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Come siamo arrivati a fregarcene della politica in Italia

Dopo l'alta percentuale di astensionismo delle ultime elezioni regionali, ho parlato con Daniele Giglioli di com'è ritrovarsi in una società in cui l'azione politica è "sentita come impossibile".
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Per la prima volta da quando ho compiuto 18 anni, alle elezioni di questa domenica ho deciso di non esercitare il diritto di voto. Nella mia regione, il Veneto, l'offerta politica era a dir poco deprimente: i tre candidati principali erano il leghista e governatore uscente Zaia, l'ex leghista Flavio Tosi e la renziana Alessandra "

Ladylike

" Moretti; il resto era rappresentato da liste marginali e freak indipendentisti. Vista la situazione, quindi, non ho nemmeno fatto lo sforzo di tornare in Veneto.

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In molti, quasi il 50 percento dell'elettorato chiamato a votare in quest'ultima tornata, hanno fatto lo stesso. Rispetto alle elezioni del 2010 il calo dell'affluenza è stato di ben dieci punti percentuali, ma ormai l'astensionismo—secondo quanto ricostruito dall'istituto Cattaneo—segue un trend consolidato in ogni appuntamento elettorale, e da parecchio tempo.

Non c'è, ovviamente, una spiegazione univoca a questo dato. C'è chi lo liquida come una faccenda fisiologica nelle odierne democrazie occidentali (non è così anche negli Stati Uniti, dopotutto?), o chi—come certi editorialisti e gli stessi politici—nemmeno lo considera, preferendo chiedersi se la sconfitta in Liguria potrà avere un impatto negativo sul governo Renzi.

Altri, invece, hanno cercato di rintracciare più in profondità i motivi di una simile percentuale di astensionismo. Alessandro Gilioli, ad esempio, ha scritto che quanto successo domenica è l'abbandono delle urne da parte dell'enorme aggregato degli "esclusi" senza rappresentanza, mentre il ricercatore dell'Istituto Cattaneo Dario Tuorti ha spiegato che se nel passato "una certa astensione esprimeva una forma di protesta verso il partito di appartenza," oggi sarebbe più corretto parlare di cittadini che scivolano nel disgusto e nella disillusione.

Per quanto mi riguarda, la decisione di disertare le urne è dovuta, da un lato, alla valutazione che con un'offerta del genere fosse inutile votare, e dall'altro alla sensazione che la partecipazione alla vita politica sia sempre più preclusa.

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Recentemente ho letto due libri che hanno fissato un sentimento che non riuscivo a esprimere compiutamente. Il primo si intitola Critica della vittima, il secondo Stato di minorità; l'autore di entrambi è Daniele Giglioli, docente di Letterature Comparate all'Università di Bergamo. Si tratta di due pamphlet non troppo lunghi ma decisamente densi—specialmente Stato di minorità, che cerca di capire come ci siamo ritrovati in una società in cui l'azione politica è "sentita come impossibile" perché "ineffettuale, senza esito, svuotata di ogni concretezza."

Alla luce del dato elettorale, dunque, ho pensato di approfondire questa sensazione e certi temi del libro direttamente con Giglioli.

VICE: Ciao Daniele. Vorrei partire dalla stretta attualità, ossia le ultime elezioni regionali, dove c'è stata un'alta percentuale di astensionismo. Ora, questo dato è sicuramente un rifiuto della politica; ma non può essere che sia anche una manifestazione d'impotenza?
Daniele Giglioli: È una questione molto complicata, e probabilmente le due cose vanno anche insieme. Un rifiuto della politica e basta è un'ammissione di impotenza, perché la politica ci costituisce. Chi pensa di non essere parte di un corpo politico si illude, perché viene deciso, le leggi e i provvedimenti amministrativi valgono anche per lui. Da questo punto di vista, rifiutarsi di partecipare alla politica è un'ammissione d'impotenza, che lo voglia o meno.

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Bisogna vedere se la politica è tutta nelle elezioni. Rousseau diceva che gli inglesi sono liberi una volta ogni quattro anni, e poi schiavi per i quattro anni che restano. Molto probabilmente, ora la sensazione è che dare la delega a qualcuno perché questi decida per te non sia più vantaggioso, o dignitoso.

Quando quelli che si offrono di governarti si assomigliano un po' tutti, credo che la disaffezione sia strutturale. L'alternativa è tra quelli che restano in un quadro di compatibilità in cui sempre meno è deciso dalle politiche nazionali, e tra le forze antisistema radicalmente di destra o molto confuse come può essere il Movimento 5 Stelle.

Se si fosse votato in Lombardia, personalmente non avrei votato. Anzi, avrei votato scheda bianca come i personaggi del romanzo di Saramago, Saggio sulla lucidità.

Matteo Salvini a Mestre. Foto di Giacomo Cosua.

A proposito di questo romanzo, che tu usi come "scheletro" in Stato di minorità , ci sono due casi locali in queste elezioni che ho trovato per certi versi simili al libro di Saramago. A Fontia, comune di nemmeno 200 abitanti, i cittadini non sono andati a votare per "provocazione"; a Platì, invece, non si si è presentata nessuna lista per paura dell'ndrangheta. Si può parlare, in questi casi, di impossibilità dell'agire politico?
In realtà i casi sono un po' diversi tra loro, e anche da quello di Saramago. Quelli che si sono organizzati per non andare a votare hanno fatto un atto politico, esercitando una forma di pressione politica anche molto forte, radicale, che si basa sull'autorganizzazione.

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L'altro invece è un caso di sub-politica, lì davvero è impotenza: che senso ha votare in un comune dove tutto è deciso dall'ndrangheta? Il caso nel libro di Saramago è un altro ancora, perché le persone votano scheda bianca ma lo fanno spontaneamente, non si desume nessuna forma di organizzazione.

C'è da dire che purtroppo le vie non-istituzionali sono molto poche, adesso esprimono più che altro momenti di rivolta e protesta, o magari ottengono qualcosa sul piano locale. Come in Grecia, dove obiettivamente una formazione alternativa si afferma, per poi scontrarsi con rapporti di forza che, ad esempio, ti chiudono il rubinetto del credito. Il senso di impotenza non è facile da aggirare, ecco.

Festeggiamenti ad Atene per la vittoria di Syriza alle elezioni greche del gennaio 2015.  Foto di Dimitris Michalakis.

Cosa si intende precisamente per "stato di minorità"? E come ci siamo finiti?
Lo stato di minorità è quando tu sei in qualche modo infedele, o al di sotto, alla grande promessa che ci è stata fatta: ossia il fatto di non essere più sudditi, di poter in qualche modo emettere (e mandare via) quelli che di volta in volta ci devono governare.

Tutto ciò è diventato una giustificazione ideologica di pratiche che non hanno nulla a che vedere con la sostanza di quello che sarebbe stata questa promessa—la modernità, l'emancipazione—che determina di fatto la condizione di minorità. Qualunque cosa tu dica, qualunque cosa tu voti, qualunque cosa tu pensi è ineffettuale. Pensa soltanto ai vari sistemi elettorali, compreso l'Italicum: nemmeno il proprio rappresentante si potrà eleggere, che già è poco.

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Da questo punto di vista, lo stato di minorità è un passo indietro rispetto a quello che negli ultimi tre secoli avevano promesso alla popolazione della modernità. È un ritorno alla condizione di sudditanza, per di più ipocrita. Formalmente tu dai il tuo assenso, spesso e volentieri farlocco, e quindi è a metà tra un imbroglio e una disillusione.

Manifestazione del 19 ottobre 2013 a Roma. Foto di Federico Tribbioli .

Un punto che tu sottolinei nel libro è come la società attuale abbia paura del conflitto, e come il conflitto sia stato sostituito dalle necessità della "coesione" e dell'"armonia."
Il conflitto è stato molto demonizzato negli ultimi trent'anni, un tempo reazionario che ha tentato di reagire ed esorcizzare lo spettro di quello che era stato il Novecento politico—un secolo in cui i conflitti erano qualcosa di positivo, di strutturante, di creativo, che producevano movimento nella società, cambiamento nella soggettività. La persona che è in conflitto, infatti, è una persona attiva.

Quando tu sei nella totale assenza di conflitto, sei frustrato. In questi anni, il grande capolavoro delle classi dirigenti è stato quello di far sentire sovrani quelli che sovrani non erano. Nel senso che non c'è alcun bisogno di porsi in una posizione conflittuale, perché le cose vanno bene così e comunque "non c'è alternativa," perché si sta peggio altrove.

E in parte è anche vero: il nostro modello di vita ha anche degli elementi di legittimità dalla sua parte. Ci si dimentica però che tutte queste cose sono state ottenute con altri conflitti, non sono state concesse dalla buona volontà delle classi dirigenti.

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Visto che hai nominato le classi dirigenti, negli ultimi tempi si è diffusa parecchio quella che tu chiami, in Critica della vittima, "ideologia della vittima." Chi è al potere, ma non solo, spesso e volentieri si ritrae come una vittima.
Si è diffusa abbastanza, sì. Berlusconi, ad esempio, ne ha fatto uso a piene mani sin da subito. Lui è riuscito nella prestazione logica di presentarsi come il più ricco di tutti e il più bravo di tutti, e al tempo stesso il più odiato da tutti. Lo stesso Renzi, a ogni critica che riceve, ripete "non mi fermo," "ce l'hanno con me," oppure "è una trappola per farmi cadere." Questo anche perché c'è pochissima capacità di proporre un ordine positivo di giustificazione delle proprie azioni.

Il caso dei marò, per fare un altro esempio, è molto indicativo di questa ideologia vittimaria. Queste due persone hanno commesso molto probabilmente un omicidio preterintenzionale, un errore di servizio. Può succedere. Però c'è questa idea che non debbano essere assolutamente processati, perché sono "i nostri ragazzi," e che le vittime siano loro e non i pescatori del Kerala.

Manifestazione per i marò a Roma, novembre 2013. Foto di Federico Tribbioli

Questa forma di vittimismo, comunque, non si limita solo alla classe dirigente. Penso al fatto che molti si sentono vittime dell'"invasione" di stranieri, oppure vittime del governo, della Casta, eccetera. Insomma, siamo diventati una società di vittime?
Sicuramente. Credo che non sia solo l'Italia, ma qui comunque si innesta sulle fragilità storiche e culturali che sono di lunga durata—quasi un tratto antropologico del nostro paese.

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Secondo me, sentirsi vittime degli stranieri è un abbaglio ideologico. Il fatto che le persone vogliano che i lavoratori stranieri restino senza diritti—perché poi nessuno veramente non li vuole, sparirebbe l'Italia se domani andassero via tutti gli stranieri—ha l'effetto, per esempio, di abbassare il costo del lavoro, da sempre una stella polare della nostra classe imprenditoriale. In realtà, tutto questo è un danno anche per i lavoratori italiani. Il punto qui è che l'ideologia vittimaria non crea unione, non crea un soggetto unitario che riconosce di avere lo stesso problema e si sforza di trovare una piattaforma comune.

La vittima, poi, è un dispositivo per produrre innocenza: se su ti dichiari vittima non hai nessuna colpa. Fa anche questo parte del circuito di impotenza, che mi fa dire "io non posso farci niente." E invece in teoria puoi, nessuno te lo impedisce. Questa è un po' la contraddizione della democrazia, per cui da una parte "potresti," dall'altra parte i percorsi concreti per farlo sono molto difficili da individuare. Il crollo della politica novecentesca è lì, nessuno se l'è inventato. I modi in cui le soggettività si organizzanivano sono obiettivamente in difficoltà.

Scontri al corteo No Expo del 1 maggio 2015. Foto di Stefano Santangelo

In effetti, la sensazione è che ci sia un'enorme cappa che inibisce qualsiasi azion e.
C'è una cappa che va dal fatto che sembra inutile, quando lo fai hai scarsi esiti—pensa al referendum sull'acqua pubblica, vinto ma sostanzialmente ignorato—e chi lo promuove viene ridicolizzato o stigmatizzato.

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A me ha molto colpito quello che è successo a Milano, la reazione che c'è stata dopo il corteo No Expo. L'idea che devi immediatamente ripulire tutto perché qualcuno ha solo pensato a un'alternativa radicale—poi magari portandola avanti in maniera sbagliata—mi pare un chiaro sintomo di minorità.

L'impressione è che chi sia andato a pulire si sia sentito una specie di alfiere dell'impegno civile, nonostante l'iniziativa fosse stata sostanzialmente organizzata dall'alto, dalle istituzioni.
Tra l'altro, chi ha pulito non credo fosse di estrazione sociale particolarmente abbiente—erano i "poveri" che vanno a pulire i quartieri dei "ricchi." Una persona, sempre in quei video, ha anche detto che "l'Expo dà da mangiare": ecco, quello è un lessico da sudditi, non un lessico da cittadini.

Spugnette in azione alla manifestazione "Nessuno tocchi Milano," 3 maggio 2015. Foto di Stefano Santangelo

Visto che hai parlato di Expo, mi aggancio a un altro tema che affronti nel libro: lo stato d'eccezione perenne in cui ci troviamo. C'è sempre un'emergenza a cui far frontel'allarme sicurezza, l'allarme terrorismo, le Grandi Opere, l'Expo. Anche questo ci porta a essere in uno stato di minorità?
Moltissimo. Se ci pensi, nella dottrina costituzionale lo stato d'eccezione è quando vengono sospese tutte le garanzie: per la salvezza della Patria, non vale più la Costituzione. Ma è qualcosa che si ha solo nelle situazioni, appunto, eccezionali. La cosa molto grave invece è l'idea che sia costantemente così, cioè che la vita umana non riesce a essere governata se non attraverso l'eccezione, e che quindi ci si debba abituare a questo fatto.

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Intanto questo mostra quanto le regole siano una crosta piuttosto fragile che si può rompere molto facilmente. Poi, nello stato d'eccezione non ci sono diritti—per il tuo bene ti viene detto esattamente quello che devi fare, e tu non puoi non farlo. Nello stato d'eccezione, insomma, l'impotenza è tecnicamente e giuridicamente sancita. Tu non puoi; quindi dai il tuo potere a qualcun altro.

Connesso allo stato d'eccezione, secondo me, c'è anche il discorso politico della "mancanza di alternativa" che avevi menzionato prima. A partire da Margaret Thatcher, viene comunque ripetuto che non esiste un alternativa a questo stato di cose. È veramente così?
A un certo punto le alternative si affacciano, a volte con tempi molto lunghi, e sono sempre processi collettivi, che sorprendono un po' tutti.

Una cosa che si può fare, però, è guardare sempre chi parla. Uno dei temi che c'è sempre un po' in tutti i libri che scrivo è quello del soggetto, dell' agency. Se la persona che trae beneficio dallo stato di cose presenti dice che non c'è alternativa, viene almeno il sospetto che la sua opinione non sia quella di un saggio terzo e disinteressato.

Per il resto, esisteranno sempre le élite; ma i momenti buoni sono quelli in cui le élite per governare devono comunque soddisfare almeno una parte degli interessi e delle istanze di quelli che hanno meno. In fondo, il capitalismo democratico occidentale si è retto su questo. Nel momento però in cui ciò viene meno, come adesso, emerge lo scheletro della sottomissione.

Selfie alla Leopolda 2014. Foto di Stefano Bizzarri

Per finire, trovo che un altro effetto dello stato di minorità sia quello di portare al rattrappimento interiore, che comporta in sostanza la rinuncia ad agire.
Sì, è un pensiero limitato, a corto raggio. Certe cose magari non le puoi fare, ma non è possibile che tu non le possa nemmeno pensare. È un rattrappimento in primo luogo dell'immaginazione. Infatti, molto spesso, quella che chiamiamo realtà è solo la nostra mancanza di immaginazione.

È anche un pensiero che da una parte rende piccoli, perché prepotenti, e dall'altra rende molto vecchi, perché una persona anziana ha la memoria, ma chiaramente non può avere molta immaginazione.

Kant diceva "osa pensare"— almeno pensare. Basta guardare al grande desiderio di delega che c'è ora, al fatto che tutti vogliono un leader, un simbolo, uno slogan. È come se fosse desiderabile non pensare da sè. C'è un'immaginazione molto atrofizzata, che ovviamente crea mostri. Mostri che, facci caso, derivano tutti dalla frustrazione.

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