Lac laboratorio antropologia del cibo Milano
Tutte foto dell'autrice ove non specificato
Cibo

Il laboratorio di antropologia del cibo dove fare lezioni di cucine dal mondo

LAC a Milano è un luogo dove si incontrano culture diverse da tutto il mondo. Si impara a cucinare, ma non solo, insieme a cuochi da tutto il mondo.

“Molti dei cuochi sono italiani di seconda o terza generazione che purtroppo non hanno la cittadinanza”

Trovo che all'apparenza le scuole di cucina si somiglino un po’ tutte, da quelle che propongono corsi tradizionali, a quelle che propongono lezioni spot di cucina internazionale. Quindi quando ho sentito dell’apertura Lac, laboratorio di Antropologia del Cibo, ho cercato di capire se ci fosse un pensiero diverso alla base di questa “scuola" o fosse l’ennesimo posto dove imparare dei piatti e dimenticarsene la preparazione il giorno dopo.

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Ingresso di LAC

Giulia Ubaldi è un’antropologa che da anni studia il cibo come discorso sociale e culturale. Durante il primo lockdown ha deciso di investire in uno spazio in Giambellino, ex quartiere operaio di Milano dove abita, per riunire tante delle persone che aveva incontrato durante i suoi viaggi per il mondo. Tantissime le video call, mail e chat per selezionare storie culinarie uniche: “Inizialmente erano 50 le persone coinvolte, qualcuno si è perso per strada”, inizia Giulia. “La cosa più difficile ad oggi non è stata la burocrazia, e nemmeno i fornitori o le iscrizioni, ma la gestione di 35 cuochi, fra cui anche non professionisti, che non conoscono bene le dinamiche di questo mestiere”.

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Giulia Ubaldi al centro con i suoi docenti. Foto di Stefano Triulzi per gentile concessione di LAC

LAC è un osservatorio sulle culture che attraverso il cibo racconta storie di vita di 25 paesi diversi. Sì, si cucina e si mangia, ma l’aspetto culturale e le storie personali valgono quanto il piatto che si è imparato a preparare.

Decido che per capire se LAC è davvero una scuola diversa è meglio frequentare una delle sue lezioni. Davanti a me c’è il cuoco Ernesto Espinoza Velasquez.

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Ernesto Espinoza Velasquez e l'inizio del corso.

Ernesto è nato a San Bartolo, un paesino a sud di Lima, vicino al mare. I suoi genitori gestivano un chiosco sulla spiaggia e lui ha sempre “sognato di fare il cuoco. Sono cresciuto in barca con mio padre, pescatore professionista, che mi faceva mangiare il pesce appena pescato nel silenzio dell’oceano”.

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Non lo racconta solo a me, sono le frasi con le quali inizia la lezione. Siamo 8 iscritti (quelli ammessi per le restrizioni del Covid), seduti intorno all’isola della cucina che si trova al centro dello spazio. “Nel 2001 ho deciso di raggiungere mio padre in Italia dopo aver studiato nella scuola di Alta Cucina Peruviana HMS per continuare la mia carriera.” Ma non è andato tutto liscio, perché Ernesto ha dovuto fare mille lavori prima di rimettersi il grembiule: imbianchino, muratore, elettricista, in compagnia di tanti altri migranti arrivati come lui nel nostro paese.

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Durante la lezione chiedo subito alla mia vicina Allison se vive nel quartiere e come mai si è iscritta. “Vivo ad Assago, ma andando al ristorante thailandese qui vicino sono venuta a conoscenza di questo progetto e mi sono studiata il programma.” Il risultato che è già al terzo corso in tre giorni. Sempre da Allison scopro che nel pomeriggio inizieranno delle lezioni dedicate a genitori e figli, che a me sembrano un ottimo modo per far conoscere culture diverse ai più piccoli.

Ernesto ci richiama all’attenzione e prima di iniziare a elencare gli ingredienti per realizzare il ceviche, tema dell’incontro, ci fa viaggiare descrivendoci la sua terra, fatta di 72 microclimi diversi e una quantità infinita di varietà alimentari: “Per noi peruviani cinque cose contano: famiglia, musica, natura, religione e ovviamente il cibo.” Non ci dice in quale ordine, ma la musica deve avere una posizione di tutto rispetto perché da quando siamo arrivati melodie andine ci fanno da sottofondo (non tanto sotto, è piacevolmente alta.)

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Astou Ndiaye che con Giulia Ubaldi lavora da Lac

Ernesto, che si era emozionato parlando di sua nonna e delle patate che coltivava a 2300 metri, torna subito serio e inizia a preparare la linea. Vicino a lui c’è Astou Ndiaye, l’assistente di Giulia. Astou viene dal Senegal, è un’insegnate di francese ed è venuta in Italia per ricongiungersi con il marito. Ha iniziato a lavorare nel franchising milanese Panino Giusto, poi ha perso il lavoro e suo fratello, sarto di Giambellino, l’ha messa in contatto con Giulia. Qui tiene anche un corso di cucina senegalese. È molto timida e non parla molto, ma mi confessa: “Sono felice di fare parte di questo progetto, per me siamo una famiglia e lo sento sempre quando sono con loro” e aggiunge “Quando entro da Lac non mi accorgo del tempo che passa”.

Astou è l’unica dipendente di Lac, tutti i docenti lavorano a chiamata, circa un paio di volte al mese.

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Una lezione di Lac sulle empanadas. Foto di Emanuela Colombo per gentile concessione di Lac

Molti dei cuochi coinvolti sono italiani di seconda o terza generazione, in alcuni casi purtroppo senza la cittadinanza italiana: “Lac non ha uno scopo politico, è un progetto antropologico, dove la valorizzazione della persona e l’aspetto culturale sono il vero focus,” mi chiarisce Giulia, anche se poi il suo aiuto si è rivelato importante per agevolare Maria e Juan, una coppia di venezuelani rifugiati politici scappati dal loro paese a causa del regime, facendo da garante per far loro ottenere dei permessi. Nel 2014 avevano aperto una panetteria e pasticceria, luogo di pace dove sperimentare impastando, che purtroppo hanno dovuto abbandonare. Il loro corso in programma prevede le classiche arepas ma anche un pane dolce vegano. Questa scelta non è stata fatta per seguire una tendenza, ma per rispondere ad una mancanza: in Venezuela non c’era il burro quindi Maria, l’amante dei dolci della coppia, si è trovata costretta a realizzare dei dolci praticamente con pochissimi ingredienti. Da qui il corso di pasticceria vegana.

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Mi rendo conto, seguendo la lezione di Ernesto, che non conosco davvero la cucina peruviana. “La cosa che mi dicono più spesso è che credevano di aver mangiato i piatti tipici di un territorio, ma qui scoprono che in fondo sono delle versioni adattate, dei fake,” aggiunge Giulia. Devo ammettere che anche per me è stato così e non vedo l’ora di iscrivermi alla serata balcanica di Klodiana e Stela per conoscere i corretti usi dello yogurt tra un passo di Napoloni e l’altro, ballo tipico albanese che conclude la lezione in bellezza.

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La ricciola di 3 kg usata per la lezione

La qualità degli ingredienti è un altro punto centrale e me ne accorgo subito guardando la ricciola da quasi 3kg pescata da Erbert, che cerca di privilegiare una pesca sostenibile. I fornitori sono quasi tutti italiani come l’olio di Marco Rizzo del Cilento e il vino Ottaviani della Romagna, che si è dimostrato perfetto anche per le marinature e i barbecue delle carni filippine proposte. Durante le preparazioni in cucina vengono dati dai cuochi consigli utilissimi su dove e come recuperare gli ingredienti per noi meno consueti, come ad esempio il peperoncino Aji limo o il mais bianco Choclo. Chiaramente alcuni prodotti possono essere recuperati solo nei negozi internazionali, come ad esempio la birra Cusquena che mi sto bevendo anche se sono le 11 del mattino.

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Mentre Ernesto sfiletta la ricciola con grande maestria, ci spiega come utilizzare ogni parte del pesce, dandoci spunti fuori dal tema principale. I corsi non sono pochi e immagino che le quantità di cibo acquistato siano notevoli: non sarà facile rimanere nel food cost previsto. Ma spesso si ha la possibilità di provare le preparazioni del corso precedente così da evitare di buttare cibo avanzato, oltre che incuriosire il partecipante e invitarlo a iscriversi ad un’altra lezione.

Ai corsi partecipano davvero tutti: coppie giovani, sciure milanesi, pensionati, e certamente non sono tutte persone fissate col cibo. Alcuni sono incuriositi dalla formula inclusiva, che aiuta molto la socializzazione fra sconosciuti; io infatti sono tornata a casa con il numero di Lilla, una signora calabrese che si è appena trasferita a Milano. Me lo conferma anche Astou, che ormai ha lavorato a un po’ di lezioni: “I partecipanti sono sempre attenti e gentili. Hanno voglia di stare insieme”.

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Tiradito preparato dallo chef Ernesto

Il costo di ogni lezione è di 45 euro per 2 ore, tenendo presente che siamo a Milano e la media si aggira intorno agli 80 euro. Non è un corso standard, non sempre si cucina, ma io non l’ho vissuta come una mancanza perché c’è tanto altro (e devo dire che ho anche mangiato a sufficienza).

Certo, mi conferma Giulia, la cucina diventa terreno di scontro politico, ad esempio mi racconta come non sia stato facile far convivere la proposta del corso di cucina armena con quella dell’Azerbaigian, anche perché nella scuola c’è anche una docente turca: il conflitto tra i due stati per il controllo della regione autonoma del Nagorno Karabakh sta vivendo un nuovo violento scontro causato anche dall'intervento della Turchia. Tutto poi si è risolto naturalmente cucinando.

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Giulia Ubaldi e altri partecipanti al corso davanti alla Biblioteca del laboratorio

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Dopo aver mangiato faccio un giro nella biblioteca condominiale, l’ex box auto di Giulia. In pochi giorni è diventata un punto di riferimento del quartiere: le persone prendono e lasciano libri e anche i cuochi stessi stanno contribuendo ad ampliare il catalogo. L’atmosfera in generale è quella di casa: c’è un piacevole salotto con una libreria e una bacheca con oggetti dal mondo, in vendita. Lo spazio ospita già degli eventi “di livello” come per esempio Pane dal mondo, organizzato dal Forno Condiviso, presentazioni di libri e riunioni dall’associazione culturale La Fenice che organizza visite guidate in giro per la città e corsi di italiano per stranieri. 

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Ceviche preparato a lezione

In via Metauro 4 avvengono più cose simultaneamente: si cucina, si viaggia, si socializza, si imparano nomi propri, si sperimentano ingredienti sconosciuti, ci si informa di politica estera da fonti dirette e si mangia. Chiamarlo “corso di cucina” mi sembra davvero riduttivo.

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