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Demented parla da solo

Opere minori, omissioni maggiori

Lo confesso, ho un problema con la definizione “capolavoro”. Non perché in sé sia una parola falsa o usata per opere schifose anziché no, ma perché spesso manca di profondità. Ecco perché preferisco le opere minori

Illustrazione di Simone Tso.

Lo confesso, ho un problema con la definizione “capolavoro”. Non perché in sé sia una parola falsa o usata per opere schifose anziché no, ma perché spesso manca di profondità: in che senso possiamo definire una cosa capolavoro? Perché raggiunge il massimo delle potenzialità espresse, perché è fatta in stato di grazia, oppure semplicemente perché è un must istituzionalizzato che non deve essere messo in discussione?

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Il problema sta tutto qui: posso definire capolavoro anche qualcosa che è riuscito perfettamente all’opposto delle intenzioni iniziali, e in quel senso forse la percezione di fallimento viene ribaltata. L’autore magari pensa che quello che ha fatto sia una mezza merda e la gente lo incensa: la situazione diventa paradossale. Oppure, semplicemente, da quando—per dirne una—hanno introdotto la funzione “trash”, molte cose incasellabili e prive di senno sono diventate automaticamente capolavori di genere (metti Solange con le sue palline colorate, indiscutibilmente un momento altissimo e spiazzante di non si sa cosa), separate dai capolavori “ufficiali“ solo per quella dicitura dispregiativa che rivela quanto ciò che è diverso faccia ancora molta paura e necessiti di un ghetto linguistico e non. Anche l’ignoranza, d'altronde, crea capolavori dal nulla: come diceva Freak Antoni “tu gli dai la stessa storia/tanto lui non ha memoria." Ed ecco perché al capolavoro preferisco le opere minori, di cui, come avrete facilmente intuito, sto per tessere le lodi.

Palline colorate di Solange, roba da non credere.

Queste povere opere minori sono spesso qualcosa di traballante, deforme. Relegate in un angoletto da critica e pubblico, diventano veri e propri oggetti di culto: e non a caso. Il fascino dell’azzardo, la fiamma di un tentativo che riesce a metà o semplicemente il guizzo megalomane di un pazzo, sono sempre cose che portano la mente a fare dei salti cognitivi importanti.

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A me almeno capita di immaginare la situazione di chi si è infilato in una determinata impresa e non ce l’ha fatta. Vederlo al tavolino, chino a perdere sette chili per ottenere qualcosa che non riuscirà a fare breccia, magari si ammala pure per la causa, ma tutto è inutile. In quel caso solo il tempo potrà rendere giustizia: a volte qualcuno la sfanga e in determinati periodi storici il discorso “minore” diventa improvvisamente la cifra del gusto popolare e critico, il metro del capolavoro a svantaggio di altre opere che continuano ad essere percepite come di scarso interesse. John Lydon parlando dei Velvet Underground, nel lontano 1978, diceva proprio questo: un gruppo che da minore si ritrova a fare scuola. Ad ogni modo in ognuna di queste opere c’è l’ingegno e il sudore: e cosa ancor più importante c’è tutta la fragilità umana, nel bene e nel male.

Il disco ultraminore dei Velvet, orfani di Lou Reed: considerato un disco solista di Doug Yule, c’è addirittura gente che afferma sia il loro miglior disco.

Per arrivare infatti all’opera “capolavoro” tocca passare attraverso una serie di vicissitudini umane e artistiche che condizionano tutto: a meno che non si tratti di robot, gli artisti cercano soluzioni uguali e contrarie alla pressione della vita—e dei vari committenti/padroni/ finanziatori. Quindi che ne so, problemi di droga, blocco dello scrittore, storie d’amore finite male, scelte di collaboratori sbagliate, lutti e talvolta, paradossalmente, anche il successo improvviso manda tutto in cortocircuito.

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Molti grandi promesse sono cadute proprio dopo la prova del nove dell’opera minore: ovviamente nessuno può stare sul pezzo in eterno, ed è proprio l’opera minore ad essere il termometro del vero artista, di chi non si vergogna dei passi falsi ma anzi, li usa e li vive come si vive la vita.

Chi di noi non ha conosciuto i grandi tramite l’acquisto di qualche loro cosa non proprio riuscitissima o sottovalutata? Be', penso tutti: anzi, il valore affettivo che può avere una certa opera rispetto alla scoperta di un certo autore supera di gran lunga il valore critico. Talvolta poi dipende dalle ere: ci si affeziona sicuramente di più a quello che è maggiormente nelle corde del proprio vissuto, e lì non c’è recensione che tenga. Anche gli artisti minori: a volte sembrano più fighi degli altri e più che minori sembrano semplicemente incompresi,e infatti—ad esempio —sconosciuti compositori di libraries oggi sono considerati dalla critica qualcosa di imprescindibile, quando all’epoca sì e no sbarcavano il lunario incidendo colonne sonore di porno.

Ultimamente ho passato il Record Store Day chiuso in diversi record store di Colonia e mi sono imbattuto nel disco degli Eloy, Metromania. Costoro come qualcuno di voi saprà sono un gruppo psyc/prog “minore” dei Settanta, che negli anni Ottanta ha tirato fuori sto disco incomprensibile tra vocoderate a cannone, synth pop glaciale, disco e imitazioni degli Yes di Drama, che avrà venduto meno di un cazzo. Be' nonostante il rischio ne sono rimasto affascinato. Non chiedetemi perché: evidentemente perché trasuda un delirio e un’assurdità di fondo che come minimo merita un approfondimento della mia insana curiosità. Molte volte i capolavori non fanno questo effetto.

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Gli Eloy sicuramente non stanno bene, questa ne è la prova. Funziona? Non funziona? Boh.

Detto questo potrebbe sembrare che le opere minori siano qualcosa di puro e onesto, quasi prezioso. Non è proprio così: ovviamente capita che siano delle vere e proprie paraculate fatte apposta per i soldi, ma in quel caso non c’è problema per l’autore. Anzi, ci troviamo di fronte a un cinismo di fondo che a volte funziona a breve termine, ma a lungo termine giammai. Ecco infatti compreso perché molti artisti occupino posti di primo piano per brevi periodi di tempo per poi cadere nel dimenticatoio più totale subito dopo. L’opera minore in quel caso è strumentale all’usa e getta, al facile consumo e quindi completamente slegata da un discorso di veracità. È come quando al ristorante ti fanno la pizza coi lieviti chimici e torni a casa come drogato col ventre a mongolfiera: tocca starne alla larga, ma è giusto provarla per vedere se almeno sopravvivi.

Il fascino di un opera minore imbarazzante, poi, è più forte di quello di un capolavoro o di un‘opera minore ben fatta. Ci si chiede come possa essere, se è vero che faccia così schifo. Cercare nelle pieghe di ciò che è impopolare e capirne il senso è sicuramente più stimolante e illuminante rispetto al concetto di opera come qualcosa di separato dall’autore, come se  si scrivesse da sola nonostante tutto il carico umano. Si sa, i capolavori nascono da grande intensità emotiva, ma le opere minori forse sono l’intensità ridotta a brandelli, portata ancora più allo stremo, che accelera sapendo che di fronte a lei c’è un muro d’aria.

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A volte il vero capolavoro è quello che non si capisce e mai si capirà, fuori dalla normale concezione di gusto: le opere minori sono a volte, nella loro imperfezione, questo. Qualcosa che appena viene preso in considerazione apre una nuova era. Potremmo fare molti esempi che però rischierebbero di essere meri elenchi. Giusto per gradire, ricordiamo Dazzle Ships degli OMD. Il disco che affossò per sempre la loro popolarità, al tempo della sua uscita (1983) venne osteggiato da tutti. Solo da poco, per la sua coraggiosa commistione di musica concreta, cut up e synth pop ibrido, è stato rivalutato in quanto punto di riferimento di band di ultraclassifica come i Radiohead quanto di sperimentatori quali Terre Thaemlitz.

Oppure Osterman weekend di Sam Peckinpah: considerato una merda da tutti, solo in questi ultimi anni è stato spesso ripescato e rivisto criticamente come il film del canto del cigno attraversato dai problemi del regista, primo fra tutti l’alcolismo; per quanto abbiano sempre cercato di affossarlo, ha avuto all’epoca successo nel giovanissimo circuito home video per la sua tematica tecnologica—circuito ovviamente considerato a quei tempi “minore”. E la colonna sonora di lalo Schifrin è una bomba elettronica che da sola salva tutto.

Potremmo continuare con la letteratura, ricordando Patrizia Vicinelli: la geniale poetessa che seppure pioniera di multimedialità applicata alla parola e allo scritto viene ancora relegata a un pubblico di nicchia e sotto sotto considerata dai piani alti come “minore”. Anche in questo caso solo in tempi recenti si è sviluppato un interesse su di lei prima impensabile, con addirittura un certo accenno di proselitismo che sarebbe dovutissimo.

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Certo, non è che stiamo qui a fare del revisionismo o del buonismo a caso come si potrebbe obiettare: quando si vedono infatti opere come la Battaglia di Anghiari di Leonardo, lasciata addirittura incompiuta, non si può che gridare al capolavoro proprio perché incompiuto. Sicuramente gli è venuta meglio de l’ultima cena, che a causa del suo colore composto di oli sconosciuti e chissà che altra monnezza non si riesce a conservare manco ammazzati. Ecco, diciamo che con questo esempio l’opera minore e il capolavoro coincidono: sono due facciate di uno stesso dado lanciato sul tappeto verde. Quello che sfida il tempo e lo spazio, come se non ci fosse un domani: ed è proprio in quel momento che, paradossalmente, il domani si fa strada.

Una copia di Paul Rubens della parte centrale della Battaglia di Anghiari. Capolavoro o meno, coloratelo voi.

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