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Demented parla da solo

Demented disegna da solo

Se c’è una cosa che si può fare da soli e tutti approvano, o ti invidiano anche, è disegnare.

Illustrazione di Simone Tso.

Se c’è una cosa che si può fare da soli e tutti approvano, non sei visto male, puoi starci quanto vuoi e anzi ti invidiano anche, è disegnare. Certo anche scrivere ci si avvicina, ma scrivere (nei casi medi) implica comunque l’uso del cervello. Disegnare, a mio avviso, è una questione di pancia, di interiora. È come una coratella che si insaporisce in padella, non c’è coscienza. Perché io affronti questo argomento è presto detto: disegnare è una delle mie più grandi passioni. Da bambini tutti—ma proprio tutti—non possono fare a meno di disegnare. È il modo più diretto per comunicare e soprattutto per dare una forma “interna” alla realtà circostante: non raffigurazione esatta delle cose, ma una trasfigurazione in un mondo in cui la mamma ha le braccia verdi o l’albero è fatto a spizzichi e spruzzi o la casa improvvisamente prende forme ondulate a seconda dell’umore di chi disegna. In poche parole, psichedelia con pochi effetti collaterali ma estremo piacere anziché no. Io, probabilmente come molti miei coetanei d’epoca, stavo in fissa per diventare fumettista. Sceneggiavo e disegnavo tonnellate di fumetti, di solito plagiando personaggi di Topolino: al posto di Paperino avevamo un gatto, Topolinia diventava Miciolinia, ma le storie erano tutte farina del mio sacco. Leggere i fumetti è stato il modo con cui ho imparato a leggere e basta, tanto che sono entrato in prima elementare che già andavo come un razzo. Conseguenza: mentre nelle ore di italiano gli altri balbettavano cercando di capire quelle strane forme nere, io invece disegnavo fumetti col beneplacito dell’insegnante, poiché non sapeva che farmi fare. Talvolta mi metteva nella condizione imbarazzante di piazzarmi in cattedra quando doveva uscire per farsi i cazzi suoi e farmi leggere i miei fumetti alla classe. Ovvio che nessuno capiva un‘acca di quello che stavo facendo, però alla fine bene o male ascoltavano. E fu da lì che la passione aumentò. Ma non credete che io fossi il cocco della maestra, nelle ore di matematica venivo seviziato, perché ero una mezza sega.

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Più grandicello, parliamo di nove-dieci anni, ci fu un episodio che in un certo senso mi cambiò la vita. Nel cortile della scuola spesso transitavano tossici, gente che scavalcava, insomma era un po’ un macello. Durante l’ora di ginnastica, fra l’erbe di prato, fece capolino una pagina strappata di un fumetto, con una donna bellissima e nuda in rigoroso bianco e nero. Ci fu un fremito che ancora adesso non so spiegare, una sensazione di libertà e di “high”, per dirla in gergo giovane. Ebbene era Valentina di Crepax, uno dei più grandi maestri in fatto di storture migliori del reale. Il suo tratto serpeggiante, a volte onirico, del tutto imperfetto mi faceva salire la stessa emozione che poi provai in un letto la prima volta che lo feci. Da quel momento entrai in fissa coi fumetti erotici, capii quanto può essere dirompente l’erotismo del segno: disegnavo le mie donnine, situazioni porno, tutta una serie di fogli che poi distruggevo per timore che i miei le vedessero. Era proiettare dei desideri sulla carta, che poi diventavano bene o male reali: esattamente quello che per me era il disegno. Prendere un desiderio e imprigionarlo sulla carta come un canarino nella gabbia, per poi liberarlo nella realtà. Ovviamente questa realtà doveva fare i conti con i mostri, ed ecco che—all’arrivo sugli schermi dei famossissimi Masters of the universe—improvvisamente il desiderio di “weirdness” divenne una cosa imprescindibile. E giù disegni con mostri allucinanti, un po’ presi dal cartone animato un po’ inventati di sana pianta: un cercare di rendere i muscoli ipertrofici inventandoseli pure, un po’ come faceva Liberatore con Ranxerox (cosa che seppi molto più tardi). Insomma una tendenza a esagerare i tratti e a vedere la fantascienza come un mondo che ti può mangiare vivo ed esplodere quando meno te lo aspetti: fomentato soprattutto dal periodo storico a base di centrali nucleari impazzite e guerra fredda. Questo era il modo in cui fino a nove anni mi esprimevo, ed era fantastico.

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Altra cosa che mi divertiva molto era fare delle vignette di satira politica, un po’ tipo Forattini: facevo caricature dei politici mettendoci sotto battute che capivo solo io, però le leggevo e mi ammazzavo di risate. A un certo punto mi misi anche a disegnare me stesso, inventandomi storie in cui io—a seconda della situazione—diventavo calciatore, esploratore, insomma tutte cose in cui nella realtà ero una pippa e invece nel mio mondo fantastico ero uno dei più fighi e vincevo sempre. Magie del disegno, toccasana per l’autostima.

Poi però nella mia vita arrivò la chitarra elettrica. Quando Videomusic muoveva i primi passi e per la prima volta un tv color era in casa mia, la vidi. Rimasi folgorato prima dalle sue forme, poi dai video che erano al top della sperimentazione, e poi dalla musica. Cazzo, una cosa che supera di gran lunga disegnare! Non che non avessi mai veduto una chitarra elettrica, ma in quel momento ne ebbi coscienza, forse a causa del colore catodico. Con la musica per me si poteva raggiungere una multimedialità impossibile col disegno: e da quel momento sono diventato un tossico di suoni immagini e travestimenti.

La matita non venne però abbandonata, anzi: mi inventavo copertine dei miei ipotetici dischi, sulla falsariga dei Bee Hive e di "Purple Rain" di Prince disegnavo storie rock con bande rivali, risse a colpi di chitarre, concerti col sangue che ti esce dalle mani mentre zappi le corde alla Springsteen. Un mondo che era un desiderio continuo e muoveva la mia penna anche a immaginare e progettare degli strumenti musicali avveniristici. Tipo che ne so, la chitarra a tre manici col sintetizzatore incorporato, quella con la tastiera da piano e poi le corde annesse, prototipi di roba con vari design che forse avrei dovuto brevettare. In questo trovai spunto—inconsciamente—da Leonardo Da Vinci che si inventava macchine che poi non funzionavano per un cazzo. Però era fico immaginarle e chissà che in futuro qualcuno non avrebbe realizzato l’ennesimo desiderio, forse io stesso ne avrei avuto le forze (non disperate, accadrà).

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Poi la passione per la musica mi prese tutto, e fogli e matita vennero infilati nel cassetto. Ogni tanto una caricatura sul diario, ma niente di più: pensavo di non essere sufficientemente bravo. E la faccenda durò per un bel po’, fino alla fine degli anni Novanta. Lì sposai la causa del noise, e quindi si potevano fare dei disegni storti per decorare le cassette autoprodotte: i giapponesi usavano delle grafiche al limite del manicomio criminale e quindi capii che il mio tratto poteva tornare utile. Si trattava comunque di sporadici interventi: per un periodo mi buttai anche nella pittura (da piccino mi piaceva anche colorare, pero' si tratta di un'altra storia) ma la trovai scomoda, quasi un romanzo rispetto a una canzone. Quindi tornai al disegno sporadico di cui sopra. Il mondo del fumetto però continuava a interessarmi, soprattutto ero fan degli Snatch comics e Rory Hayes, per me un maestro, e subito dopo tutta la roba che gravitava attorno a Paper rad. Poi, nel 2008, credo, decidemmo su idea di Alan Parsec di Catastrophe di aprire una rivista di fumetti e varie ed eventuali chiamata Epoc Ero Uroi (ora in standby). Allora là mi prese di fare un personaggio chiamato Gecocci, che ne combinava di tutti i colori col suo amico Pa: una specie di aggiornamento de La Linea in chiave “splatter”.

Una mia foto con Gecocci.

Mi trovai improvvisamente incitato a disegnare di più: quello che facevo piaceva ai miei amici disegnatori (fra gli altri Simone Tso che vedete qui sopra, Re delle Aringhe e Ciro Fanelli), e Massimiliano Bomba mi propose di pubblicare una fanzine dedicata su Raw Raw che ancora va avanti. E così adesso sono tornato a coltivare la mia passione d’infanzia, grazie soprattutto al loro incitamento. Facciamo quasi tutti comunella nel collettivo Paalude, perché alla fine da cosa nasce cosa. Grazie amici.

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Paalude dal flickr di un affiliato, raniero B.

Ma a differenza di quando disegnavo da piccolo, ora più che la proiezione di un desiderio è partorire una creatura che desidera lei stessa uscire. Non mi metto mai a pensare se e quando disegnerò: di solito la mano mi diventa medianica in posti pubblici. Al bar cinese sui tovagliolini di carta, in trattoria sulla tovaglia (come da vecchio articolo), su qualsiasi superficie non sia adibita al disegno finanche la carta igienica. E c’ho il tratto spastico perché mi viene naturale il piano sequenza, non ritorno sui miei passi, c’ho le idee storte: rimango in bianco e nero perché è come se lo potessi colorare quando e come mi pare con il semplice strumento della mia immaginazione e così vorrei che facesse chi lo guarda, altro che serigrafia. La cosa che mi piace è che è un gesto inutile, gratuito ma nello stesso tempo mi ricorda la stessa pasta dell'esistenza: forse la versione in reverse del disegnare ideogrammi. Ma senza che stiate troppo ad ascoltare le bocche che mi sto facendo da solo, non perdete tempo e fate come me: prendete un qualsiasi pennarello/penna/piuma di piccione/quello che vi pare e disegnate, fate gli sgorbi, tirate fuori dalla testa i vostri grilli prima che lo faccia lo psichiatra col Rorschach. Vedrete che la favola di Roger Rabbit, alla fine, tanto favola non è quanto favolosa realtà.

Dove non altrimenti indicato, le immagini sono prese da Psicopompo, l'ultima pubblicazione di Demented per Raw Raw. 

Segui Demented su Twitter: @DementedThement

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