo turno.

Ora gli dice, “Hai ragione. Sono la mente, e sto giocando.” Ma il tono ha un che di sarcastico, anche se nelle intenzioni di Claire era genuino, una confessione per estirpare la strategia da lupo mannaro.

Che cosa assurda, parlare di mente per uno stupido gioco basato su manipolazioni e inganno. È così che si fa, se si vuole vincere.

Ma non è il gioco, pensa una volta in macchina, con la radio accesa per distrarsi. È quanto rivelato dal gioco: che tutta la tenerezza e la comprensione e i sentimenti e le lacrime che mostra al mondo potrebbero essere volontà di una seconda, malvagia personalità.

Non è sicura di cosa voglia questa seconda personalità, ma ha a che vedere col fatto di vincere.

Da piccola era bugiarda. Ricorda solo tre bugie, ma con una chiarezza che rimanda allo stato di fredda attenzione in cui scivolava subito dopo averle dette.

Solo una sembra avere una qualche importanza, ma Claire si sofferma sulle altre due.

Nella prima, era con suo padre sul furgoncino in attesa dello scuolabus. Stava piovendo. Lo scuolabus aveva superato il loro vialetto, e il padre aveva suonato il clacson perché si fermasse. Poi Claire era dovuta scendere dall’auto e correre sotto la pioggia. Salita, una bambina che frequentava con lei la prima le aveva chiesto, “Ehi, ma oggi non è il tuo compleanno?” L’aveva detto in un modo un po’ maleducato, perché era una bambina prepotente. Lo scuolabus era ripartito, e Claire aveva annuito, avanzando con le mani salde sulla fila di sedili esterni. Non era il suo compleanno. Era il giorno prima del suo compleanno. L’autista aveva sentito, e aveva fatto cantare la canzone a tutto lo scuolabus. A scuola la bugia venne annunciata all’interfono, così anche i suoi compagni cantarono e la maestra le diede una ciambella con sopra una candelina.

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Si mise a piangere non appena arrivò a casa e vide il padre. Lui ascoltò il suo racconto e la prese in braccio anche se la mantella sgocciolava. Il giorno successivo, il suo compleanno, passò come ogni altro giorno.

Nella seconda, giocando a nascondino aveva sbattuto contro lo scivolo mentre correva a occhi chiusi. Il dente davanti le era cresciuto solo un mese prima. Aveva la bocca insanguinata, e con la lingua passò dove prima c’era il suo dente, sostituito da un mozzicone seghettato. Quando riaprì la bocca gli amichetti la guardarono sbalorditi ed esclamarono “Oddio”, qualcuno urlando e qualcun altro tra le risate. La maestra le permise di guardarsi nello specchio del bagno, e poi i suoi genitori vennero a prenderla.

Disse loro che qualcuno l’aveva spinta contro lo scivolo. Volevano il nome del compagno dispettoso. Una volta adolescente, quando il dente finto la infastidiva (per una canalizzazione o il sanguinamento gengivale), il padre le diceva, “Dai, sputa il nome, smettila di coprire quello stronzetto.” Ma lei rideva per la paura e scuoteva la testa. Non poteva confessare. Era passato troppo tempo.

E poi c’era la terza.

Quella volta era seduta vicino alla finestra, a casa di sua nonna. Sarà stato Natale, perché Paul e Reuben, i due cugini, erano lì con la loro madre, zia Ray. Claire aveva sei anni, e questo significava che Reuben e Paul ne avevano rispettivamente sette e nove. Si ricordava persino la camicia che indossava: scozzese, sui toni del rosso. Sua mamma sapeva che c’era qualcosa che non andava, ancora prima che Claire si alzasse da tavola e si mettesse alla finestra, sola. La madre la raggiunse.

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Ecco cosa non voleva raccontare, cosa non aveva ancora mai detto a nessuno: qualche ora prima, un uomo che lavorava nella fattoria di sua nonna l’aveva portata in un vecchio capanno del giardino trasformato in area giochi per i bambini. Dentro c’erano dei letti a castello. Erano saliti su quello di sopra, l’uomo si era tolto i pantaloni e le aveva chiesto di toccarlo. Claire non ricorda se l’avesse fatto o meno. Ricorda solo che lui l’aveva baciata, abbastanza insistentemente perché si rendesse conto che gli mancavano i denti, anche se non era vecchio. Voleva scappare via, ma aveva paura a scendere la scala a pioli.

Alla madre, invece, raccontò che quel giorno aveva fatto il bagnetto coi cugini, e Paul era uscito per poi tornare con un legnetto e punzecchiarla.

I suoi cugini erano di sopra a prepararsi per la notte; la madre la prese per mano e la portò in fondo alle scale. Poi li chiamò, con la voce che le tremava in un misto di paura e rabbia. Paul e Reuben fecero capolino da in cima alle scale, con in testa i berretti natalizi fatti ai ferri dalla nonna, berretti bitorzoluti con le campane e troppe punte.

“Paul,” esordì la madre di Claire, “hai punzecchiato Claire con un legnetto?” “Cosa?” chiese Paul. E la madre ribatté, “Mentre Claire era nella vasca da bagno non hai preso un legnetto e poi l’hai usato per punzecchiarla?” Paul scosse la testa. Anche Reuben lo fece, e aggiunse, “Oggi non abbiamo nemmeno fatto il bagno.” A quel punto arrivò anche zia Ray, e la madre di Claire le spiegò quanto accaduto. Ray raggiunse Paul a metà scale, dove se ne stava, con le guance sempre più rosse man mano che iniziava a piangere. Gli mise le mani sulle spalle e gli chiese, “Hai fatto male a Claire, nella vasca?” E Paul rispose, “No,” e Reuben disse, “Lo giuro, non ha fatto niente, davvero.”

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Reuben difendeva sempre Paul, perché Paul aveva la sindrome di Down ed era più piccolo di lui nonostante fosse di due anni più grande. Continuarono così per un po’, coi cugini, che erano migliori amici, che la guardavano dall’alto disorientati, e la zia con le braccia sulle spalle di Paul, che ripeteva, “Ma è vero, il bagno l’hanno fatto ieri sera. Non oggi.”

Il perché di quella bugia Claire non lo sa. Disse che Paul l’aveva punzecchiata, ma non ricordava di aver specificato che l’avesse punzecchiata tra le gambe, anche se a un certo punto doveva averlo detto. E ricorda perfettamente le bugie che aveva raccontato al dottore la settimana dopo, come se la messa a fuoco si fosse aggiustata per un momento, per poi saltare di nuovo nella parte in cui lui l’aveva visitata. Ricorda di essere rimasta seduta ai bordi del lettino nel suo camice di carta, impegnata a cercare dettagli per rendere la sua bugia più completa—Paul era uscito (e lo immaginava imboccare la porta sul retro), aveva trovato un legnetto (lo immaginava rovistare nella siepe della nonna) e l’aveva portato dentro, dove l’aveva usato su di lei. “C’era ancora un po’ di neve, sopra,” disse al medico.

Anni dopo la madre avrebbe sottolineato la calma e la chiarezza con cui Claire era riuscita a descrivere l’accaduto. A soli sei anni. Sua madre tornò diverse volte sulla vicenda, ma solo con Claire.

Com’era stata coraggiosa, per essere una bambina così piccola. E come aveva fatto, sua madre, a capire che c’era qualcosa che non andava. Per descrivere l’episodio del legnetto nella vasca da bagno, la madre aveva preso a usare la parola “abuso.” Ma era una faccenda complicata, perché anche Paul era piccolo, aveva la sindrome di Down.

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Perché Paul? Claire avrebbe potuto accusare Reuben con la stessa facilità. O è possibile che già a sei anni sapesse che Paul era il più debole dei due, che la gente avrebbe creduto alla bugia solo se fosse stata la sua parola contro quella di Paul?

Da allora, durante le cene di famiglia, ogni volta che Claire parlava zia Ray la osservava con sguardo avveduto, come a dire, Pensano che tu sia così dolce, ma io ti vedo. Poi prendeva il figlio in grembo, gli toccava affettuosamente capelli e guance e lasciava che mangiasse con le mani direttamente dal piatto, senza smettere di guardare Claire. O almeno così sembrava. Claire, con i buoni voti, i saggi di danza e a teatro delle scuole medie, e più tardi al liceo, negli stessi anni in cui Reuben rubava caramelle, poi accendini, poi birra, e Paul ingrassava. Alle cene di famiglia Paul mangiava, mangiava e mangiava, riempiendosi il piatto di spaghetti e pane all’aglio; se da piccolo era stato esile e con la pelle quasi traslucida, cogli anni si fece un adolescente di 90 kg per 150 cm. Una sera d’estate la nonna, seduta all’altro capo del tavolo, gli aveva urlato, “Smettila di impiastricciarti la faccia,” per poi rivolgersi a Ray, “Tuo figlio è un maiale. Perché non gli insegni le buone maniere?”

“Siete degli stronzi,” rispose Ray. Poi spinse indietro la sedia lasciandola cadere. Uscì sulla veranda, sbattendo così forte la porta che rimbalzò indietro rimanendo aperta e lasciando entrare in cucina il fumo di sigaretta.

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“Bene, pure le parolacce di fronte ai bambini,” le gridò la nonna. “Non mi stupisce che i tuoi figli siano degli animali.”

Paul continuò a mangiare gli spaghetti, pulendosi col tovagliolo dopo ogni masticata. Claire iniziò a sparecchiare la tavola. “Brava, brava,” le disse la nonna.

E per gli anni del collegio, dell’università e oltre, quando portava a casa fidanzati dall’aria pulita e più tardi quando ne sposò uno, rimase tale. Una brava ragazza. Ogni domenica passava a prendere Paul alla casa famiglia, andavano alla Y, nuotavano un po’ e per cena si spostavano da Denny’s o in una paninoteca. La serata si concludeva al cinema, oppure Claire gli comprava le cassette per un dollaro l’una al negozio dell’usato. Ma non le guardava mai con lui—si era fermata solo una volta, nella casa mobile che odorava della carne bruciacchiata cucinata per cena insieme ai preparati Hamburger Helper. Quella sera la responsabile, una donna incurvita, quasi gobba e che aveva bisogno dell’ossigeno, e che di nome faceva Pam, aveva chiesto loro di prendersi per mano (mani appiccicaticce e sudate) mentre recitava il Padre Nostro. Dopo anche Paul aveva annunciato di voler dire una preghiera: a mani giunte sul cuore aveva detto che Dio aveva fatto di quelle persone la sua famiglia, e lo pregava perché le proteggesse. Poi, sempre con gli occhi chiusi, aveva detto di riuscire ad avvertire la voce della nonna dal paradiso. Gli diceva che voleva bene a tutti e che Claire era un angelo, amen. Claire si era costretta a mettere in bocca la carne grigia e a bere l’acqua piena di cubetti di ghiaccio che sapevano di freezer. Gli altri bambini la guardavano. Non erano veri e propri bambini, ma un uomo e una donna, anche se la donna continuava a leccarsi le mani e l’uomo indossava il casco per la bici con strisce verde fosforescente lungo i lati.

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Dopo cena Claire si era seduta sul letto di Paul e avevano guardato una delle cassette che gli aveva portato. Si chiamava Air Bud, ed era la storia di un cane che giocava a basket. La sua stanza puzzava di umido, capelli sporchi e patatine, e sull’unica finestra due asciugamani fissati con le puntine facevano da tenda. Il climatizzatore era in funzione, e l’aria faceva sventolare gli asciugamani. Si sentiva una specie di toc-toc. Claire aveva pensato stessero bussando, ma quando aveva aperto si era resa conto che il rumore arrivava dal ragazzo col casco che sbatteva la testa contro il muro dell’ingresso. Non si era mai più fermata per cena. Ma dopo quella volta aveva iniziato a prolungare le uscite con Paul, e di tanto in tanto lo portava alla proiezione notturna, che costava cinque dollari in più della precedente. Da Denny’s gli permetteva di prendere ciò che voleva, anche se sapeva che avrebbe dovuto impedirgli di mangiare così (cheeseburger doppio bacon con ketchup e cetriolini extra, ma senza cipolla, mostarda, lattuga o pomodoro) per via del suo cuore debole e tutto il resto. Sapeva che le persone con la sindrome di Down vivono meno a lungo, anche se non lo capiva, non essendosi mai informata abbastanza; e non poteva informarsi di più, riusciva a malapena a pensarci. Non aveva mai visto un down coi capelli grigi o le rughe, ma in generale non aveva visto molte persone con la sindrome. Solo pochi, forse una dozzina.

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In un angolino della sua testa la voce di Hal continua a ripetere, Adesso stai giocando, e il volante si fa scivoloso per via delle mani sudate. Adesso. E adesso.

Quello che zia Ray aveva sempre insinuato, coi suoi sguardi di sbieco: Sei orgogliosa di te, eh? A prendere in giro tutti quanti. Anche quando la zia l’abbracciava, col suo corpo morbido, le braccia grosse e il calore dei maglioni di lana, nel ritrarsi i suoi occhi avevano un’aria di sfida, come una mamma orsa allarmata dai suoi cuccioli e pronta a rispondere. O almeno quella era l’impressione che aveva Claire. Era l’istinto materno della madre di Claire ad aver percepito un guizzo della verità—l’uomo, il letto a castello ondeggiante, il suo corpo nudo. Lì sulla scala, dietro al figlio col berretto natalizio e i calzini di lana troppo grandi, poggiando le mani sulle sue spalle come a dire, “Non è vero” e “Io sono la sua corazza,” Ray aveva avuto quello stesso istinto materno nei confronti della bugia di Claire—la bugia, la bugia.

Quando Claire aveva 17 anni zia Ray si ammalò. Claire sapeva di dover confessare. Ma prima lo disse a sua madre. Quello che la preoccupava di più è che in quel modo avrebbe permesso alla madre di raccontare e riraccontare la storia a se stessa e a Claire, quasi fosse una specie di esemplare trionfo dell’intuizione materna, e della maturità di Claire, così chiara e onesta.

Il cervello è complicato, e Claire provava una specie di fiducia nei confronti della confusione successiva alla confessione. “Aspetta,” disse la madre dopo che Claire le ebbe raccontato dell’uomo (“Oh, tesoro,” aveva detto per poi scoppiare in lacrime) e confessato di aver inventato tutta la storia di Paul. “Tu dici che eri angosciata da quell’uomo e da quello che era successo con lui, ma con Paul era successo tutto a Natale. E la nonna non aveva gente che lavorasse da lei a Natale. Dev’essere successo d’estate.” Ma l’inaffidabilità della linea del tempo non sembrava la cosa più importante. Magari Claire si era semplicemente ricordata di quell’uomo, forse quella cosa era accaduta in un altro momento, mesi prima, ma se le era tornata in mente quando la madre l’aveva messa alle strette lì sulla sedia vicino alla finestra. Claire aveva adagiato la testa sul grembo di sua madre, che le accarezzava i capelli. “Povero cucciolo,” le disse. “Saperlo mi distrugge. Eri così piccola. E ai bambini non devono succedere queste cose.” “Sì, ma capisci. Io so di essermi inventata la cosa di Paul,” fece Claire. “Sono sicura. Lo ricordo perfettamente, come mi sentivo nel mentire. Dal dottore. Mentre mi inventavo tutta la storia della neve. Tutto.”

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“Cos’altro ricordi?”

“Non molto.” Era così. Tutto ciò che circondava le bugie stesse era sfuocato.

Sua madre le disse che dopo aver raccontato cosa le aveva fatto Paul, ogni volta che andava a fare pipì gridava. “Brucia,” gridava, “brucia.” Nel visitarla il dottore aveva riscontrato dei taglietti sulle labbra. Ma non c’era stato un esame interno, pensava sarebbe stato troppo doloroso. Forse parte del legnetto era ancora dentro di lei, aveva suggerito il dottore, ma sarebbe stato meglio farlo uscire da sé.

Sua madre le accarezzò i capelli, e Claire pianse, e intanto continuarono a parlare del modo strano in cui funziona la memoria, e di quanto in imbarazzo dovesse essersi sentita mentre dalle scale la zia e i cugini la osservavano negando la sua versione dei fatti.

“Ma è vero,” ripeté Claire. “Quel giorno non avevamo fatto il bagno. Lo sapevo.”

“Sì. Non con l’acqua. Ma eravate nella vasca a giocare, nudi. Hai detto così, al dottore.”

“Non mi ricordo.”

“Sono sorpresa che ricordi ancora qualcosa,” disse la madre baciandole i capelli. “Eri uno scricciolino. E alla fine si è sistemato tutto. Perché non lasci in pace quella bimbetta? Non pensarci.”

Claire si immaginò bambina, in piedi in fondo alla scala, e cercò di ammorbidire l’immagine. Ma riusciva a vedere soltanto una bambina di sei anni troppo alta e sicura di sé, che ripeteva con freddezza la narrativa della sua bugia, riveduta e aggiornata, troppo codarda per svelarsi.

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“La zia Ray lo sa,” disse Claire. “È per quello che mi odia. So che tu non lo vedi, ma io sì. Dal modo in cui mi guarda.”

“Oh, lascia stare la zia. Le voglio bene, è malata, ma è anche una bella stronza. Sii tollerante con lei. E con te stessa. Non giudicarti sempre così duramente. Altrimenti poi stai male.”

E quella parte di sé che si spende per essere una buona figlia, moglie e amica, la parte che cura ogni giorno e a cui mette il rossetto, la parte che porta Paul a cena fuori e gli grida, “Nuota, nuota, Paul!” ai Giochi Olimpici Speciali, pensa che a causa di uno scherzo della memoria per tutti quegli anni ha creduto fosse una bugia quando in realtà bugia non era affatto.

Ma in un luogo freddo e schivo, un luogo scuro, blu, da qualche parte al di sotto del suo cuore, c’è la certezza che il dottore avesse frainteso. In quel posto, simile a una grotta, è certa, non nutre il minimo dubbio: aveva detto una bugia.

Quando imbocca il vialetto della casa famiglia trova Paul ad aspettarla, seduto su una pietra del prato tutto vestito di rosso, imponente e a gambe incrociate come il Buddha sorridente.

“Ciao bella,” dice Paul, con quel bella pronunciato come beee-lla che a volte senza pensarci Claire imita quando è con Hal (“Buongiorno beeello”).

“Tu, sei bello,” risponde Claire a Paul, che si passa la mano tra i capelli. “Lo so.” “Oggi tutto in rosso? Così sì che ti si nota.” Sono anni che Paul indossa combinazioni monocromatiche alternando tra bianco e nero, ma il rosso è una novità. Quei pantaloni, nota Claire, sono stati un suo regalo, acquistati da Walmart insieme a un paio bianco e nero nel reparto tempo libero - taglie forti - donna—li ha presi da donna perché sono di tessuto e si chiudono con un cordoncino, quindi più agevoli rispetto ai calzoni da uomo.

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“Sono il Vendicatore Rosso,” dice Paul.

Claire ride. “Mi piace. E di chi ti vendichi?”

“Oh, dei cattivi. Dottor Destino, l’Enigmista, quelli lì.” Poi passa a elencare una serie di cattivi del cinema di cui Claire non capisce i nomi.

“Allora tesoro,” dice lui fingendo di sbadigliare e distendersi per poterle mettere il braccio intorno alle spalle mentre Claire guida. “Che ne dici se per il nostro appuntamento… c’è un ristorantino italiano…”

“Davvero? Qui, in città?” Paul le stringe il braccio, con la faccia vicino alla sua.

“Ehi, maschione,” dice, “lasciamoci un po’ di spazio per respirare.” Paul ritira il braccio e riprende, “Uff, ok. Ho colto l’antifona.” Ma sorride, lo dice scherzando. Fa parte della loro routine.

“Hanno messo nuovi piatti a base di pasta, e poi le insalate. Si chiama Pizza Hut. Ci sei già stata?”

“Andiamo,” dice Claire.

Seduta di fronte a lui, a tavola, nota che ha una cuffia, un apparecchio simile agli auricolari Bluethooh.

“Bel telefono,” dice. “Con chi parli?”

“Con tante persone,” risponde Paul alzando le spalle. “A volte con mio fratello, in Vermont. L’altro giorno era il suo compleanno e l’ho chiamato. E poi la mia carissima cugina,” spiega indicando insistentemente Claire. “E a volte parlo anche con mia mamma, Pamela.”

“Parli con tua mamma?”

“Sì, mia mamma, Pamela, e sì, amici vari.”

“E cosa dice tua mamma?”

“Che noi due ci sposeremo.”

“Mi manca.” Non è del tutto vero. Claire sente la mancanza di alcuni particolari episodi legati a sua zia. Come quando ogni estate arrivava a bordo del suo Chinook RV.  C’erano due letti e una piastra calda. Ray li portava al lago, e poi giocavano dentro il Chinook, spargendo sabbia tra le lenzuola. Dopo il lago, i granellini di sabbia le rimanevano tra i capelli per ore. Claire stava stesa sul letto a grattarli via, con le unghie nere di sabbia. Ma era più nostalgia dell’infanzia che non di Ray.

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“A te manca?” chiede Claire.

“Be’, un po’. Ma le parlo quando voglio.” Alza nuovamente le spalle, chiude gli occhi e sistema la cuffia perché il microfono sia vicino alla bocca. “Mamma?” dice. “Sono Paul. Sei in linea?”

Poi le porte della cucina si aprono, e la pizza è in arrivo. Paul apre gli occhi e dice, “A volte non c’è.”

Se Claire dovesse giocare contro zia Ray al Lupo Mannaro non la ucciderebbe, anche se rappresenterebbe la minaccia principale, essendo l’unica persona convinta della sua bugia. Le motivazioni escono immediatamente allo scoperto, se uccidi troppo presto i tuoi nemici.

Ma la vita non è come il Lupo Mannaro, e a 46 anni Ray era morta di un carcinoma ovarico che si era poi esteso a tutto il corpo. Prima di morire era andata un’ultima volta in Maine col suo Chinook, aveva lasciato Paul alla casa famiglia ed era andata a messa con Claire e sua madre, anche se nessuna delle tre lo faceva in circostanze normali. Ray, quasi un metro e 80, robusta e con un bel volto austero, cantava a pieni polmoni con un ululato che poco si addiceva al vibrare dei soprani intorno a lei. A occhi chiusi, batteva i piedi e oscillava. In quell’occasione Claire pensò che forse non era l’unica a sentirsi piccola e debole accanto a Ray, inibita dalla sua sola presenza—forse succedeva anche alle altre donne, e magari persino agli uomini.

In ospedale Claire aveva avuto paura che Ray potesse metterla alla sbarra, ma la zia non le rivolse lo sguardo. I due figli le tenevano le mani sulle spalle, la madre di Claire le toccava un piede e la nonna l’altro. Non c’era posto per la mano di Claire, che la posò mollemente sul polpaccio della zia, sulla pelle, senza sapere se stringere o accarezzarla. La gamba sembrava ancora forte, così come il corpo coperto dal camice, ma il volto era scarno e piccolo. Prima di morire Ray parlò di cheeseburger e di Reuben che suonava il trombone, dei nuovi film in uscita e del balletto che Paul e gli altri della casa famiglia stavano allestendo. Poi smise di parlare. Passò lo sguardo da un figlio all’altro, prima Reuben e poi Paul.

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Claire era arrivata alla conclusione che Ray non aveva nemmeno un grammo di forza per mettersi a contestare qualcosa di così piccolo come la falsa accusa per un legnetto. Che conseguenze aveva avuto? I suoi figli erano lì, al suo fianco, con le mani che le stringevano le spalle—le dita lunghe da chitarrista di Reuben e quelle tozze di Paul, con gli anelli che gli piaceva indossare. Erano quasi degli uomini. Paul avrebbe dovuto farcela senza sua mamma. Parlavano di tutto, delle loro vite, della scuola, delle ragazze, di tutto, persino di cosa avessero mangiato in uno specifico giorno. Era tutto importante. Nel cuore di Ray non c’era nemmeno un briciolo di spazio per occuparsi della bugia che aveva consumato Claire. E Claire capì che non contava, mentire o non mentire: erano entrambe due azioni irrilevanti. Almeno per Ray e Paul, e quella era l’unica cosa che contava.

L’estate dopo la morte di Ray tutti i ragazzi del paese si erano ritrovati al fiume per giocare. Claire era passata a prendere Paul dalla casa famiglia per portarlo a cena dalla nonna, e più tardi andarono al fiume. Era un bravo nuotatore. C’erano tutti i villeggianti, gruppi di ragazze e ragazzi abbronzati che arrivavano dal Connecticut per due settimane. E poi c’erano i ragazzi del posto. Giocavano a un gioco che chiamavano la Fossa del Coccodrillo. Aggrappati alla fune bisognava passare da una riva all’altra del fiume. Quando Paul si tolse la maglietta nessuno sembrò notarlo, ma Claire avvertiva i loro occhi puntare sulla sua pancia rotonda e bianca, che si afflosciava sopra l’elastico del costume. Tutti riuscirono a passare da una parte all’altra del fiume in brevissimo tempo, quasi troppo poco, sembrava, e sulla riva rimasero solo Paul e Claire, mentre dall’altra i ragazzi osservavano, ridacchiavano e aspettavano. Uno rilanciò indietro la fune.

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“Vado,” disse Paul facendosi scrocchiare le dita. Dall’altra sponda qualcuno disse, “Così, vai.”

“Sei sicuro?” gli chiese Claire. Paul annuì, “Sicuro,” e afferrò la fune. Si lanciò per poi passare agilmente sull’acqua, mentre tutti facevano il tifo. Ma lo slancio non era stato abbastanza forte da permettergli di arrivare dall’altra parte, o forse Paul era semplicemente troppo pesante. Arrivò a poca distanza dalla riva, e i ragazzi si lasciarono andare a un “Oooh” nel vederlo tornare dall’altra parte, verso Claire, e poi fare avanti e indietro sempre più lentamente, fino a fermarsi al centro del fiume.

“Cosa faccio adesso?” gridò. La fune ruotava su se stessa facendolo girare.

“Molla la presa, non è pericoloso,” disse Claire.

“Ho paura. Non riesco,” le urlò di rimando Paul. Piangeva, e i ragazzi dall’altra riva avevano smesso di parlare. Piangeva sempre più forte.

“Al mio tre, lasciati andare, ok? Uno, due, tre,” fece Claire. Il costume gli stava scivolando lungo i fianchi, e in faccia si era fatto rosso per lo sforzo. Tutto sommato, Claire era sorpresa della sua forza.

“Non voglio,” disse Paul. Claire osservò le sue dita mollare la presa poco a poco, mentre lui mugolava e piangeva. La fune continuò a girare su se stessa, finché Paul non cadde in acqua. Urlò anche in quell’istante.

Riemerse praticamente subito. Il suo corpo aveva sempre quell’aspetto in acqua, di galleggiamento senza sforzo. Quando lo portava in piscina poteva anche trascorrere ore in acqua, a galleggiare sul dorso come un gommone pallido.

Nuotò fino alla riva da cui era partito e si tirò su il costume. Dall’altra parte, un ragazzo disse, “Va tutto bene, sì? Noi andiamo a fumare,” e seguì il gruppetto nel bosco.

Paul si sedette a gambe incrociate su un masso. Piangeva. Si era fatto buio e fresco. I suoi vestiti erano tutti bagnati, e non le parlava. Era ora di andare, Claire glielo disse. Dovevano tornare alla casa famiglia. Lo prese per mano e tornarono dalla nonna. Aveva la mano appiccicosa, ma fu solo arrivati a casa che notò i segni rossi sui palmi, quelli delle bruciature provocategli dalla fune. Ma non c’era tempo per consolarlo: doveva lasciarlo alla casa famiglia entro le nove. In macchina fecero tutta la strada in silenzio, e lo salutò ancora in quello stato, tra le lacrime e con in mano un tubetto di crema antibiotica. Era ingiusto che Paul non avesse più la sua mamma, che dovesse medicarsi da solo, entrare e andare a dormire in una casa piena di sconosciuti, tutto con le mani che si ritrovava. Ma allora Claire aveva solo 17 anni. In parte lo doveva a Ray, e anche a Paul, ma non sapeva come farlo. Così iniziò ad andarlo a trovare ogni domenica. Negli ultimi 11 anni aveva perso solo due appuntamenti.

Nel frattempo Paul ha finito la pizza, lasciando solo la fetta che Claire aveva preso per sé e che aveva spizzicato. Potrebbe confessare la sua bugia a Paul, ma a che pro? Paul non ha bisogno della sua confessione. Claire torna con la memoria a quella cena di molto tempo prima in cui la nonna gli aveva detto di smetterla di impiastricciarsi la faccia col cibo, e lui aveva continuato a mangiare con soddisfazione, come fosse stato una mucca al pascolo e la nonna una mosca. Sa che se confessasse lui direbbe, “Va bene,” per poi scrollare le spalle e chiederle se ha o meno intenzione di finire la sua crosta.

Invece Claire dice, “Ti andrebbe di venire a vivere con me e Hal?”

Con un’alzata di spalle, Paul risponde, “Credo di sì. Se vuoi tu.”

Così, in poco spazio, il loro accordo si conclude. Nel parcheggio Paul si avvicina a un lampione, si accovaccia e posa una mano a terra.

“Qui è successo qualcosa,” dice. Sembra rifletterci molto, un lungo momento tipo esperienza extrasensoriale, come se vedesse un’immagine del passato dipanarsi di fronte ai suoi occhi.

“Cosa è successo?”

“Una guerra,” dice. E non aggiunge altro. A casa, Claire è a letto accanto ad Hal e lo osserva.

Non gli ha parlato della proposta a Paul, e con tutto quello che lui sa di lei, stasera non conosce i segreti del suo volto: Paul, il Lupo Mannaro, la sua oscurità. I suoi pensieri di qualche ora prima sul lupo mannaro appaiono distanti e folli, difficili da analizzare nel caso in cui cercasse di riformularli ora, a letto, come un’equazione di matematica che non sa risolvere due volte. Rimane la vaga sensazione che ciò che la spinge verso il bene non è la purezza, ma un luogo oscuro che ha bisogno di camuffarsi, ancora e ancora.

“Ehi,” dice Hal, e avvicina al mano alla collana con uno smeraldo che le ha regalato per il loro ultimo anniversario. “Hai tutti i capelli impigliati nella collana.”

È così, c’è un nugolo scuro di capelli annodati nel fermaglio. E per quanto Claire cerchi di toglierli, il nodo è così stretto che per stasera è inutile continuare. Stare in quella posizione per guardare la collana le fa venire mal di testa.

Si volta su un fianco e Hal la cinge con un braccio. È un brav’uomo e la ama, qualcosa vorrà dire. Claire sa che finirà per accettare la presenza di Paul in casa, anche se magari non inizialmente. Ma Paul è suo, e Hal è suo, e col tempo le cose si sistemeranno. Mente si ripete il mantra pensa ai pranzetti salutari che cucinerà per Paul, alla stanza che immaginava come nursery e che ora potrebbe diventare sua, e pensa al colore con cui la dipingerà.

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