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Italia

Quello che hanno fatto degli alpini a Trento non è 'roba da alpini': è uno schifo

La 91esima adunata degli Alpini a Trento ha lasciato dietro di sé tantissime testimonianze di molestie e approcci non richiesti.
L'adunata degli Alpini a Torino nel 2011. Foto via Flickr/Raffaele Sergi.

Che un evento come l’annuale raduno degli alpini occupi per una settimana le cronache nazionali lascia un po’ stupefatti. Eppure la 91esima adunata, che si è svolta a Trento tra l’11 e il 13 maggio, ha trasformato una città silenziosa e ossessionata dal decoro in quella che molti hanno descritto come una terra dove più o meno tutto era concesso. A patto di essere uomini, bianchi e alpini (o simpatizzanti).

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Come racconta il giornale locale Dolomiti, si è trattato di un evento di grandi proporzioni—circa 600.000 partecipanti e tweet di Giorgia Meloni e Matteo Salvini a contorno—durante il quale vigevano regole speciali: “la città si ‘regala’ ai suoi ospiti” con tanto di deroghe al consumo di alcol, nonostante le avvisaglie dell’anno scorso a Treviso, e docce negli autolavaggi. Per meglio venire incontro ai consumatori, anche i negozi di dolci e vestiti si sono attrezzati con spine di birra e bottiglie di grappa. Con conseguenze che per molti visitatori e residenti (donne in particolare) hanno significato approcci non richiesti, insulti e molestie.

“Una calca di soggetti puzzolenti di sudore, alcol, salsicce,” ha scritto alla pagina Facebook di Non una di meno -Trento una ragazza, dopo l'invito del gruppo a inviare testimonianze dell'evento. “Io e la mia amica in meno di un minuto abbiamo rimediato palpate fin sotto le piante dei piedi. Ci siamo letteralmente lanciate fuori quella bolgia inseguite da mani, risate, strusciate fetenti, sguardi rivoltanti. I nostri due amici hanno perfino tirato qualche pedata e spinta per permetterci di uscire. Ma nemmeno fuori hanno desistito, pareva che l'averci toccate dappertutto gli avesse tolto ogni ritegno. E lì è successo. Uno mi ha infilato la mano tra le cosce da dietro.”

Dopo le prime denunce, in tanti si sono rivolti a stampa locale e social network per raccontare quanto vissuto in prima persona, da approcci tipici del branco—“Ti adocchiavano, facevano in modo di bloccarti il passaggio e se tu ti fossi permessa di ignorarli iniziavano gli insulti e i palpeggiamenti”—a interventi diretti—un ragazzo, per esempio, ha raccontato di aver preso a pugni due uomini che, con la scusa di accendergli la sigaretta, avevano cercato di baciare la sua ragazza 19enne—fino al trattamento riservato a molte bariste e cameriere, destinatarie di commenti, baci, palpatine e richieste di pompini insieme alle birre.

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“Uno mi ha detto che se l'anno prossimo tornava, e scopriva che ero ancora fidanzata, mi avrebbe ‘legnata’,” racconta una di queste. “Erano tutti ubriachi fradici, fin dal mattino. Ho sofferto doppiamente perché ho reagito solo in parte, mi sentivo con le mani legate, impotente. Non potendo rischiare di perdere un lavoro ho reagito con stizza alle loro provocazioni, allontanandomi e cercando di tenerli a distanza per quel che potevo (la sera, quando mi sono trovata a spinare birra da sola, anche a spintoni e gomitate). Ma la rabbia è montata dentro di me, e ho realizzato solo ieri di quanto sia uscita ferita da questi tre giorni, ieri ho pianto più volte per la frustrazione provata.”

“Scappate, scappate, che tanto prima o poi vi ritrovate il nostro uccello in bocca,” riferisce di essersi sentita dire un'ex studentessa dell'università di Trento tornata in città per una visita. Per poi continuare: "mentre ballavo con i miei amici […] sento delle dita all'altezza delle mie costole che cercavano di sollevare il reggiseno, terrorizzata mi giro e vedo una mano che si ritrae di colpo. Dopo avergli intimato di non toccarmi il nobile uomo si è sentito ferito nell'orgoglio e anziché chiedermi scusa per il suo ingiustificato gesto ha iniziato a darmi della troia."

Nel caso delle donne di colore, i racconti restituiscono poi rivoltanti tratti coloniali, dal “che bela moreta, fammi un pompino” rivolto a una ragazza che stava prendendo le ordinazioni al “non mi faccio servire da una marocchina.” Per arrivare all’alpino che in presenza dei due nipotini vestiti in tenuta mimetica avrebbe detto a una venditrice ambulante: “Dai negra, o mi fai toccar le tette o sloggia.”

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Particolarmente incisiva è stata la lettera aperta Essere donna e mulatta in tempi di adunata, nella quale l’autrice descrive così il clima del weekend di Trento: “Chiudono le università, chiudono le biblioteche, chiudono gli asili nido. Ogni via si riempie di uomini in divisa, penne nere, fiumi di alcol, cori e trombe. Diventa labirinto inaccessibile e sala di tortura per qualsiasi corpo che non risponda alle prerogative di maschio, bianco, eterosessuale. (Ah, non deve avere coscienza critica, questo è chiaro). Diventa impraticabile e pericolosa per me che sono donna e mulatta. Esposta in maniera esponenziale a continue aggressioni verbali e fisiche.”

Come al solito le reazioni e i commenti a queste testimonianze e denunce sono polarizzati. Da una parte chi dimostra solidarietà, dall’altra chi parla di calunnie, di esagerazioni goliardiche o sposta la responsabilità sulle donne che hanno incautamente deciso di andare in giro per Trento proprio in quei tre giorni (che si sa che “ragazza onesta a casa resta”).

Non serve però essere accaniti antimilitaristi o militanti femministe per capire il doppio standard che regola eventi come questo. Dov’è finita l’ossessione di Trento per il famigerato “decoro urbano”? Perché la tendenza diffusa a scoraggiare ogni spazio di aggregazione potenzialmente rumoroso o “poco rispettabile” vietando alcol e rumori in questo caso è stata addirittura ribaltata? Aspettiamo risposte.