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Cosa abbiamo capito dalle ultime elezioni amministrative

L'immagine che riassume meglio queste amministrative è sicuramente quella di Beppe Grillo che a Roma si affaccia alla finestra con al collo un appendino, le braccia al cielo e un umore sicuramente migliore di quello di Matteo Renzi.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

L'immagine che riassume meglio queste amministrative è sicuramente quella di Beppe Grillo che a Roma si affaccia alla finestra con al collo un appendino (sì, in omaggio del neo-sindaco di Torino Chiara Appendino), le braccia al cielo e un umore sicuramente migliore di quello di Matteo Renzi.

Del resto, se queste elezioni sono molto complicate da analizzare e non offrono un quadro uniforme a livello nazionale, è ragionevole dire che ci sia un vincitore—il Movimento 5 Stelle, che non solo si è preso Roma e Torino, ma ha vinto in 19 delle 20 città in cui era al ballottaggio.

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Oltre a ciò, e al di là di una quota d'astensionismo sempre più alta e persistente, queste elezioni mettono in luce molte situazioni diverse e sollevano spunti su cui sarebbe necessario riflettere in vista anche del referendum di ottobre. Abbiamo quindi provato ad analizzare quelli più importanti, e più in generale quali possono essere le implicazioni di questo voto locale.

A ROMA È FINITA COME DOVEVA FINIRE

Se solo un anno fa mi avessero detto che un giorno mi sarei svegliato leggendo la lettera del marito di Virginia Raggi, in una Capitale governata dal Movimento 5 Stelle, probabilmente mi sarei messo a ridere. Oggi però è la realtà, e non c'è più così tanto da scherzare.

In un certo senso era quasi scontato che finisse così. Il Partito Democratico ha fatto di tutto per consegnare la città ai propri avversari. Nell'arco di un anno e mezzo è rimasto pesantemente coinvolto dentro Mafia Capitale, ha defenestrato in maniera scomposta e brutale il proprio sindaco eletto, ha mandato avanti un candidato che—per quanto onesto e rispettabile—non è mai entrato in connessione con l'elettorato, e infine ha condotto una campagna elettorale che negli ultimi giorni è stata semplicemente disgustosa.

Sto parlando della questione della consulenza di Raggi alla Asl di Civitavecchia, su cui è stato montato un caso politico forzatissimo, si sono sventolati presunti avvisi di garanzia e addirittura sono stati inviati degli sms con scritto "RAGGI BUGIARDA." Il tutto, naturalmente è stato spalleggiato da alcuni quotidiani, che—è il caso di rilevarlo—non hanno più alcuna capacità di incidere sulla realtà.

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Il risultato finale, infatti, parla chiaro: il distacco tra Virginia Raggi e Roberto Giachetti è stato di quasi 30 punti percentuali; e, soprattutto, il M5S ha conquistato quasi tutti i municipi, ad esclusione del primo (centro storico) e secondo (Parioli). In periferia, questo predominio ha raggiunto percentuali da PCI a Cavriago—a Tor Bella Monaca, ad esempio, è arrivato quasi all'80 percento dei voti.

La vittoria a Roma, dunque, apre una nuova fase per il M5S. Qualche mese fa avevamo parlato di come il partito si stesse "istituzionalizzando" sempre di più; adesso, con la conquista della Capitale, ci potrebbe davvero essere un salto a livello nazionale. Ieri sera, al comitato elettorale di Virginia Raggi a Ostiense, Luigi Di Maio ha detto che "siamo pronti a governare."

LA VITTORIA DEL M5S A TORINO È MOLTO MENO SORPRENDENTE DI QUANTO SI CREDA

Un altro risultato eclatante per il M5S si è registrato a Torino, dove la candidata Chiara Appendino ha battuto il sindaco uscente Piero Fassino e ha posto fine a più di vent'anni di giunte di centrosinistra.

Lo stesso Fassino—insieme a diversi commentatori—è sembrato sinceramente sorpreso dell'esito. Dopotutto, ha detto, Torino è stata una città "ben governata" fino a ieri. Eppure, è proprio tra le crepe del famigerato "Sistema Torino"—locuzione coniata dal giornalista Maurizio Pagliassotti e usata più e più volte da Appendino—che è nata e cresciuta l'affermazione dei Cinque Stelle, che ha presentato una candidata moderata e mai sopra le righe.

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Se da un lato il processo di trasformazione post-industriale ha creato una città sempre più a vocazione turistico-culturale, dall'altro non è stata indolore: il debito del comune—che le Olimpiadi del 2006 hanno iniziato a scavare—è enorme (poco sotto i tre miliardi di euro); in una decina d'anni Torino è diventata la capitale della cassintegrazione e degli sfratti per morosità, e ha perso più di 100mila posti di lavoro; e in tutto questo, le periferie sono state sostanzialmente abbandonate.

E infatti—similmente a quanto successo a Roma—è in periferia che il M5S ha raccolto la maggior parte dei suoi consensi, come si nota da questa mappa.

Insomma, una parte della città—come nota un articolo della Stampa—si è sentita tagliata fuori dal cambiamento imposto sostanzialmente dall'alto, e alla prima occasione buona ha deciso di punire quelli che ha percepito come i responsabili.

LA LEGA NORD È ANDATA MALISSIMO OVUNQUE

Per quanto Matteo Salvini nel commentare i risultati abbia cercato di sminuire la sconfitta e abbia incolpato gli alleati del suo partito, per la prima volta dal 2013 la Lega segna una battuta d'arresto e ricopre un ruolo ampiamente marginale pressoché ovunque.

La sconfitta che brucia di più per il Carroccio è sicuramente quella di Varese, città in cui il partito venne fondato, che ha amministrato per gli ultimi 23 anni e che da ieri è nelle mani del centrosinistra. In più Salvini deve fare i conti con la disfatta di Milano, dove la lista della Lega è arrivata solo seconda, dietro a quella di Forza Italia. In Lombardia, caposaldo del leghismo, il partito ha vinto solo là dove si presentava con altre liste. Oltre a vittorie tutto sommato marginali, la Lega si può dire soddisfatta solo dei risultati ottenuti in Emilia Romagna, dove, pur senza riuscire ad ottenere nulla, ha registrato una crescita sensibile.

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LA PRIMA REPUBBLICA SOPRAVVIVE A BENEVENTO

Da anni—dopo vari scandali e la totale emarginazione che ne era seguita—Clemente Mastella era dato per disperso e politicamente finito. E invece, per dirla con Mark Twain, la notizia della sua morte era fortemente esagerata.

Ieri infatti Mastella è riuscito a imporsi nella sua città natale, Benevento. Sostenuto da due liste civiche di Forza Italia e dell'Udc, l'ex ministro della giustizia ha raccolto il 62 percento dei voti, e ha esultato dicendo di aver "sconfitto l'apparato del PD."

E insomma: pur trovandoci di fronte a uno scenario politico sostanzialmente inedito in tutta Italia, è davvero rassicurante sapere di poter contare su alcune certezze.

L'EREDITÀ DELLA "RIVOLUZIONE ARANCIONE" A MILANO E NAPOLI

Le due vittorie dei candidati di Napoli e Milano, rispettivamente Luigi De Magistris e Beppe Sala, rappresentano due storie a sé che entrano fino ad un certo punto nel contesto nazionale—piuttosto, dicono qualcosa sull'eredità della rivoluzione arancione 2011.

A Napoli, come ampiamente prevedibile, De Magistris ha doppiato lo sfidante di centrodestra Lettieri, rafforzando la sua auto-nomina ad anti-Renzi e leader in pectore di una fantomatica Podemos italiana. Ma oltre alla riconferma di De Magistris, queste elezioni a Napoli segnano il crollo del PD locale—affossatosi da solo con il famoso scandalo dei brogli durante le primarie—e soprattutto il trionfo dell'astensionismo: al ballottaggio ha votato solo il 35,98 percento degli elettori.

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Abbiamo vinto contro poteri e apparati,ma il popolo mi è stato accanto e ha vinto.Il nostro compito ora è far vincere Napoli e i napoletani.

— Luigi de Magistris (@demagistris)June 20, 2016

A Milano invece, la vittoria di Beppe Sala—che era quasi un dovere per il centrosinistra—può essere considerata una vittoria per Renzi e la coalizione soltanto sulla carta. I voti per il candidato di centrosinistra sono infatti il risultato, come è stato ripetuto fin troppo alla vigilia del ballottaggio, dell'eredità di Giuliano Pisapia e non sicuramente dell'influenza di Renzi. A dimostrarlo, il ruolo defilato dal premier sul finire della campagna elettorale e il fatto che Sala abbia più volte dovuto prenderne le distanze per racimolare voti.

IL VOTO DI IERI PUÒ SEGNARE LA FINE DEL "PARTITO DELLA NAZIONE"?

Nel comunicato stampa rilasciato poco dopo la chiusura delle urne il Partito Democratico ha ammesso la "sconfitta netta e senza attenuanti" a Roma e Torino, ma al contempo ha parlato di "una vittoria chiara e forte a Milano e Bologna contro i candidati delle destre."

Nella nota, poi si sostiene che "il quadro nazionale è molto articolato" e—contrariamente a quanto era stato detto al primo turno—si è ammesso che il dato elettorale "contiene alcune indicazioni nazionali su cui la direzione nazionale del PD rifletterà il prossimo venerdì 24 giugno."

L'aria che si respira all'interno del partito è dunque quella di una resa dei conti tra la minoranza interna e i renziani. Del resto, l'aveva promesso Matteo Renzi in persona già lo scorso 9 giugno: "Noi nel partito ci entreremo con il lanciafiamme, subito dopo i ballottaggi."

La minoranza PD sarà felice: — Fabrizio Rondolino (@frondolino)June 20, 2016

Per quanto il voto di ieri non sia certamente un colpo letale al renzismo, è innegabile che Matteo Renzi non ne esca bene. In particolare è soprattutto lo storytelling del premier ad apparire sempre più logoro e in affanno, così come lo sono le sorti del "Partito della Nazione." La vera sfida rimane comunque il referendum costituzionale di ottobre, dove Renzi si sta giocando tutta la sua carriera politica.

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