Sulla razza

Smettiamola di dire che in italiano la n-word non è grave come in inglese

Da anni viene ripetuto che non dovrebbe essere detta da persone bianche perché discriminante e oppressiva. Eppure la si continua a usare senza problemi.
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Illustrazione via AdobeStock.

Questo è un approfondimento della quarta puntata del podcast “Sulla Razza” dedicata alla “parola con la n”, la sua storia negli Stati Uniti e come è stata tradotta in Italia. “Sulla Razza”, di Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, vuole intavolare una conversazione sulla questione razziale in Italia, e vuole farlo utilizzando un linguaggio aggiornato. Puoi ascoltarlo su Spotify, Apple e Google Podcast. Intanto, segui “Sulla Razza” su Instagram, o vai in fondo all’articolo per avere più informazioni sulla nostra collaborazione col podcast.

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Negli Stati Uniti è dato per scontato che siano solo i neri a poter usare la parola con la n. Se lo fai e non sei nero, vieni visto come razzista. Semplice. Anche se la senti in una canzone non la dovresti pronunciare quando la canti, come ha spiegato Kendrick Lamar a una fan bianca che aveva invitato sul palco a duettare con lui—diciamo che più che spiegare, l’aveva cazziata perché secondo lui avrebbe dovuto dire “bleep”, per poi chiederle di scendere dal palco. Quindi semplice. Non si dice.

In Italia, tutto questo è molto complicato. O meglio, è da anni che ripetiamo che non dovrebbe essere detta da persone bianche perché è discriminante e oppressiva. Ma oltre ai casi più espliciti—come la recente aggressione vicino Lecco—a guardare la televisione o frequentare i social parrebbe che non se ne faccia un problema. A volte viene censurata, altre no. In certi casi i concorrenti del Grande Fratello vengono squalificati per averla detta, in altri no. 

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Chi è nero, in Italia?

Nella quarta puntata di Sulla Razza abbiamo analizzato parole ed espressioni problematiche, soffermandoci proprio sulla parola con la n. In questo articolo ne parliamo con Federico Faloppa—docente di Sociolinguistica all’Università di Reading e autore di #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole—per capire l’origine di questa parola e perché ancora oggi sia usata con disinvoltura.

VICE: La parola ‘ne**o’ è stata usata, anche recentemente, in programmi televisivi italiani. Perché tuttora non la si percepisce come violenza, e perché l’uso viene sanzionato in alcuni casi e non in altri? 
Federico Faloppa
: Credo che ci sia una falsa credenza, una convinzione basata su falsi miti che in italiano la parola con la n sia meno offensiva o grave dell’inglese perché etimologicamente legata al latino. 

Mi viene in mente appunto Fausto Leali, che si è giustificato dicendo che fino a venti o trent’anni anni fa c'era una percezione diversa. In realtà, già dagli anni Ottanta si è capito che quella parola aveva una portata semantica negativa, proprio perché in italiano aveva una storia legata alla oppressione, allo schiavismo, al razzismo di stampo fascista—e non solo.

Eppure anche oggi ci si lamenta evocando presunte “censure” del linguaggio, come fa ad esempio Vittorio Feltri, perché la “gente normale” parla così e impedire di parlare in quel modo comporterebbe un’operazione di pulizia linguistica.

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Ovviamente è del tutto falso, perché chi usa la n word lo fa proprio per discriminare. Basta chiedere alle persone nere che effetto fa quando la sentono pronunciare.

Secondo lei, paragonata ad altre lingue, quella italiana tende a discriminare di più?
Credo che ogni lingua abbia la sua storia. La lingua di per sé non è violenta e discriminante, sono i parlanti e l’uso che ne fanno ad esserlo. L’italiano ha una vastissima gamma di espressività, dai registri informali e bassi ai registri più alti, dove le parole hanno i loro significati e la loro polisemia.

Ho studiato a lungo i modi di dire dialettali di secoli fa, che veicolavano gli stereotipi negativi nei confronti di chi aveva una religione o provenienza diversa. Il folclore e la cultura popolare hanno trasmesso questi elementi, perché c'era una visione del “noi” e del “loro”: la comunità locale è associata a qualcosa di positivo, e chi viene dall’esterno a qualcosa di negativo.

Da questo punto di vista tanto razzismo e tanta discriminazione sono stati veicolati non sempre con intenti di razzismo politico-scientifico, ma semplicemente per ragioni di—diciamo così—limitatezza culturale.

Invece che prendersela con la lingua o dire che “certe cose non bisogna più usarle,” credo che tutti i parlanti dovrebbero assumersi la responsabilità delle parole che usano.

E i media, invece, che responsabilità hanno nel promuovere parole problematiche?
Chi fa comunicazione politica ha una responsabilità. Quando ci si rivolge a una audience composita, di cui non si conoscono le caratteristiche, si dovrebbe tener conto di tutte le sensibilità. Tuttavia, spesso non succede e si fa molta fatica a prenderne consapevolezza.

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Io temo che la n-word possa essere utilizzata proprio per provocare e cercare di acchiappare un pezzo dell’opinione pubblica. Sappiamo, come dicono gli studi più recenti sui discorsi d'odio, che chi insulta utilizzando queste parole tendenzialmente non ha un obiettivo ben definito, ma lo fa più che altro per polarizzare. Scegliendo termini più neutri, la loro comunicazione sarebbe meno provocatoria—e quindi meno visibile.

Non stiamo parlando della classica discussione da bar, che può essere pericolosa ma comunque ha una diffusione limitata. Il linguaggio pubblico e istituzionale deve essere inclusivo di tutta la società, cioè aderente all’articolo 3 della Costituzione.

A proposito di articolo 3: secondo lei non si dovrebbe eliminare il termine “razza”. Ci può spiegare perché?
Da tempo si chiede di togliere la parola razza dalla Costituzione, principalmente perché le razze—come ci confermano la scienza, la biologia e la genetica—non esistono. Penso che sia un dibattito legittimo; tuttavia, quando si parla del testo costituzionale, ci sono alcuni motivi per cui sarebbe più controproducente toglierlo che lasciarlo.

Un po’ di persone spiegano cos’è, secondo loro, la razza

Anzitutto, la parola “razza” è stata scelta in un preciso contesto storico. È un testo che è stato scritto alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ed è il risultato di un grande dibattito che ci fu già allora. L'unione delle comunità israelitiche chiese la rimozione di razza e la sostituzione con “stirpe,” perché sembrava più adeguata.

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I revisori fecero poi delle riflessioni molto acute, proprio in ragione di quello che era successo nei decenni precedenti: si voleva sottolineare l’avversità della Repubblica contro i crimini commessi in nome della “razza,” mettendo nero su bianco che non esistono distinzione in base alla “razza” e che non si tollera l’effetto classificatorio e discriminatorio.

Qualche anno fa dialogavo con Ezio Mauro sui fatti di Macerata del 2018 (sui quali ha scritto un libro intitolato L’uomo bianco), e secondo l’ex direttore di Repubblica è quasi deterministico che—in una società come quella italiana, dove le destre hanno sempre più spazio e legittimità—ci sia qualcuno che prende alla lettera questa lotta.  

Tuttavia, credo che non sarebbe così deterministico se noi avessimo la legge sulla cittadinanza che compensa una volta per tutte l'equazione “italiano = bianco,” che è alla base del razzismo italiano.

In mancanza di questo tipo di azioni, togliere la parola “razza” dalla Costituzione potrebbe finire con l’essere un lavoro di riverniciatura lessicale, con dei risultati molto limitati o addirittura controproducenti. I Vittorio Feltri di turno, ad esempio, potrebbero dire una cosa come: “Vedete, avete provato a dare una riverniciata alla lingua ma non avete risolto il problema.”

Quindi dovremmo agire sul versante del linguaggio, accompagnandolo però a elementi di inclusione e di cambiamento sociale veri.

Per 30 minuti, due volte al mese, Sulla Razza tradurrà concetti e parole provenienti dalla cultura angloamericana, ma che ci si ostina ad applicare, così come sono, alla realtà italiana—BAME, colourism, fair skin privilege. In ogni episodio si cercherà di capire come questi concetti vivono, circolano e si fanno spazio nella nella nostra società. Sulla Razza sarà anche una newsletter, e qui su VICE pubblicheremo periodicamente contenuti di approfondimento sulle singole puntate.

Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, grazie anche alle voci e ai punti di vista degli italiani non bianchi, parleranno di come queste parole impattano le vite di chi è marginalizzato e sottorappresentato da molto tempo.

Sulla Razza è un podcast prodotto da Undermedia grazie al supporto di Juventus.