Cannabis

La cannabis light toglie soldi alle mafie e dà lavoro, ma non va bene nemmeno così

Dopo il caos della sentenza della Cassazione, abbiamo parlato con alcuni proprietari di cannabis shop del loro futuro.
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Foto via Unsplash.

Anna e Andrea hanno 50 anni e nel 2017 hanno aperto l’Heaven Cannabis Light & Coffee Shop, un negozio di prodotti derivati dalla canapa in viale Monza, a Milano. Lavoravano in ambito commerciale per diversi brand italiani e internazionali, ma hanno deciso di lasciare tutto e trasformarsi in imprenditori in un settore—quello della canapa—che sembrava offrire buone prospettive.

La legge 242 del 2016, infatti, promuove gli utilizzi della pianta per fini alimentari, tessili, cosmetici e bioedilizi, stabilendo che il margine di tolleranza per il tetraidrocannabinolo (THC), il principio attivo con effetti psicotropi, è dello 0,2 percento, con una soglia di tolleranza che sale fino allo 0,6. Questa apertura normativa ha dato uno slancio molto forte al comparto: oggi ci sono circa 800 negozi di canapa light in giro per il paese, per una filiera che coinvolge oltre 10mila persone. Il volume d’affari nel 2018 è stato di 150 milioni di euro e per il 2021 si prevede di arrivare a 36 miliardi di euro a livello europeo.

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All’inizio, comunque, i due vendevano esclusivamente prodotti cosmetici e alimentari derivati dalla pianta; come sottolinea Anna, però, “non si vive di solo caffè, tisane e creme.” Per questo a dicembre scorso hanno investito circa 25mila euro per aprire una nuova linea in negozio, basata sulla vendita di infiorescenze di cannabis light. “Per diverso tempo abbiamo studiato questo nuovo mondo, visto il boom che stava attraversando e abbiamo deciso di fare un sacrificio economico, in ottica futura,” spiega. “Sono passati pochi mesi e ora minacciano di chiuderci le serrande.”

Il 30 maggio scorso le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno deciso che è illecito “commercializzare i prodotti derivanti dalla cannabis light.” La sentenza aggiunge caos a una situazione già di per sé molto complessa, e migliaia di impiegati nel settore oggi vivono in una situazione di totale incertezza, senza sapere che ne sarà del futuro loro e di quello della loro attività.

Stefano ha 28 anni e con un socio ha aperto il Green Clouds Cannabis Store, un negozio di canapa light in via Dante, a Como. “Prima facevo altro. Cameriere, barista, poi ho lavorato al banco di un negozio di sigarette elettroniche,” mi racconta, “a maggio scorso ho invece aperto la mia attività, dove ho investito la quasi totalità dei miei risparmi.” Adesso Stefano vende infiorescenze di cannabis light, ma ha ampliato la sua offerta anche al resto dei derivati della pianta in ambito cosmetico e alimentare. Diversi suoi clienti vengono per acquistare olii a base di CBD, il principio attivo della canapa che dà effetti rilassanti.

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Siccome le farmacie non riescono a stare dietro alla domanda di cannabis terapeutica, alcuni pazienti si rivolgono ai cannabis light shop su indicazione degli stessi farmacisti. “Ho qualche cliente che utilizza gli olii a base di CBD per patologie più serie, uno soffre di cefalea a grappolo e viene ogni due settimane a prendere il suo olio, un altro ne fa uso per controllare gli attacchi d’ansia,” mi dice Stefano.

Anche dal Canapa Caffè di Roma passano diversi pazienti della cannabis terapeutica. Carlo, tra i promotori della legge 242, ha aperto con alcuni soci questo punto vendita, in cui ha investito diverse migliaia di euro. “Il nostro è un punto di passaggio per tutti gli operatori romani del settore, ma anche un’oasi per chi ha bisogno di curarsi con cannabis terapeutica,” mi spiega. Nel negozio si vendono anche infiorescenze e in passato i suoi titolari hanno lanciato una competizione nel settore, la Cannabis Cup.

Quelle di Carlo, Stefano, Andrea e Anna sono solo alcune delle storie dei commercianti di canapa light in giro per il paese. “Mi sembrava il cavallo giusto su cui scommettere,” chiosa Stefano, replicando il pensiero dei suoi colleghi. Queste persone, però, devono guardarsi le spalle: a tutti gli effetti, c’è una nuova ondata di proibizionismo di cui potrebbero essere le prime vittime.

Lo scorso mese il questore di Macerata, Antonio Pignataro, ha disposto la chiusura di due negozi di cannabis light in città. “La cannabis light non esiste e i negozi che vendono queste sostanze per legge andrebbero tutti chiusi,” ha dichiarato. Questa personale guerra ai canapa shop è stata particolarmente apprezzata dal ministro dell’interno Matteo Salvini, un altro che da qualche mese ha deciso di includere il tema della droga nella sua agenda dei punti su cui fare vuota campagna elettorale. Il leader del Carroccio, storicamente favorevole alla legalizzazione, da qualche tempo ha cambiato idea sull’argomento: le sue bacheche social sono invase di video-denuncia contro i “venditori di morte,” mentre il suo ministero ha speso diversi milioni di euro per quell’operazione scuole sicure che ha portato al fermo di una manciata di minorenni in possesso di pochi grammi di marijuana.

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Questa crociata anti-cannabis da una parte ha creato malumori nei suoi partner di governo pentastellati, dall’altra ha dimostrato l’affinità con realtà politiche come Fratelli d’Italia. Nelle scorse settimane questi ultimi si sono inseriti a pieno titolo nel club, dando vita a un singolare flash-mob davanti alla Feltrinelli di Piazza Colonna a Roma, per protestare contro la messa in vendita di Read&Weed, la nuova linea della casa editrice Plantasia: dei box contenenti estratti di grandi classici della letteratura assieme a un grammo di cannabis legale con THC allo 0,2 percento.

E poi è arrivata la sentenza delle sezioni unite della Cassazione, alla quale ha fatto seguito una moltiplicazione dei sequestri in giro per l’Italia. A Torino sono stati ritirati 19 pacchetti da 2 grammi di cannabis light da un negozio sito in San Salvario, gli esami hanno poi dimostrato che il THC contenuto nelle infiorescenze era inferiore al limite stabilito dalla legge 242—ma al titolare gli agenti hanno comunque contestato la loro vendita. Questo perché la legge “tratta disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agro-industriale” e “non disciplina la libera commercializzazione del prodotto.” Nelle stesse ore, altri sequestri sono avvenuti in Emilia-Romagna, in Campania e in Molise.

Il punto è che la sentenza della Cassazione, almeno in principio, cambia di molto poco il quadro normativo. Come mi spiega al telefono l’avvocato Giacomo Bulleri, “se non costituisce reato ciò che non è sostanza drogante, allora è almeno 20 anni che sulla base della letteratura scientifica e della tossicologia forense si è stabilito che sotto al 0,5 percento di THC non si può parlare di droga.”

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Quanto affermato dalla Suprema Corte crea dunque una sorta di doppia legittimazione: per chi effettua sequestri, che può muoversi ora sulla base di una disposizione che vieta la commercializzazione di derivati della canapa; e anche per chi questa canapa light la vende, coperto da una sentenza che tra le righe dice che davanti a un THC inferiore allo 0,5 percento—come è per la totalità della sostanza in commercio—non si sta commettendo reato.

Una simile decisione però farà sentire i suoi effetti, come dimostrano anche i sequestri in corso. “Prima l’onere della prova stava alla polizia, che doveva dimostrare che quella che veniva venduta dai negozianti era droga,” sottolinea Bulleri. “Ora invece l’approccio della polizia potrà essere quello di andare a sequestrare a prescindere, poi starà al commerciante dimostrare che il prodotto in vendita nel suo negozio non aveva effetto drogante. Sembra poco ma nel concreto l’impatto si farà sentire, nelle zone dove già vi erano sequestri si avrà un inasprimento in questo senso.”


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Come mi spiega Carlo del Canapa Caffè di Roma, alcuni suoi colleghi hanno preferito tenere le serrande abbassate, questo per evitare di incorrere in spese legali in caso di controlli ed eventuali sequestri. Altri hanno tenuto aperto, sebbene in una condizione di totale incertezza. Diversi avvocati hanno consigliato di ridurre almeno in questo primo periodo la quantità di canapa nei locali, in modo da evitare di andare incontro a grosse perdite nel caso di sequestri preventivi della sostanza. Per migliaia di addetti è un momento molto difficile.

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“Ci sono persone con famiglia che hanno investito fior fior di soldi in questo business e ora non sanno che ne sarà della loro attività,” spiega Carlo. “C’è grande preoccupazione, ma anche dispiacere, proprio ora che si era dimostrata l’incidenza del nostro lavoro sulla lotta alla criminalità organizzata”.

Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica European Economic Review ha rivelato che l’apertura dei cannabis shop in Italia ha provocato una riduzione dello spaccio del 14 percento, mentre il fatturato delle mafie sarebbe diminuito per almeno 100 milioni di euro. “Viene quasi da pensare che si voglia fare un favore alle mafie perché se no non si spiega, le uniche a guadagnarci da questa criminalizzazione del mondo della canapa legale sono loro,” aggiunge Anna dell’Heaven Cannabis Light & Coffee Shop di Milano.

Quest’ultima ha aperto regolarmente la saracinesca del suo negozio, perché sa che la sentenza della Cassazione non corrisponde a una condanna. Il clima che si sta creando però la spaventa. “La trovo una questione prettamente politica,” denuncia. “Siamo certamente preoccupati, io ci ho messo dei soldi, pago regolarmente le tasse sulla mia attività e ho tutto in regola. Se in futuro dovessero chiudermi il negozio non recherebbero un danno solo a me, ma anche alla mia clientela.” Il giorno dopo la sentenza, mi racconta, un cliente abituale affetto da dolore cronico ha fatto un’ampia scorta di CBD in negozio, spaventato.

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Stefano, il titolare del Green Clouds Cannabis Store di Como, riesce invece a nascondere la sua preoccupazione. “Ho la tranquillità e la certezza di sapere da dove arrivano i miei prodotti, sono a norma. Questo mi fa stare sereno,” afferma. “Fino a che possiamo dimostrare che quello che vendiamo non ha effetto drogante siamo al sicuro e io in questi giorni sto lavorando tranquillamente, come era prima della sentenza. Certo, quello che fa rabbia è la natura politica di questa battaglia che ci stanno facendo.”

A sentire le voci del governo, infatti, si dovrebbe essere davanti all’inizio della fine per il settore. Il paradosso è che ci si dimentica che cancellare la filiera che si è creata attorno, in Italia, significa togliere lavoro a decine di migliaia di persone.

È alla luce di questo che da Federcanapa, la federazione della canapa italiana, fanno filtrare ottimismo. “In Italia quello della canapa light è un business pazzesco e ormai troppo sviluppato per poterlo affossare, ma soprattutto non è lasciando a casa migliaia di lavoratori in regola che si risolvono le cose,” mi spiega la vicepresidente Rachele Invernizzi.

Per lei, il grande dibattito di queste settimane potrebbe anche avere un risvolto positivo perché sta mettendo al centro dei riflettori un tema su cui finalmente si potrà fare chiarezza: la canapa, i suoi mille utilizzi e l’errore che spesso si fa, anche appositamente, nell’associare la pianta alla droga.

“Questa gente non ha capito due cose,” conclude Invernizzi. “In primis, che l’industria della canapa è ormai troppo avanti per poterla fermare. In secondo luogo, che non c’è niente di male a promuovere questa stessa industria, così da tornare all’Italia di ottanta anni fa, quella in cui eravamo il primo produttore europeo di canapa.”

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