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Le periferie romane sono in rivolta contro Roma

Così come l'assassinio di Khan Muhammad Sha­h­zad a Torpignattara è soltanto la punta dell'iceberg, Torpignattara è solo uno dei numerosi focolai della periferia di Roma.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Foto di Niccolò Berretta.

Quello che rimane della vita di Khan Muhammad Sha­h­zad, il 28enne di origini pakistane ucciso il 18 settembre a Torpignattara da un ragazzo italiano di 17 anni, è scritto su un volantino attaccato a un semaforo all’incrocio tra via Casilina e via della Marranella.

È il tardo pomeriggio di domenica 28 settembre, e poco più in là del palo—circondati dalle camionette della polizia e dal traffico di Roma—la comunità pakistana e alcuni comitati di quartiere sono radunati per ricordare il ragazzo. La settimana scorsa un sit-in di solidarietà a Daniel, questo il nome del ragazzo accusato dell’omicidio, aveva percorso le stesse strade del quartiere.

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“Shahzad era un giovane pakistano di 28 anni,” recita il testo. “Proveniva da una umile famiglia, era il figlio maggiore e per aiutare i genitori e la sua famiglia aveva deciso di venire in Italia a lavorare.” Secondo la ricostruzione della sua biografia, Shahzad aveva ottenuto subito il permesso di soggiorno e aveva iniziato a lavorare in un ristorante pakistano in zona Prati.

Negli ultimi mesi, in seguito alla perdita del lavoro, Shahzad era finito a fare il venditore ambulante per cercare di mandare denaro in Pakistan alla moglie e al figlio di tre mesi che non non ha fatto in tempo a conoscere. “I ragazzi del quartiere cono­sce­vano benis­simo Sha­h­zad,” ha dichiarato Ejaz Ahmad, mediatore culturale e direttore di Azad (giornale rivolto alla comunità pakistana di Roma). “Era un po’ distur­bato, que­sto è vero, ma non dava fasti­dio a nes­suno. Can­tava per strada le sure del Corano e in ita­liano diceva ‘Io sono musul­mano, sono paki­stano’.”

Mentre finisco di leggere il volantino, un passante si avvicina al semaforo e si ferma a guardare. “Era un bravo ragazzo, sì,” dice l’uomo. “Ma mica hanno scritto che je ha sputato in faccia.” Il riferimento è a una delle prime versioni circolate dopo la morte di Shahzad, subito descritto come un “clandestino” allo sbando, alcolizzato e molesto nei confronti dei passanti. Quella notte, stando alla versione della difesa, Shahzad avrebbe sputato addosso a Daniel, che per reazione gli avrebbe dato un solo pugno.

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L’autopsia sembra però confutare questa versione: Shahzad è stato ucciso con “ripetuti colpi” alla testa, che gli hanno provocato un’emorragia interna. E forse non era nemmeno ubriaco. Secondo la testimonianza del centro di accoglienza in cui il pakistano era ospitato dal 30 agosto, "Shahzad non è mai rientrato in stato di ubriachezza." Insomma, come sostiene l’accusa (che finora ha escluso il movente razzista), potrebbe essersi trattato di un pestaggio di gruppo.

Siamo di fronte a “scene di guerra etnica,” come ha pomposamente titolato Il Fatto Quotidiano? Probabilmente no, ma l’omicidio del giovane pakistano ha indubbiamente sporcato l’immagine di Torpignattara come modello di integrazione e convivenza tra etnie.

Foto di Niccolò Berretta.

Una simile narrazione, tuttavia, già da tempo mostrava vistosi squarci. Una residente del quartiere con cui parlo a margine del sit-in, oltre a lamentare la “totale assenza delle istituzioni” mi racconta che l’omicidio “è solo la punta dell’iceberg di continui atti di provocazioni” che vanno dalle aggressioni verbali a quelle fisiche, spesso e volentieri non denunciate. A più di una settimana dalla morte di Shahzad, insomma, il clima nel quartiere “è ancora abbastanza teso.”

Torpignattara, tuttavia, è solamente uno dei numerosi focolai di tensione della periferia di Roma.

Pochi giorni dopo la morte di Shahzad, a Corcolle (quartiere di Roma est a ridosso del GRA) una “quarantina di extracomunitari” ha assaltato un autobus di linea colpendolo con sassi e bottiglie. Ci è voluto un po’ prima che su questa aggressione si facesse chiarezza e si ricostruisse il contesto. Secondo quanto raccontato su DinamoPress, nell’arco di due ore i migranti si sarebbero visti passare davanti tre autobus che non si sono fermati. Al quarto è esplosa la rabbia. Come è emerso in seguito, il tirare dritto alle fermate con molti migranti che aspettano sarebbe “uso comune di non pochi autisti.”

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L’assalto al bus ha a sua volta provocato la reazione altrettanto rabbiosa dei cittadini, che hanno bloccato via Polense e scatenato un’autentica caccia all'immigrato, ritenendo responsabili i circa 40 migranti “ospitati” in un centro di accoglienza aperto di recente. Le aggressioni indiscriminate hanno fatto finire tre nigeriani (tra cui un abitante della zona, sposato con un’italiana) all’ospedale. Il 22 settembre, inoltre, un’altro bus dell’Atac al cui interno viaggiavano alcuni immigrati è stato preso d’assalto—questa volta da italiani, però.

Dopo la protesta anti-immigrati, la Prefettura ha tentato di correre ai ripari trasferendo 15 stranieri in altri centri d’accoglienza. Nel frattempo si è cercato di capire chi ci fosse dietro alle proteste. Alcuni articoli parlano apertamente di elementi di estrema destra (nel quartiere è anche apparsa la scritta “No neri” accompagnata da una svastica e una celtica); le indagini ufficiali, invece, parlano di responsabilità della “criminalità di Tor Bella Monaca,” che avrebbe ordinato la spedizione punitiva.

La destra, ad ogni modo, non è stata a guardare e ne ha subito approfittato per sfruttare politicamente la situazione, che è ancora lontana dall’essere risolta (il centro per i rifugiati continua a essere blindato dalla polizia). Domenica scorsa Giorgia Meloni ha fatto un salto a Corcolle per “conoscere di persona questa realtà,” e ieri l’eurodeputato della Lega Nord Mario Borghezio ha sparso il suo verbo di distensione e fratellanza tra popoli: “Se [gli immigrati] rimanessero tranquilli all'interno del loro centro non ci sarebbero tensioni, ma dal momento che spesso girano in gruppi consistenti e sotto l'effetto di bevande alcoliche c'è il rischio che la situazione possa degenerare.”

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Borghezio a Corcolle. Foto via Facebook.

Per quanto possa sembrare strano, non è la prima volta che Mario Borghezio si è fatto vedere nella periferia romana per cavalcare l’esasperazione di cittadini che si sentono completamente abbandonati dalle istituzioni e lamentano la mancanza di servizi.

Durante le elezioni europee dello scorso maggio il politico leghista era stato a Settecamini, sempre nella periferia est di Roma, dove dall’aprile del 2014 erano in corso proteste contro l’apertura (poi definitivamente bloccata) di un centro per i rifugiati. Borghezio era comunque in ottima compagnia: insieme a lui c’era CasaPound, che fin dall’inizio ha attivamente “sostenuto” la mobilitazione.

Sempre a maggio, nel quartiere di Ponte di Nona era stata organizzata una manifestazione per chiedere la chiusura del campo rom di via di Salone “a seguito dei diversi episodi di criminalità […] e i ripetuti roghi di spazzatura.” La mobilitazione, a cui hanno partecipato CasaPound e l’europarlamentare di Forza Italia Antonio Tajani, si è però rivelata un sonoro fallimento: vi hanno preso infatti parte “solo una decina di residenti,” un “nutrito gruppo di abitanti di Settecamini” e soprattutto i fascisti del terzo millennio, “la componente più numerosa e riconoscibile del corteo.”

L’organizzatore della protesta era il Caop (sigla per “Coordinamento azioni operative Ponte di Nona”), un “ristretto gruppo di cittadini” che da qualche tempo si è messo a fare delle specie di “ronde” per le strade del quartiere. Il presidente è Franco Pirina, che recentemente ha partecipato al tristissimo corteo di CasaPound & Borghezio tenutosi nel centro di Roma.

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Se non fosse abbastanza chiara, l’ideologia del comitato emerge piuttosto chiaramente dalla loro pagina Facebook, che oltre alle informazioni “operative” sulla “vigilanza” del quartiere contiene immagini di bandiere italiane, divise dell’esercito e cuoricini a palla per i due marò.

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Pubblicazione di CAOP Ponte di Nona.

A volte, tuttavia, a far scendere in strada i residenti di certi quartieri sono sufficienti delle “indiscrezioni” sull'ipotetica apertura di un nuovo centro per rifugiati. È successo questo luglio a Torre Angela (sempre Roma est), quando si è sparsa la voce di un presunto piano delle Prefettura per trasformare un vecchio centro commerciale abbandonato in un centro d’accoglienza.

Nonostante la smentita di Marco Sciopioni, “minisindaco” del Municipio VI, i cittadini non si sono fidati e hanno ripetutamente bloccato via Casilina. Nel corso di una protesta, come ha riportato RomaToday, “sono apparsi due striscioni con una croce uncinata e la sigla A.F., acronimo di Azione Frontale, gruppo riconducibile alla galassia dell’estrema destra.” La presenza di estremisti di destra, sempre secondo il sito, ha spaccato il fronte dei residenti e alimentato la “paura di uscirne screditati o peggio additati come intolleranti o neofascisti.” Le manifestazioni, infine, sono cessate quando è arrivata la definitiva smentita dalla prefettura.

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I fili conduttori delle proteste che in questi mesi hanno scosso la periferia di Roma sono diversi. La molla che fa scattare la mobilitazione, tuttavia, è indubbiamente l’opposizione ai centri per i rifugiati (il cui acronimo ufficiale è Sprar, Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Nel quadrante est ci sono almeno 15 centri, e alcuni operatori hanno descritto così il clima che si respira in queste strutture: “I cen­tri sono troppo iso­lati geo­gra­fi­ca­mente e social­mente, messi in peri­fe­ria e senza ser­vizi di alcun tipo, è nor­male che esplo­dano conflitti.”

La protesta di CasaPound contro il degrado e i campi rom del 12 luglio 2014. Foto di Niccolò Berretta.

Per capire meglio cosa si muova dietro a questi centri ho quindi chiamato l’avvocato Salvatore Fachile dell’ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), che ha evidenziato una serie di problemi strutturali, inclusi la scarsa professionalità e competenza degli operatori, i lunghissimi tempi di evasione delle richieste di asilo (a Roma si può arrivare fino a un anno e mezzo), l'approccio emergenziale alla questione e appunto l’isolamento dei rifugiati: “Non si può pensare di accogliere delle persone in numeri elevati senza offrire loro un percorso di accoglienza adeguato, che è quello previsto dalla normativa europea.”

“Se un numero elevato di persone viene ammucchiato in luoghi privi di servizi,” continua Fachile, “dove non gli viene neanche spiegata qual è la tempistica, dove sono costretti ad attendere tempi lunghissimi in uno stato di sospensione esistenziale, poi è normale che si creino situazioni di questo genere e incomprensioni sociali da entrambe le parti.”

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Una situazione del genere, in cui è difficile scorgere il confine “tra la malafede e l’incapacità” delle istituzioni, inevitabilmente dissoda il terreno per l’infiltrazione, o quantomeno il tentativo di infiltrazione, nelle proteste da parte dell’estrema destra. “Quando parliamo di tensioni sociali,” conclude l’avvocato, “ovviamente parliamo di tensioni che vengono create anche da strumentalizzazioni da parte di persone che hanno una chiara impronta discriminatoria, razzista e xenofoba, che aspettano episodi del genere per poter cimentarsi in attività tese a fomentare gli animi.”

L’opposizione ai centri si intreccia anche ad altre tematiche, tra cui gli effetti di una sfrenata speculazione edilizia (Corcolle, ad esempio, è nato come un quartiere “abusivo”), la percezione di degrado, la richiesta di sicurezza, il traffico di droga e la presenza della criminalità organizzata (specialmente al Pigneto), l’assenza pressoché totale delle istituzioni e l’odierna conformazione delle periferie. Secondo il professor Enzo Scandurra, direttore del Dipartimento di Architettura e Urbanistica per l'Ingegneria alla Sapienza, “le periferie di oggi sono molto diverse da quelle degli anni Sessanta e Settanta. Sono luoghi dove si è persa, secondo me, ogni speranza di riscatto.”

Le proteste evidenziano quindi la totale esclusione di una parte della cittadinanza. Gli abitanti di questi quartieri, afferma Scandurra, la città “la sentono raccontata solo al telegiornale, e ne vivono tutti gli aspetti negativi. Non è certamente la Roma di Sorrentino, ma è la Roma dei trasporti pubblici che non arrivano o che si rompono, o di infrastrutture che si sarebbero dovute fare e non si fanno. Loro vedono una Roma completamente diversa: è la loro città, ma in realtà gli viene negata.”

Dalla "Guida a Roma est." Foto di Valerio Mattioli.

Dopo la “caccia al nero” a Corcolle, il sindaco Ignazio Marino ha invitato a “mantenere la calma e non rinfocolare sentimenti di intolleranza.” Ma sono parole destinate a cadere nel vuoto, anche perché l'amministrazione comunale appare sempre più in balia degli eventi e incapace di governare le contraddizioni della Capitale. L’impressione—che in realtà è quasi una certezza—è che l'attenzione dell'attuale giunta sia esclusivamente concentrata su operazioni d'impatto come l'illuminazione "da Oscar" dei Fori Imperiali, senza avere la minima percezione di quello che si agita tra i palazzoni, i centri commerciali e i villini delle periferie romane.

Da Torpignattara a Corcolle, pur con tutte le dovute differenze, in queste ultime settimane si è imposta all’attenzione una specie di “seconda Roma”, una città nella città abbandonata a se stessa, che non ci sta a essere confinata ai margini della vita pubblica ed è pronta a riversare la propria collera sul bersaglio di turno—che molto spesso, come nel caso delle aggressioni ai migranti, è sempre un falso bersaglio.

In una prima versione del testo si faceva riferimento agli esami tossicologici svolti su Shahzad, dei cui risultati siamo ancora in attesa di conferma.

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