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La Capitale dell'indifferenza

Perché sembra che a Roma non freghi un cazzo a nessuno delle comunali?
Leonardo Bianchi
Rome, IT

La coppia di sposi giapponesi è sdraiata sul prato sotto l'arco di Costantino. Lei ha un vestito azzurrino, lui un completo scuro. Sono entrambi in posa per le fotografie di rito e ridono. Il Colosseo svetta alle loro spalle, due finanzieri entrano nei bagni chimici per pisciare e a pochi metri di distanza Silvio Berlusconi sta invitando l'attempata (e poco numerosa) platea di militanti del Pdl a rivotare Gianni Alemanno, perché Gianni "è il sindaco migliore" e ha "salvato Roma dal disastro."

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È il pomeriggio di venerdì 24 maggio, fa un freddo clamoroso, c'è sciopero degli autobus e la campagna elettorale per le elezioni comunali sta per finire in un clima d'indifferenza e mestizia generalizzata. Che il comizio finale di Alemanno sia spento lo si intuisce subito da due particolari: non ci sono né i contestatori (che dopo i fatti di Brescia il Pdl vorrebbe spedire in galera a norma di legge), né il consueto campionario di freak che accompagna le manifestazioni del centrodestra. Certo, qualcuno stoicamente si presenta sempre— come questo pseudo-sosia di Berlusconi—ma ormai ci hanno abituato a ben altro.

La situazione è talmente moscia che persino il vero Berlusconi è sotto tono: parla del Governo Letta in termini positivi e sembra quasi non dar troppo peso alla ricandidatura di Alemanno, che solo fino a qualche mese fa era considerata una presa per il culo persino all'interno del Pdl. Verso le sette di sera, dopo aver parlato poco più di dieci minuti, Berlusconi conclude stancamente con il solito appello evangelico: "Siete tutti nominati missionari di verità. Andate e convertite le genti." Subito dopo le casse sparano a tutto volume "Meno male che Silvio c'è" e la gente canticchia senza particolare trasporto. Un militante arrotola la bandiera del partito e scuote la testa: "Eh, non è più come una volta…" Stando a quanto ha riportato Libero, lo stesso Berlusconi si sarebbe lamentato del comizio, arrivando addirittura a dire che "era meglio se non andavo."

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Eppure nel 2008—quando Alemanno aveva espugnato il Campidoglio in un tripudio di paranoie securitarie, tricolori, fumogeni e saluti fascisti—la destra romana era finalmente riuscita a spezzare il dominio elettorale del centrosinistra e creare la storica occasione di "ripulire" e trasformare la Capitale una volta per tutte. Ma, come è ormai sotto gli occhi di tutti, il progetto politico di Alemanno & co si è rivelato un fallimento di proporzioni epiche, travolto da scandali di ogni tipo, degrado, inefficienza, colate di cemento, traffico sempre più insostenibile, aumento di tasse e criminalità (nonostante i cartelloni propagandistici), tagli selvaggi ai servizi sociali e crisi profonda del commercio.

Insomma, perdere queste elezioni contro questo sindaco uscente è davvero un'impresa ai limiti dell'impossibile—ma rimane comunque un'impresa assolutamente alla portata del Partito Democratico. Dopo aver avuto il coraggio di schierare Rutelli cinque anni fa, il Pd questa volta ha deciso di propinare a un elettorato esausto e umiliato dal governo di coalizione un candidato, Ignazio Marino, che per tutta la campagna ha disperatamente cercato di non apparire come il candidato del Pd.

I risultati di questa travolgente strategia si sono potuti toccare con mano in una piazza San Giovanni mai così triste per un evento politico di questa portata. Quando io e il fotografo arriviamo ci rendiamo subito conto che l'età media è altissima, le band hanno nomi improbabili (e suonano musica pseudo-balcanica da 1 Maggio) e il prato mezzo vuoto è un monumento alla desolazione.

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Mentre ci guardiamo attorno una signora di mezza età si accorge della macchina fotografica, chiede di essere ripresa e improvvisa una danza grottesca, sventolando con gran foga la bandiera per Marino Sindaco. Poi ci chiede se le immagini andranno in televisione e se "ce sta Rai 3." Le facciamo gentilmente notare che non abbiamo una telecamera, e lei ci rimane malissimo. "Ma ce la fa Marino secondo lei?" le chiedo. "Boh, penso de sì," risponde.

Il ritratto generale non è esattamente quello di una gioiosa festa elettorale: gli elettori e i militanti si aggirano smarriti per il prato e agitano fogli con scritto "daje"; i big del partito, tra cui Orfini, Gentiloni, Zingaretti e Fassina, si muovono circospetti tra gazebo e backstage; sul palco si alternano musica, "comici" desinistra e icone di fiction Rai che leggono poesie per Ignazio Marino. Quest'ultimo inizia il suo intervento verso le otto, e dichiara che "dobbiamo far somigliare Roma a questa nostra magnifica piazza." Applausi.

L'entusiasmo è così contagioso che persino il "segretario traghettatore" Guglielmo Epifani si lascia andare all'ottimismo davanti alle telecamere: "Roma appare come una città indifferente, che vive con distacco questo voto. Ma di questo ne riparleremo dopo il ballottaggio e potremo ripensare tutto." Oltre alla flemma, è da notare come il segretario del primo o secondo partito italiano dia per assodato (o magari come segnale di vitalità) il ballottaggio tra Marino e Alemanno—ossia tra colui che dovrebbe "rivoluzionare" la città e un individuo che fino a qualche settimana fa era un cadavere politico.

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Mentre Marino sta parlando mi ritrovo a fissare con sgomento lo slogan elettorale della campagna che campeggia sul palco, "Roma è vita", e lo confronto con quello che ho visto finora: una piazza in cui non c'è la minima traccia di vita. Decidiamo quindi di andare a cercarla in Piazza del Popolo, dove si tiene il comizio conclusivo del Movimento 5 Stelle.

La campagna elettorale del M5S è stata interessante principalmente perché Grillo non si è mai fatto vedere, almeno fino alla tarda serata di venerdì. E così è successo che Marcello De Vito, avvocato e candidato sindaco per il MoVimento, sia riuscito a entrare in polemica sul Teatro Valle occupato addirittura con Stefano Rodotà. In un'intervista a Micromega, De Vito aveva dichiarato: "Ci può essere sicuramente un dialogo, ma noi siamo per la trasparenza quindi faremo dei bandi pubblici e affideremo il posto a chi presenta la proposta più credibile." E alla domanda "vuole sgomberare il Valle?" De Vito aveva risposto: "Difendiamo la legalità." Rodotà, in una riunione della Costituente dei beni comuni (tenutasi proprio al Valle), lo aveva schiaffeggiato con queste parole: "Questo non ha capito proprio nulla, perché non riconosce la necessità di pratiche sociali per i beni comuni e tratta questioni così delicate come un affare di ordine pubblico, da governare con la polizia."

Ad ogni modo, anche Piazza del Popolo è lontana dall'essere piena. Il maxischermo di fianco al palco trasmette gli interventi dei vari Cittadiniportavoce in Parlamento, e il presentatore Matteo Ponzano—che è anche il volto de "La Cosa", quell'incredibile incrocio tra una hot line delle tre di notte e un canale di partito—li presenta alla platea di attivisti ed elettori. L'unico a scaldare un po' la piazza è il deputato Alessandro Di Battista, considerato il miglior oratore parlamentare del M5S. "Finalmente abbiamo capito che lavoro facciamo," dice Di Battista. "Noi guardiamo la mafia negli occhi tutti i giorni." E aggiunge: "Noi siamo ontologicamente diversi da loro. Siamo liberi dentro."

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Beppe Grillo sale sul palco alle nove e mezza, poco dopo l'insipido intervento di De Vito. "Se dobbiamo giudicare dalle piazza vinceremo senz'altro, perché tutte le altre sono vuote," esordisce. Come succede regolarmente a ogni sua apparizione pubblica, la piazza cambia completamente umore e atteggiamento. In più di un'ora di comizio, Grillo attacca in successione Pierluigi Battista del Corriere della Sera, il Governo Letta, il Partito Democratico, Giorgio Napolitano ("si è raddoppiato la carica") e Berlusconi ("Con Rodotà il nano sarebbe andato in galera"), ma non parla praticamente mai di Roma e delle elezioni comunali.

Grillo, del resto, sa che il 27,7 percento preso nella Capitale alle politiche è difficilmente replicabile. "A Roma forse non ce la faremo," ammette. "Forse voterete sempre gli stessi. Anche se non verrai eletto sindaco Marcello [De Vito], non te la prendere: metteremo sei o sette consiglieri dentro e sarà una grande vittoria. Apriremo il Comune di Roma."

Osservando le piazze vuote, il sondaggista Nando Pagnoncelli ha scritto che "le elezioni del sindaco di Roma sono sottotono rispetto al solito," soprattutto perché "manca il traino di elezioni a valenza nazionale" e "usciamo da un'overdose di politica." I dati sull'affluenza di domenica hanno fatto registrare un calo di 20 punti percentuali rispetto alle elezioni del 2008 (che erano però unite alle politiche).

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Le piazze di venerdì, tuttavia, fanno sorgere un'altra domanda: a cosa dovevano appassionarsi i cittadini romani in questa campagna? Ad Alemanno che posta foto con i gatti su Facebook e simpaticissimi fotomontaggi su Twitter?

A questo strabiliante spot del Movimento 5 Stelle?

Ai cuori e allo charme di Alfio Marchini, il candidato indipendente vicino alla ggente che ha incassato l'endorsement di due eroi del popolo quali Mario Monti e Pierferdinando Casini? Oppure a Marino che viene "attaccato" in piazza dagli animalisti?

Da quando è iniziato il silenzio elettorale tutta la stampa si è più o meno sorpresa del "distacco" e della "freddezza" della Capitale, denunciando i devastanti rischi dell'astensionismo. Ma quando l'offerta politica è lontana anni luce dalle spaventose disfunzionalità del quotidiano, l'assenza di visione organica per il futuro della città è totale e il profilo della maggior parte dei candidati è miserrimo, non appassionarsi è il minimo che possa accadere.

Roma non appare "una città indifferente", come ha detto Epifani: lo è in tutto e per tutto. E non potrebbe essere altrimenti.

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