“Hey Mr. Mixologist! Did you have to go college for this?”La cultura alcolica tropicale nasce da un retaggio storico preciso, che fonde europei, africani e Caraibi. Cresce con il popolo, con gli schiavi, con i contadini, nelle piantagioni caraibiche di canna da zucchero.
“Hey, Mr. Mixologist, ma sei andato all’università per far tutto questo?" è il ritornello di un video rap parodia del 2012, realizzato dal gruppo Fog and Smog, che prende in giro i barman più impegnati di Los Angeles. Ma, forse, è la stessa cosa che hai pensato anche tu, mentre assistevi alla preparazione del tuo ultimo drink in un locale che sperimenta.
Tutto l’universo Tiki si fonda su una menzogna e su una figura dai contorni mitologici, tal Don the Beachcomber , un viaggiatore piuttosto avventuriero per l’epoca, “che all’inizio degli anni Trenta impronta uno stile di miscelazione studiato a tavolino con prodotti già finiti, evoluto dalle basi cubano-giamaicane e dalla fusione delle culture tropicali affrontate in prima persona nel suo girovagare”, inizia a spiegarmi Gianni. “Da prima degli anni Venti, negli Stati Uniti era nata una passione sfrenata per la Polinesia, per l’esotico sconosciuto, un sogno ereditato dai racconti dei reduci della Grande Guerra, che potevano raccontare di aver sostato in quei paradisi tropicali. Don the Beachcomber rende tangibile il desiderio degli americani, creando dei finti drink polinesiani -i ‘tiki’ appunto- che restituiscono un sapore inesistente, perché naturalmente in Polinesia non si produceva rum e non si consumavano bevande alcoliche miscelate”.“Negli Stati Uniti era nata una passione sfrenata per la Polinesia, per l’esotico sconosciuto. Don the Beachcomber rende tangibile il desiderio degli americani, creando dei finti drink polinesiani - i tiki- che restituiscono un sapore inesistente”
La miscelazione Tiki amplia le fondamenta cubane ‘rum, lime e zucchero’ e apre un’innovazione nella secolare storia alcolica americana, proprio al termine del Proibizionismo, ma è doveroso scindere lo sviluppo Tiki e la miscelazione tropicale, perché la differenza è sostanziale.Per i caraibici, e ancor più nella cultura africana, l’alcol è un tramite spirituale e accompagna un rituale festoso, come uno funerario, in una sorta di concetto escatologico
Chiedo a Gianni perché in Italia si inizia a parlare di Tiki soltanto dai primi Duemila, considerando che negli USA raggiunge l’auge fra il 1957 e il 1963. “In Italia e in Europa la cultura Tiki non è mai arrivata, se non di sfuggita. Qualcuno ci ha provato, perché il Mai Tai, per esempio, è diventato un grande classico.“Il Tiki non arriva in Europa, perché muore di fatto negli anni Settanta, con un decorso graduale, a livello qualitativo e di interesse. La miscelazione che arriva oggi in Italia è la riscoperta di quello che facevano negli Stati Uniti fra i ’30 e i ’50”
Per azzardare un parallelismo, fra la Los Angeles degli anni ’30 e la Milano di oggi, mi affido a Stefano Nincevich, firma della redazione di Bargiornale, curatore della selezione Tiki presente al The Rum Day, in uno spazio appositamente allestito, autore di Cocktail Safari, un libro sulla storia di settanta drink. “Prima bisogna precisare che parliamo di due contesti storico sociali molto diversi, però potremmo paragonare il ritorno della giungla vera, rispetto alle giungle di cemento in cui viviamo, come una via di fuga dall’alienazione quotidiana. Rita’s Tiki Room è un posto che ti fa evadere dalla realtà milanese, che ti proietta per qualche ora su una spiaggia di Malibù. Una forma di escapismo che ci allontana dai rumori metropolitani, che ci libera dai grandi classici con i profumi, i colori e l’energia degli exotic cocktails”.“Il Tiki può ridurre il gap quel gap che esiste fra barman e cliente, trasportandolo fuori dalla quotidianità e proiettandolo per qualche ora su una spiaggia di Malibù”